La disuguaglianza sempre un bene?
Proprio no. Ora ci pensino anche i liberali

Da Reset-Dialogues on Civilizations 

«La disuguaglianza fa bene», recita perentoriamente (e forse anche un po’ provocatoriamente) il titolo dell’ultimo libro di Nicola Porro dato alle stampe da La nave di Teseo. Scrive il vicedirettore de Il Giornale: «ci sono pochi preconcetti così diffusi e indiscutibili come quelli che riguardano la disuguaglianza. Essa starebbe clamorosamente aumentando e, ça va sans dire, sarebbe la causa dei grandi mali del secolo» [1]. Ma, spiega Porro, tutto questo non è vero; è solo un dogma! La disuguaglianza, in sé, non è «un problema economico, sociale e tanto meno filosofico» [2]. Ma è davvero così? Qualche dubbio, a riguardo, è lecito nutrirlo.

Cerchiamo di capire perché.

Per cominciare, bisogna subito confutare una leggenda, tanto falsa quanto diffusa: le disuguaglianze – a dispetto di quanto teorizzato dai fautori di un presunto stato di uguaglianza originario, poi alterato dall’avvento di entità malefiche (sic) come il mercato, il capitalismo, la proprietà privata o il progresso tecnico-scientifico (l’esempio più illuminante, tra i tanti, è quello di Jean-Jacques Rousseau) – le disuguaglianze, dicevamo, non sono un prodotto della civiltà, ma un dato oggettivo, naturale, per certi versi ineliminabile delle società umane. Derivano dall’intrinseca diversità degli individui, che si differenziano per sapere, ingegno, talenti, struttura fisica, provenienza sociale, e così via dicendo. Ma, soprattutto, la loro origine è da ricercare in un altro elemento caratteristico – anch’esso ineliminabile – dei sistemi socio-economici complessi: il principio della divisione del lavoro, che, essendo gerarchica, fa in modo che vi siano inevitabilmente delle professioni di grande prestigio e dei mestieri umili, delle attività gratificanti e delle occupazioni alienanti, dei lavori più retribuiti e degli altri meno retribuiti [3].

Il problema, dunque, non è quello delle disuguaglianze in sé. Queste, come abbiamo appena accennato, sono sempre esistite (con la sola eccezione delle società primitive, che erano caratterizzate, appunto, da una divisione del lavoro soltanto allo stato embrionale). E non sempre, come ricorda giustamente Porro, sono un male. Anzi, le disuguaglianze nei punti di arrivo sono, per certi versi, benefiche: possono incentivare gli individui a studiare e ad innovare, a lavorare sodo e ad impegnarsi. Un processo, questo, dal quale, senza scomodare Bernard de Mandeville o Adam Smith, l’intera società finirà per trarne profitto. Quando Steve Jobs ha ideato l’iPhone, ad esempio, era mosso dalla propria egoistica visione (forse anche di arricchimento), non dalla volontà di migliorare la vita di milioni e milioni di persone in tutto il mondo. Ma inconsapevolmente l’ha fatto. Se però questa legittima visione fosse stata sacrificata all’altare di un forzato egualitarismo, il genio di Cupertino avrebbe dato comunque sfogo al suo demone creativo? Molto probabilmente no. Non sarebbe stato incentivato. E la società tutta avrebbe perso qualcosa di grande (e di utile). E di altri esempi come quello di Jobs se ne potrebbero fare a iosa.

Le disuguaglianze, però, non sempre sono buone e legittime, come nell’esempio appena ricordato: possono essere anche cattive ed illegittime. Ed è tutto qui il cuore del problema. Diversamente dalla povertà che è uno stato, le disuguaglianze sono un rapporto, che misurano la distanza che esiste tra determinati soggetti (siano essi i singoli individui di una determinata nazione o anche i cittadini del mondo nella sua interezza) in relazione ad una variabile preventivamente considerata (che può essere la distribuzione del reddito e della ricchezza, se la si colloca, come di consueto accade, in ambito economico). Il problema, quindi, non è se debba esistere o non esistere la disuguaglianza, ma quanta (e quale) disuguaglianza è tollerabile. Molto dipende dai fattori d’origine, dalla tipologia di disparità, dall’ampiezza del fenomeno e, forse soprattutto, dagli effetti che questo genera sul benessere sociale e sulla crescita economica. Ad esempio, è legittima una disuguaglianza figlia non di una reale concorrenza meritocratica ma del godimento di rendite monopolistiche, corporativistiche o familiari? La domanda, ovviamente, è retorica. Ancora: è tollerabile sistemicamente una disuguaglianza che drenando risorse al ceto medio, pregiudica il ritmo e la portata della crescita economica? Anche in questo caso, la domanda è volutamente retorica. Infine: è accettabile una disuguaglianza nei punti di arrivo (cioè dei fini, dei risultati) che non è stata preceduta da un’effettiva uguaglianza nei punti di partenza? Fare la domanda, anche in quest’ultimo caso, è un poco rispondervi; e con i quesiti retorici si potrebbe ancora continuare a lungo. Cerchiamo però di entrare brevemente nel merito di alcune delle questioni appena poste.

Nel libro di Porro si può leggere che «la funzione del consumo di keynesiana memoria, secondo cui la propensione alla spesa decresce con il reddito», sarebbe «empiricamente inesatta» [4]. Peccato che siano proprio le evidenze empiriche a narrare un’altra storia. Stando a quanto documentato da Joseph Stiglitz, nei paesi dove l’Indice di Gini (cioè quell’indicatore che comunemente è utilizzato per misurare il grado di disuguaglianza in una società) aumenta, si può osservare il moltiplicatore della domanda (e degli investimenti) diminuire e il Pil, di conseguenza, frenare. Mentre, per converso, nelle realtà con disuguaglianze più contenute, la portata della crescita è più veloce e stabile [5]. E non è difficile comprendere il perché di questa correlazione. La propensione marginale al consumo diminuisce all’aumentare del reddito. Ciò significa che se la distribuzione favorisce i ceti più abbienti a scapito del ceto medio, la crescita non può che risentirne. La flessione dei consumi del ceto medio non è compensata dai più ricchi. Questi possono comprare un’automobile, due automobili, tre automobili…ma non mille automobili! Detto con un sillogismo: la riduzione dei consumi comporta una contrazione della domanda aggregata; la minore domanda, a sua volta, si traduce in una flessione della produzione; la riduzione della produzione determina un calo degli investimenti e dell’occupazione; inaugurando un circolo vizioso che autoalimentandosi termina inevitabilmente con una vera e propria recessione. E questo stato di cose, paradossalmente, deve preoccupare soprattutto i ricchi, perché, come scrive il Nobel statunitense, «una crescita economica sostenuta, condizione della loro stessa prosperità, non può aver luogo mentre la grande maggioranza dei cittadini ha redditi stagnanti» [6]. È la lezione di Keynes! Che Henry Ford, nel secolo scorso, aveva compreso bene: se voleva vendere più automobili doveva mettere nelle condizioni di acquistarle anche coloro che le producevano. Furono queste considerazioni, non un astratto filantropismo, che lo spinsero ad aumentare i salari degli addetti alle catene di montaggio. E col suo operato da capitalista intelligente, pragmatico rese prospere sia la sua azienda che gli operai che vi lavoravano. Con ricadute benefiche, ovviamente, sul benessere sociale ed economico complessivo. Basti pensare che oggigiorno ha finito col riconoscerlo anche un’istituzione tutt’altro che progressista come il Fondo Monetario Internazionale: «i nostri studi – ha dichiarato la sua Direttrice Generale Christine Lagarde in un’intervista al Corriere della Sera – arrivano a due conclusioni: Primo: le disuguaglianze dei redditi non favoriscono una crescita sostenibile. Secondo: l’idea che la redistribuzione del reddito non contribuisce a sostenere le economie è con ogni probabilità infondata» [7].

Scrive ancora Porro: il principio di uguaglianza, letto in una declinazione liberale, è «una questione di pari opportunità, di uguali chance. Non di risultati uguali. Uno stato moderno può e deve dare una chance a tutti, indipendentemente dai natali» [8]. Siamo d’accordo. Peccato che anche in questo caso le evidenze empiriche dimostrino che sono proprio le disuguaglianze elevate ad impedire il godimento di un’effettiva uguaglianza di opportunità. I dati dimostrano che i paesi che presentano gli indici di disuguaglianza più elevati hanno anche i più bassi livelli di mobilità sociale. In questi paesi i figli hanno un’alta probabilità di avere una posizione sociale e reddituale che tenderà a riflettere quella dei genitori. I ricchi molto probabilmente resteranno ricchi, mentre i poveri continueranno ad essere poveri. Questo principalmente per due motivi: l’importanza sempre maggiore che assumono i patrimoni ereditati e il ruolo, anch’esso ogni giorno più determinante, che le famiglie di provenienza hanno nel determinare il successo futuro dei propri figli, incidendo, in modo particolare, sul loro percorso scolastico ed educativo. Un pericolo, questo, dinanzi al quale ci metteva in guardia già Luigi Einaudi più di mezzo secolo fa nelle sue Lezioni di Politica Sociale: «Quale colpa ha un bambino di essere nato da genitori miserabili e per giunta viziosi, alcolizzati ed ignavi e di essere perciò costretto a morte precoce ed in caso di sopravvivenza, a vita dura, in stanze sovraffollate, in ambiente privo di ogni luce spirituale e morale, predestinato alla miseria, alla delinquenza e alla prostituzione? Qual merito ha un altro bambino, se, nato frammezzo ad agi (…) ha avuto larghe possibilità di coltivar la mente, di frequentar scuole ed ottenere titoli, che gli hanno aperto la via ad una fruttuosa carriera, del resto facilitata dalle molte relazioni di parentela, di amicizia e di affari dei genitori? Il povero resta dunque povero e il ricco acquista ricchezza non per merito proprio, ma per ragion di nascita; ed ai posti di comando, nelle imprese economiche, nel governo degli stati, nell’amministrazione pubblica, nelle lettere, nelle scienze, nelle arti, nell’esercito giungono non i più meritevoli, ma quelli che meglio furono favoriti dalla sorte dalla nascita» [9]. Una dinamica, questa, dalle ricadute enormi sull’efficienza complessiva del sistema economico: «Quante invenzioni utili, quante scoperte scientifiche, quanti capolavori di scultura, di pittura, di poesia, di musica – osservava ancora Einaudi – non poterono mai giungere a perfezioni perché l’uomo, il quale vi avrebbe potuto dar nascimento, dovette sino dai primi anni addirsi a duro e brutale lavoro, che vietò di far germogliare e fruttificare le qualità sortite da natura? La produzione medesima economica non sarebbe forse grandemente diversa da quella che è e maggiore se tutti gli uomini potessero ugualmente dar prova delle proprie attitudini di lavoro, di invenzione, di iniziativa e di organizzazione? La produzione è quella che è, partendo dalla premessa che solo una minoranza degli eletti può giungere sino ai posti di comando; ma sarebbe ben diversa se la selezione degli eletti potesse farsi tra l’universale degli uomini» [10].

Quindi, se è vero, come osserva Porro, che è dogmatico affermare che le disuguaglianze sono un male; si deve convenire che è altrettanto dogmatico affermare il contrario, cioè che le disuguaglianze sono sempre un bene. Quando si discute di disuguaglianza, distinguere, tenere sempre presente la complessità del fenomeno, è fondamentale. Più che arroccarsi su posizioni manichee, su alternative troppo nette (“la disuguaglianza è sempre un bene” oppure “la disuguaglianza è sempre un male”), è questo l’interrogativo che deve costantemente guidarci: siamo al cospetto di forme legittime, ragionevoli ed accettabili di disuguaglianze? È tutto qui il problema. Non a caso gli economisti su di esso ci si arrovellano il cervello da decenni. Ovviamente, a questo dilemma può essere data una risposta solo ipotetica, tendenziale, non definitiva. Questo perché nella realtà concreta non è semplice (è forse nemmeno possibile) stabilire il punto preciso, il livello oltre il quale la disuguaglianza, da fattore incentivante e sistemicamente tollerabile, diventa un fattore ostacolante e sistemicamente inefficiente. Non esiste, in sostanza, una linea di demarcazione netta che separi millimetricamente la buona dalla cattiva disuguaglianza; una linea, cioè, dinanzi alla quale troneggia un cartello di pericolo con su scritto: fin qui la disuguaglianza si può spingere, ma non oltre! Questa condizione, però, non deve comunque esimerci dal porci il summenzionato interrogativo. Pur non potendo dare ad esso una risposta risolutiva, non bisogna mai dimenticare che l’esperienza pratica, gli studi economici ci offrono numerosi criteri che, seppur non consentono di delimitare chiaramente il confine che separa la buona dalla cattiva disuguaglianza, possono lo stesso agevolarci in quest’opera di discernimento.

Alla luce di quanto detto, siamo ancora sicuri che le disuguaglianze sic et simpliciter siano un bene? Certamente no. Per esserlo bisogna che non si spingano oltre certi limiti e che siano precedute da un’effettiva uguaglianza nei punti di partenza. Altrimenti, le legittime disuguaglianze nei punti di arrivo continueranno ad essere solo degli indebiti privilegi. Che le élite liberali, se davvero hanno a cuore i valori di cui si fanno promotrici, non possono – e non potranno mai – in alcun modo accettare. Pena la rottura dei meccanismi di rappresentanza politica delle nostre democrazie, come ha ricordato qualche mese fa Martin Wolf sulle pagine del Financial Times [11], richiamando uno studio del McKinsey Global Institute, significativamente intitolato “Più poveri dei loro genitori? Redditi stagnanti o in calo nelle economie avanzate” [12]. L’impoverimento del ceto medio-basso, la stagnazione reddituale, l’ascensore sociale bloccato, i problemi occupazionali, la paura del futuro hanno generato una forte e crescente disaffezione nei confronti del ceto politico tradizionale. L’«uomo dimenticato» (non a caso evocato da Donald Trump all’indomani della sua elezione alla Casa Bianca), dopo decenni di diseguaglianze crescenti, di lavori sempre meno stabili e scarsamente retribuiti, oltre a scoprirsi più povero, si è ritrovato anche più solo, arrabbiato, risentito, privo di una forma strutturata di rappresentanza. Da qui lo scollamento, la sfiducia, la disillusione nei confronti sia dell’establishment politico che economico, il quale, isolato nella torre d’avorio del suo benessere, è apparso sempre più arrogante, distante, incapace di comprendere (e di dare voce) alle sofferenze e ai disagi di quei milioni e milioni di cittadini (impiegati, operai, agricoltori, ecc.) che negli ultimi decenni, per una serie congiunta di cause, sono stati esclusi dai benefici della crescita ed hanno arrancato nei piani bassi della scala sociale. I sociologi, per spiegare queste dinamiche, utilizzano il concetto di «privazione relativa»: quando un numero crescente di individui e di gruppi ritiene che la società non offre loro le possibilità di vita alle quali pensano di avere diritto facendo riferimento ad un determinato quadro di valori, ci sarà un’intensificazione delle tensioni e delle esasperazioni dei gruppi dislocati, i quali sentiranno un bisogno crescente di mutare sistema istituzionale [13]. Basta guardare le dinamiche elettorali per capirlo. Nei paesi che negli ultimi decenni hanno assistito ad una maggiore flessione reddituale per coloro che rientrano nella fascia intermedia della distribuzione del reddito (e che hanno visto, di conseguenza, crescere le disuguaglianze) sono aumentati i consensi nei confronti di quei leader o partiti politici che manifestavano pulsioni marcatamente populiste ed antisistema. «Se in una democrazia – ha giustamente scritto Luigi Zingales – la maggioranza dei cittadini non vede migliorare le proprie condizioni di vita per molti anni di seguito, finisce per votare contro chi governa, contro l’establishment, anche a costo di prendersi dei rischi» [14].

Lo confermano anche i dati. Stando al rapporto McKinsey sopracitato, nelle 25 economie più ricche del pianeta dal 2005 al 2014 la maggior parte delle famiglie (dal 65 al 70 per cento) si è ritrovata, in media, con redditi stagnanti o in calo. I paesi più colpiti sono stati l’Italia, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna (al pari con l’Olanda) e la Francia. Cos’è accaduto in questi paesi? C’è stata una drastica diminuzione della partecipazione dei cittadini ai processi elettorali e sono ascese al potere – o hanno ottenuto copiosi suffragi – forze politiche dalla chiara impronta anti-establishment, che si muovevano su delle posizioni diverse (quando non opposte) rispetto a quelle perorate dai partiti tradizionali: in Italia è emerso il Movimento 5 Stelle; negli Stati Uniti, pur avendo contro l’intero sistema politico, economico ed informativo, è diventato presidente un battitore libero come Donald Trump; in Gran Bretagna, nel referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea (Brexit), i cittadini si sono schierati con il Leave, opponendosi elettoralmente al Primo Ministro in carica; in Francia c’è stata l’ascesa di Marine Le Pen. Qual è stato il merito di tutti questi moderni pifferai di Hamelin? Uno solo, ricorda ancora Martin Wolf: aver dato risposte fasulle (ma che, purtroppo, aggiungerei, appaiono seducenti per la pancia del paese) a problemi veri (pensiamo, oltre alle crescenti disuguaglianze, agli squilibri generati da una globalizzazione gestita in modo capestro; all’impatto dello sviluppo tecnologico sull’occupazione; alla crescente precarizzazione del lavoro, all’immigrazione di massa, ecc.). Ecco perché la classe politica, invece di limitarsi ad etichettarle come irragionevoli o assurde, dovrebbe cominciare a prendere sul serio le istanze di disagio (economico, e non solo) che provengono dalla base della piramide sociale ed impegnarsi, diversamente dai demagoghi di turno, nel dare ad esse delle risposte convincenti, credibili e, soprattutto, realizzabili. La storia, diversamente da quanto pensava Fukuyama, non ha necessariamente una sua innata finalità, coincidente con la diffusione universale dei sistemi liberal-democratici. E il rischio – per ora, ovviamente, soltanto teorico – è che se le élite liberali non si danno uno scossone potrebbero «essere ben presto travolte» [15], così come accadde all’inizio del secolo scorso, quando furono soppiantate dai mitomani di sinistra e dagli autocrati di destra [16]. E anche questo, tutto sarebbe, fuorché un bene.

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[1] N. PORRO, La disuguaglianza fa bene. Manuale di sopravvivenza per un liberista, La nave di Teseo, Milano 2016, p. 155.
[2] Ivi p. 156.
[3] Cfr. L. PELLICANI, Il potere, la libertà e l’eguaglianza, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, p. 59.
[4] N. PORRO, La disuguaglianza fa bene. Manuale di sopravvivenza per un liberista, cit. p. 163.
[5] Cfr. J. STIGLITZ, Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi, Torino 2013. Per una sintesi divulgativa Cfr. R. PETRINI, La disuguaglianza uccide la crescita, ecco la dimostrazione di Stiglitz, «La Repubblica», 31 Maggio 2013.
[6] J. STIGLITZ, La grande frattura, Einaudi, Torino 2016, p. X.
[7] Cfr. C. LAGARDE, «Lavoro alle donne, siete i peggiori», intervista a cura di Massimo Gaggi, «Corriere della Sera», 04 Aprile 2014.
[8] N. PORRO, La disuguaglianza fa bene. Manuale di sopravvivenza per un liberista, cit. pp. 42-43.
[9] Cfr. L. EINAUDI, Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino 1964, pp. 246-247.
[10] Ibidem.
[11] M. WOLF, Global elites must heed the warning of populist rage, «Financial Times», 19 Luglio 2016.
[12] McKinsey Global Institute, Poorer than their parents? Flat or falling incomes in advanced economies, July 2016.
[13] Cfr. L. PELLICANI, Dinamica delle rivoluzioni, SugarCo, Milano 1974, pp. 129-137.
[14] L. ZINGALES, Hillary e le ragioni di una sconfitta, «Il Sole 24 Ore», 10 Novembre 2016.
[15] M. WOLF, Global elites must heed the warning of populist rage, «Financial Times», 19 Luglio 2016.
[16] Cfr. A. POLITO, Contesa tra debitori e creditori. L’ultima sfida del capitalismo, «Corriere della Sera», 21 Febbraio 2012.

  1. Le “guise della prudenza”, di Giuseppe Brescia. Sia consentita qualche breve osservazione. Non siamo noi, forse, anche il paese di Giambattista Vico e di Alessandro Manzoni ? Cioè, il paese e la cultura delle “guise della prudenza”, ossia delle modalità attuative dei vari sistemi socio-economici ? Il paese del “Diritto Universale” e del “De Constantia jurisprudentis”, opera preparatoria per la “Scienza Nuova” di Vico, nelle sue tre grandi edizioni ? Raffaello Franchini diceva, con scherzosa serietà, che il “Diritto Universale” si potrebbe leggere come una “Scienza Nuova” ante litteram, portandone a ben nove il numero di complessive revisioni. Si vuol dire che la totale “deregulation” ha portato alla crisi finanziaria e quindi economica del 2008, ai ‘sub-prime’ e ai fondi ‘derivati’ ( sul versante del cosiddetto liberismo economico ); alla stessa stregua, o ‘guisa’, con cui l’occupazione sistematica della cosa pubblica, delle ‘casamatte della società civile’, è sfociata nella legittimazione dello Stato ‘Papà Pantalone’, concepito come ‘res nullius’. e quindi nella fenomenologia delle malversazioni ( bancarie, amministrative, sindacali e via ) che hanno caratterizzato il “Welfare State” ? Ecco, allora, che è quando si sommano due o più opposti errori, che si forma il ‘declino delle nazioni’. Bisogna restaurare il ‘senso comune’, lottando duramente per impedire il declino e dare impulso al ‘ricominciamento’ o al ‘ricorso’. Senza dire di Manzoni 1848, su “La Concordia”, a proposito dei commercianti di Praga, cui – per ragioni patriottiche ossia ‘liberali’ , da ‘religione della libertà’ ( avrebbe poi detto Croce ) – noi potremmo anche non voler aprire i mercati, rinunciando persino a momentanei vantaggi, prima d’aver conquistato la “indipendenza” ( E’ il saggio, forse poco noto, “Liberismo economico e indipendenza nazionale”). Giuseppe Brescia – Libera Università ‘G.B.Vico’ di Andria

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