Israele, il piano Prawer e il futuro dei beduini

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Alla vigilia dell’incontro a Roma tra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il suo omologo Enrico Letta, il 30 novembre nei Territori palestinesi si è celebrata la “giornata della rabbia” contro uno dei capisaldi del governo di Tel Aviv: il piano Prawer. Migliaia di persone hanno manifestato contro il progetto che prevede il trasferimento forzato di circa 70mila beduini e la distruzione di 35 villaggi non riconosciuti dallo Stato di Israele nel deserto del Negev (Naqab in arabo). In alcune città le forze dell’ordine hanno usato idranti, gas lacrimogeno e granate stordenti contro i manifestanti, in quella che l’Associazione israeliana per i diritti civili ha definito una “risposta sproporzionata” al lancio di pietre. Manifestazioni di solidarietà si sono svolte a Londra, Berlino, Roma, Istanbul, il Cairo e in diverse città degli Stati Uniti e dell’Australia.

La terza “giornata della rabbia”, dopo quelle organizzate il 15 luglio e il primo agosto, ha concluso una settimana di mobilitazioni della comunità beduina, iniziate con uno sciopero generale che ha paralizzato diverse città del deserto. In quella occasione, le istituzioni, le scuole e le attività commerciali dei villaggi beduini avevano chiuso i battenti per protestare contro la visita nel Negev del Comitato degli Affari Interni della Knesset (il Parlamento israeliano), per raccogliere informazioni e opinioni in vista delle prossime sedute per l’approvazione del piano Prawer. Nessun rappresentante delle comunità beduine era stato invitato a incontrare la delegazione, guidata dalla deputata Miri Regev del Likud, il partito di Netanyahu.

Il braccio di ferro tra il governo israeliano e le comunità beduine dura dal settembre del 2011, quando il piano Prawer ricevette il primo via libera dall’esecutivo. Diverse associazioni della società civile israeliana e organizzazioni internazionali si sono mobilitate al fianco dei beduini. Il Comitato dell’Onu per l’eliminazione della discriminazione razziale e il Parlamento europeo hanno definito il progetto “discriminatorio” e ne hanno chiesto esplicitamente il ritiro. Le organizzazioni dei giovani palestinesi hanno raccolto oltre diecimila firme contro il piano e alle manifestazioni che si sono susseguite hanno partecipato decine di migliaia di persone.

La versione attuale del piano Prawer è stata approvata dalla Knesset il 24 giugno di quest’anno e per entrare in vigore deve superare una seconda e una terza lettura previste per le prossime settimane. Promossa dall’ex ministro della precedente legislatura, Benny Begin, e redatta da un team guidato da Ehud Prawer, ex vicedirettore del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano, la bozza è il risultato dei lavori della Commissione Goldberg, istituita nel 2007 per trovare una soluzione al “problema” dei beduini e da cui sono stati esclusi i rappresentanti delle comunità. Il progetto, che costerà 5,6 miliardi di dollari, prevede la confisca di 80mila ettari di terra e il trasferimento forzato di circa 70mila beduini in sette township appositamente costruite dal governo, già sovraffollate e prive di risorse, dove si registrano i tassi di criminalità più alti del paese e la mortalità infantile è quattro volte superiore rispetto agli insediamenti ebraici.

La popolazione indigena beduina abita il deserto del Negev sin dal settimo secolo ed è dedita soprattutto alla pastorizia e all’agricoltura. Nel 1947, circa 95mila beduini vivevano in insediamenti stabili, all’interno di un sofisticato sistema tribale, concentrati in appezzamenti di terra privati e nei pascoli collettivi attorno ai villaggi. In seguito alla nascita di Israele l’anno successivo, l’88 per cento di loro fu costretto a fuggire e molti furono sistemati in zone urbane povere e degradate; i restanti 11mila furono concentrati nella ristretta area del Siyag (“recinto” in arabo) nel Negev settentrionale, una zona militare chiusa tra le città di Be’er Sheva, Arad e Dimona, lungo il confine con la Cisgiordania.

Per oltre sessant’anni, il governo israeliano ha cercato di sottrarre quanta più terra possibile ai beduini, incoraggiando la costruzione di insediamenti coloniali e l’attività agricola nell’area. Sulla terra ancestrale della comunità beduina oggi sorgono un centinaio di comunità rurali ebraiche e circa sessanta fattorie a conduzione familiare, collegate ai servizi pubblici e dotate dei comfort della vita moderna. Il governo considera i beduini che sono rimasti nelle loro terre, molti dei quali sono cittadini israeliani e hanno persino compiuto il servizio militare, come “trasgressori”. Sono 200mila e costituiscono il 32 per cento della popolazione del Negev, ma occupano appena il 2,5 per cento della terra e sono i cittadini più indigenti di Israele: il 67 per cento delle famiglie beduine vive sotto la soglia di povertà.

In 70mila abitano nei 35 villaggi non riconosciuti, molti dei quali precedenti alla nascita di Israele e gli altri edificati negli anni Cinquanta per ordine del governo militare. Lo Stato li considera “abusivi”, li ha cancellati da tutte le mappe ufficiali e nega loro deliberatamente l’accesso ai servizi di base e alle infrastrutture, come la rete elettrica, idrica, stradale, le fognature e le strutture scolastiche e sanitarie. Dall’inizio del 2013 oltre 140 abitazioni beduine sono già state demolite dalle autorità israeliane nel Negev, tanto da spingere il direttore del programma di Amnesty International per il Nord Africa e il Medio Oriente, Philip Luther, a dichiarare che “il piano Prawer-Begin è un esempio lampante delle politiche discriminatorie di Israele nei confronti della sua minoranza palestinese”.

Per il governo israeliano, il piano Prawer è la risposta migliore per porre fine al problema dei villaggi beduini non riconosciuti e per offrire agli abitanti la possibilità di spostarsi nelle aree urbane, dove le condizioni di vita dovrebbero essere migliori. Una tesi smentita però da un rapporto pubblicato a maggio dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Profughi Palestinesi (Unrwa), in collaborazione con l’ong israeliana Bimkom, che ha denunciato come la situazione dei profughi beduini che vivono nel villaggio di al Jabal, a pochi chilometri da Gerusalemme, non sia “sostenibile” dal punto di vista sociale ed economico. Lo studio mette in luce il deterioramento delle condizioni di vita delle famiglie beduine dovuto all’urbanizzazione forzata, che ha distrutto il loro stile di vita pastorale, ha disintegrato la coesione, il tessuto sociale e ne ha annientato la base economica e commerciale.

Il Consiglio regionale dei villaggi non riconosciuti del Naqab, assieme a un’equipe di architetti e urbanisti di Bimkom e ai rappresentanti di altre organizzazioni della società civile, ha presentato al governo israeliano un programma alternativo: il Master plan. Frutto di un lavoro durato quasi tre anni, il piano propone una soluzione basata sul riconoscimento degli insediamenti beduini esistenti, che potrebbero essere integrati grazie alla riqualificazione dell’intera area metropolitana. La partecipazione delle comunità beduine al processo potrebbe consentire loro di organizzarsi in base alle proprie esigenze e nel rispetto delle loro tradizioni, creando le condizioni per promuovere lo sviluppo di tutta la zona. Il governo israeliano, però, finora ha ignorato il Master plan e continua a portare avanti il suo progetto che, se sarà attuato integralmente, comporterà la più grande confisca di terra di proprietà palestinese dagli anni Cinquanta.

Nella foto: donna beduina nel deserto del Negev (cc, Physicians for Human Rights, Israel)

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