La protesta delle donne saudite: dalle strade alla rete all’ufficio del ministro

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Le autorità saudite potrebbero riprendere in considerazione il divieto di guidare imposto alle donne. È questa la novità a un mese esatto dalla manifestazione del 26 ottobre che avrebbe dovuto riempire le strade di Riad di automobili popolate da abaya nere e che, invece, allora, si era risolta in un nulla di fatto, per il timore degli arresti e per le minacce ricevute. A diffondere la notizia sono state, ora, due attiviste, Aziza al-Yusef e Hala al-Dosari, ascoltate dalla AFP, che hanno riferito di un incontro con il principe Mohammed bin Nayef, ministro dell’Interno saudita, avvenuto in maniera indiretta e cioè in video conferenza nel rispetto delle regole di separazione uomo-donna.

Nayef avrebbe assicurato che la questione verrà discussa, anche se resta comunque una prerogativa del legislatore decidere in merito e, in un sistema come la monarchia saudita, a decidere è il re. L’Arabia Saudita non ha infatti un parlamento eletto, ma un consiglio della Shura (Majlis Al-Shura) nominato che però ha solo potere consultivo.
“Ci aspettiamo un decreto reale che ci dia questo diritto” ha riferito detto Yusef, forse incoraggiata dalla nomina di 30 donne nel Consiglio che avevano già raccomandato l’eliminazione del divieto; raccomandazione puntualmente respinta dai 150 membri uomini.

La questione su cui puntano gli attivisti è che la costituzione saudita si basa sulla sharia e che nel Corano però non c’è traccia (per ovvie ragioni cronologiche) di questo genere di divieti. La richiesta del movimento del 26 ottobre vertevano proprio su questo.

Storia di un divieto fuori tempo…

Dopo che già nel 2011 le donne avevano utilizzato la rete per dare nuovo vigore alla campagna Women2Drive, lanciata già nel 1990 in risposta all’attuazione dell’anacronistico divieto, l’ultima mobilitazione del 26 ottobre ha chiamato in ballo in modo chiaro proprio il governo saudita chiedendo o di eliminare il divieto o di offrire una spiegazione giuridica per aver negato alle donne questo diritto.

Motivazione che non esiste perché la proibizione è, in realtà, solo una questione culturale, o meglio “sociale”, seguita da una fatwa e da un decreto adottato solo successivamente dal Ministero dell’Interno per formalizzare questa consuetudine.

La grande sfida è tutta qui e si legge al punto 4 e 5 della petizione online: nel caso in cui il governo saudita mantenga il divieto “domandiamo che presenti ai cittadini una giustificazione legale valida” e nel caso in cui il governo rifiuti di eliminare il divieto e di fornire al popolo una giustificazione valida “chiediamo che si offra alla società un meccanismo legale attraverso il quale possa esprimere ciò che vuole”. Una sorta di referendum, quindi, difficilmente pensabile in un Paese in cui ancora non vige lo Stato di diritto e in cui clero e monarchia regolano le vite dei propri cittadini sulla base dell’interpretazione più dogmatica dell’Islam.

Fra le ultime trovate a giustificare una censura che esiste e resiste ormai nella sola Arabia Saudita, c’è infatti proprio l’improbabile teoria di un religioso secondo cui guidare l’auto, a causa della posizione assunta dal corpo, comprometterebbe la salute di ovaie e dell’apparato riproduttivo fino a causare la nascita di figli con problemi clinici. Ovviamente non esiste nessuna ricerca scientifica a riprova.

…e di una campagna virtuale

Oggi, di quella manifestazione che è fruttata, comunque, il fermo e la multa per sedici coraggiose che hanno osato sfidare il divieto e le convenzioni sociali, è rimasto un rilievo mediatico che è uscito ben oltre i confini del Medio Oriente grazie ad alcuni account Twitter, a un sito ancora attivo (dopo essere stato sabotato per alcuni giorni subito dopo la data X) www.oct26driving.com e una petizione online, anche in inglese. La campagna, come già annunciato da Manal Al Sharif, altra attivista, andrà avanti fino alla data simbolica del “31 novembre”, cioè a oltranza, fino alla risoluzione della questione. Come sembrano confermare le notizie di questi giorni.

Più che la piazza reale ha potuto e può, dunque, l’agorà virtuale. Ed è proprio tutto questo clamore che le autorità di Riad non volevano. Anche perché la questione della guida è solo la punta di un iceberg molto profondo su cui è rivolta l’attenzione della comunità internazionale e che non riguarda solo le donne. L’ultima relazione di Amnesty International  presentata a Ginevra, durante il consueto appuntamento con il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu, ricorda proprio la mancanza di passi avanti in tema di diritti umani e le continue violazioni in atto nel regno che includono, oltre alla discriminazione sistematica delle donne e della minoranze, abusi nei confronti dei lavoratori immigrati (l’ultima notizia è dell’espulsione forzata di 700mila egiziani), esecuzioni basate su processi sommari e confessioni estorte sotto tortura; una pratica ancora diffusamente utilizzata, così come la pena di morte che in Arabia Saudita viene inflitta anche per reati quali l’adulterio, l’apostasia e la stregoneria (oltre che per crimini più gravi come lo stupro, il traffico di droga, rapina a mano armata). Nessuno delle raccomandazioni fatte già del 2009 sono state recepite, incluse le garanzie nei confronti delle donne.

Eppure, c’è ancora una parte della popolazione saudita che respinge le riforme ed esiste anche un contro-attivismo in questa direzione. Ci sono i gruppi che hanno manomesso il sito del www.oct26driving.com, ad esempio, e c’è anche una contro-petizione promossa da Rowdha Yousef e inviata al Ministero dell’Interno e al presidente del Consigli della Shura per impedire che venga autorizzata la guida per le donne con la motivazione che, oltre ad aumentare il rischio di incidenti, avrebbe un impatto sul tessuto sociale, sui valori della famiglia, sui sentimenti religiosi e sulla sicurezza. Rowdha Yousef è una madre separata e un’attivista che si è già fatta conoscere nel 2010 per la campagna dal nome parecchio evocativo “Il mio tutore sa cosa è meglio per me”, facendo riferimento alla legge saudita che impone alle donne l’autorizzazione di un guardiano (che può essere il padre, un fratello uno zio o il marito) per gestire molti aspetti della sua vita come lo studio, il lavoro, il viaggiare. E sia nel caso di quella campagna, sia ora, le iniziative di Rowdha sembrano aver ottenuto molto riscontro, segno di una società ancora divisa e controversa, ma evidentemente piuttosto attiva.

Vai a www.resetdoc.org

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