Israele e Palestina vent’anni dopo Oslo:
la difficile memoria di Rabin e Arafat

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Venti anni fa ad Arafat, Presidente dell’OLP, e a Yitzhak Rabin, Primo ministro laburista di Israele, veniva conferito insieme il Premio Nobel per la Pace, per la coraggiosa scelta compiuta un anno prima ad Oslo di riconoscersi reciprocamente come due nazioni indipendenti aventi diritto a uno Stato, avviare un processo di divisione della Palestina storica e rinunciare per sempre alle armi.

La promessa reciproca, solennemente sigillata da una stretta di mano sul prato della Casa Bianca di fronte al Presidente Clinton un anno prima (1993), non era molto di più di un’intesa informale e di una comunione d’intenti che non si tradusse mai in un accordo riconosciuto dal punto di vista del diritto internazionale (gli Accordi di Oslo non furono mai registrati formalmente al Segretariato ONU di New York), né avrebbe potuto esserlo, dal momento che Yasser Arafat formalmente non rappresentava uno Stato, ma una non-meglio-precisata “organizzazione”. Tuttavia, molti pensarono – da una parte e dall’altra – che fosse arrivato il momento in cui dalla lotta senza campo tra i due movimenti nazionali si sarebbe passati ad una graduale collaborazione tra due soggetti politici indipendenti, entrambi votati alla stabilità regionale.

La “pace” intravista – più che acquisita – ad Oslo marcò l’apertura di una breve stagione di grande ottimismo. L’Unione Europea, ad esempio, credette che la risoluzione del conflitto israelo-palestinese avrebbe condotto ad una rinnovata integrazione regionale, risvegliando l’interesse per il Mediterraneo e  il suo sviluppo: una “lettura politica” tradotta nel tentativo di lanciare un nuovo partenariato euro-mediterraneo a Barcellona sulla base dell’inclusione sia di Israele che dei Paesi arabi in uno schema cooperativo multilaterale. Tuttavia, la regione sarebbe rimpiombata nel caos da lì a poco: nel 1995 Rabin venne ucciso, il terrorismo riprese per mano di Hamas in risposta all’attentato israeliano di Hebron (1994) e i negoziati per lo “status finale”, inizialmente previsti per il maggio 1999, non ebbero mai luogo. La stagione “euro-mediterranea” era definitivamente tramontata.

A distanza di vent’anni, degli Accordi di Oslo si parla come di un grande fallimento: i Palestinesi vivono in condizioni ancora peggiori di vent’anni fa, né hanno compiuto alcun progresso sostanziale verso la l’indipendenza, nonostante una serie infinita di tentati accordi – Oslo (1993), Oslo II (1995), Camp David (2000), Taba (2001), Annapolis (2007), Washington (2007), negoziati segreti di Kerry (2013) – tutti abortiti o rimasti lettera morta. Tanto da portare un eminente studioso dell’area, Victor Kattan, ad affermare sarcasticamente che “la Palestina oggi esiste soltanto sui documenti delle Nazioni Unite, esattamente come nel 1993” (Kattan, 2013). Perfino le ultime demarches internazionali – il conseguimento dello status di ‘Stato osservatore non-membro’ all’Assemblea Nazionale dell’ONU e il tentativo di esplorare un’eventuale adesione alla Corte Penale Internazionale – appaiono come dei drammatici tentativi di deviare l’attenzione dell’opinione pubblica, internazionale e soprattutto nazionale, sul crudo dato di fatto che l’occupazione israeliana non solo persiste, ma si approfondisce, scavando divisioni sempre più profonde nella società palestinese. Tra tutti i dati che si potrebbero fornire come esempio, il numero dei coloni israeliani in Cisgiordania: passato dal 1993 ad oggi dai 100.000 circa ai 700.000 attuali.

Oslo appare oggi non più come un fallimento, ma come un errore tout court. I palestinesi lamentano che non abbia mai offerto loro una soluzione equa, un piano realistico, un obiettivo ben definito espresso in termini chiari (uno Stato) e la volontà di affrontare seriamente tutti i nodi del conflitto, compresi quelli più spinosi come la divisione di Gerusalemme e il diritto di ritorno dei profughi. Gli israeliani, da parte loro, giudicano che non abbia mai garantito ad Israele confini sicuri e assicurato la fine del terrorismo, e che l’Autorità Nazionale Palestinese non sia dimostrata all’altezza del compito di gestire uno Stato e mantenere il controllo e il monopolio della forza sul proprio territorio.

È chiaro che l’immagine dei due “eroi della pace”, che dovevano apparire negli anni ’90 come gli “uomini della svolta”, esca da questo giudizio postumo, compiuto a vent’anni di distanza, assai sbiadita e ridimensionata. La domanda è, però, se vi fu davvero una svolta e le cose iniziarono ad andare male successivamente per responsabilità che esularono dai due uomini politici e dal piccolo entourage “pacifista” che li sostenne in quegli anni, o se, invece, all’epoca siano state proiettate sui due uomini troppe false attese, in gran parte mediatiche e quasi escatologiche, un po’ come avvenuto con l’attribuzione del Premio Nobel ad un Presidente Obama appena insediato (altro errore di Oslo).

Appare evidente, infatti, che le condizioni che portarono ad Oslo fossero alquanto imperfette fin dall’inizio, in primis perché Rabin non fu l’“uomo di pace” tanto decantato dalla narrativa pacifista israeliana, né tanto meno lo fu Arafat. Il primo non va giudicato tanto per il suo peccato originale – il fatto di esser stato un militare, come molti altri politici israeliani – ma per non aver mai dato un segnale definitivo per bloccare la costruzione delle colonie: uno dei fattori che più ha pregiudicato il processo di pace. Il secondo è storicamente noto sia per il proprio coraggio, che per la connivenza col terrorismo – prima e dopo Oslo – e per non aver mai completamente dismesso i panni del guerrigliero per abbracciare quelli dell’uomo di Stato, continuando ad adottare un doppio linguaggio su temi sensibili come violenza, Stato e religione a seconda dei contesti in cui si trovava (discorsi nazionali, incontri al vertice arabi e consessi internazionali).

Tuttavia, oggi sia in Israele che in Palestina è difficile commemorare i due uomini non per i loro evidenti limiti nei confronti della ricerca della pace, ma per la ragione opposta. Nelle due società è, infatti, parallelamente cresciuta l’opposizione ai negoziati, la disillusione reciproca e l’astio per l’eredità controversa dei due “pacifisti”.

In Israele ogni anno si tengono uno o più raduni in memoria di Rabin e programmi educativi sono lanciati nelle scuole per ricordare ai più giovani come la violenza inter-ebraica abbia potuto degenerare fino all’uccisione del Primo ministro su un palco durante una manifestazione. In tali programmi non viene fatta alcuna menzione ad Oslo come processo di pace, né al gesto ed al ruolo altrettanto coraggioso che vi ebbe la controparte palestinese (Arafat). Il contrario, normalmente, avviene nei raduni commemorativi, fortemente politicizzati, ma anche sotto questo aspetto il 2014 ha marcato una differenza.

Dei due incontri che si sono tenuti nel 2014 a distanza di pochi giorni uno dall’altro, il primo, più fedele all’eredità del Primo ministro – organizzato dall’Iniziativa israeliana di pace, un network presieduto dal figlio del Generale, Yuval Rabin – ha visto coinvolte poche migliaia di persone facilmente etichettabili in Israele come “gli irriducibili“ (pacifisti): ovvero, quella sparuta minoranza di sinistra che continua a identificarsi con il semi-defunto movimento Shalom Akshav (Peace Now). Al contrario il secondo, più grande, intitolato “Tornare in piazza, ricostruire la speranza”, ha assommato  personalità eterogenee come il Presidente Rivlin (noto Likudnik e contrario ad Oslo), Rachelle Fraenkel, la madre di uno dei tre giovani coloni rapiti ed uccisi l’estate scorsa – e la cantante Orna Banai, che durante l’ultima guerra, l’operazione “Barriera protettiva”,  mostro pietà pubblica per le vittime di Gaza: tutti e tre considerati “pacifisti” in virtù delle loro opinioni moderate perché contrarie alla violenza.

Del ruolo dell’OLP, dei voti degli arabo-israeliani a sostegno di Rabin che ne sostennero il Governo e dello stesso pragmatismo del defunto leader in politica estera non v’è traccia: l’eredità spirituale di Rabin si riduce a una riflessione tutta interna alla società israeliana, che si focalizza sul suo omicidio come monito contro le divisioni settarie. Alcuni arrivano a bollare anche questa lettura come superata dagli eventi e troppo politicizzata e ad invocare che non si tengano più raduni commemorativi.

Ugualmente, una certa resistenza si riscontra in Palestina nel commemorare quello che, formalmente, continua ad essere ricordato come il “Padre della patria” (anche noto come “Abu Ammar”), nel decennale dalla sua scomparsa. Il fatto che la patria non si sia mai concretizzata e che l’eredità di Arafat sia sempre più legata al bilancio negativo di Oslo e a quello della contestata Autorità Nazionale Palestinese non permette a tutti i Palestinesi della Cisgiordania di collegarsi emotivamente e politicamente all’eredità spirituale del leader: molti si chiedono, infatti, se non sarebbe stato meglio non avviare affatto una parvenza di Stato, che ha avuto l’unico scopo di assolvere gli Israeliani dal compito di sostenere i costi dell’occupazione e della propria sicurezza, addossandoli ai Palestinesi.

In aggiunta, come sottolinea Karim Bitar dell’IRIS (Parigi), l’eredità di Arafat sia scontra anche con la divisione della nazione palestinese in fazioni opposte – Fatah e Hamas, nazionalisti e islamisti. Arafat ha storicamente incarnato la lotta nazionale a carattere secolare, ma anche lo strapotere del movimento di al-Fatah all’interno di istituzioni palestinesi come il Consiglio Nazionale e il Comitato Centrale dell’OLP, che ha lentamente svuotato di senso e privato dei propri poteri e della propria rappresentatività. Il fatto che la commemorazione di Arafat si andata ad approfondire, e non a sanare, le ferite interne alla società palestinese è anche dimostrato dalla serie di attentati anonimi – o, perlomeno, non rivendicati – a rappresentanti di Fatah scoppiati nella Striscia a ridosso della commemorazione prevista a Gaza lo scorso 10 novembre, che ne hanno poi decretato la cancellazione.

Sebbene la società palestinese, nel suo complesso, stenti a manifestare apertamente il dissenso e, forse, la disillusione nei confronti del suo storico leader, segni di una certa disaffezione popolare sono visibili a più livelli e, particolarmente, nell’abbandono della soluzione dei due-Stati, nella popolarità di Hamas a paragone di Abu Mazen, nell’aspra critica al processo di Oslo e all’ANP – da Arafat così fortemente voluti – e nel tentativo dei giovani di intraprendere nuove strade – come il Comitato di Coordinamento della Lotta Popolare – e riprendere il dialogo con le componenti islamiste, superando divisioni partitiche ormai superate, ma soprattutto contestando il dogma della centralità dell’OLP e delle istituzioni a cui ha dato vita. La partecipazione in massa ai raduni commemorativi del vecchio leader appare sempre di più un modo di reificarne la memoria e avallare il senso di continuità con il passato che il Presidente Abbas proietta sulla cerimonia, strumentalizzandola per evidenti fini politici.

Arafat, più che Rabin, è sicuramente ancora un simbolo e un personaggio popolare, ma quello che viene apprezzato di lui è il senso di identità e di nazione che ha saputo conferire in vita al popolo palestinese in tutte le sue componenti, non le scelte che contraddistinsero gli ultimi anni della sua vita, dal “rientro” nei Territori della leadership di Tunisi all’insediamento di un’Autorità Nazionale monocolore, vagamente adattatasi alle regole della democrazia.

L’eredità di Rabin, invece, è contestata ancora più nel profondo: ricordato come valente generale della guerra del Kippur, Nethanyau lo commemorò nel 2013 come “l’uomo che capì, prima di tutti, che la pace non avrebbe potuto darsi senza la superiorità militare israeliana”. Se a questo si riduce il messaggio del defunto Premier, e non all’aver accettato di riconoscere il diritto ad uno Stato palestinese e aver sottoscritto il principio dell’abbandono di Territori, è ovvio che oggi Israele guardi molto oltre la sua memoria, verso politici che incarnano questa idea di difesa assoluta e senza compromessi in modo ancora più energico e marcato.

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Foto di J. David Ake/AFP.

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