Essere musulmani nelle carceri italiane
Le insidie di un’integrazione che non c’è

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Che il carcere possa rivelarsi una fabbrica di delinquenti più che un luogo di rieducazione non è una novità: da sempre la mafia e tutte le altre organizzazioni criminali, i movimenti eversivi rossi e neri, hanno usato le celle per fare proseliti tra i detenuti comuni, offrendo loro una prospettiva e un senso di appartenenza che, sebbene illegali, per alcuni sono sempre meglio dell’emarginazione che spesso li attende oltre le sbarre.

Negli ultimi tempi, dominati dal terrore propagandato dal sedicente Stato Islamico, questo tema è tornato d’attualità per il timore che in cella si faccia scuola di jihad, che detenuti islamici estremisti usino il tempo della reclusione per avviare i compagni sulla strada della guerra santa, come accaduto ad Amedy Coulibaly, uno degli attentatori di Parigi ucciso nel blitz delle teste di cuoio al negozio kosher.

Dalla periferia-ghetto al jihad, passando per la prigione

Il 32enne cresciuto nei sobborghi parigini aveva un passato da criminale ed era uscito dal carcere l’anno scorso. In prigione aveva stretto amicizia con uno degli attentatori di Charlie Hebdo, Cherif Kouachi, e aveva abbracciato la fede islamica; poi l’incontro con l’imam radicale Djamel Beghal aveva dato il via alla sua radicalizzazione e al reclutamento nel jihad. Un ragazzo cresciuto ai margini della società francese, senza una vera cultura religiosa alle spalle, che nell’islam radicale ha trovato la propria identità e un modo per dare sfogo al proprio odio verso la società. Il risultato, insomma, di un processo di integrazione fallito. L’identikit di tanti detenuti stranieri anche in Italia.

“Non c’è dubbio che chi è rinchiuso in carcere sia in una situazione delicata, che agevola l’avvicinamento all’estremismo”, spiega Izzeddin Erzil, presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (Ucoii) e uno dei nove imam autorizzati dal ministero a entrare negli istituti per fornire assistenza spirituale. “È una questione che non va sottovalutata, ma è controproducente creare allarmismi che ci fanno fare soltanto il gioco degli estremisti. Dai detenuti di fede islamica arriva la richiesta di imam e di luoghi di preghiera, esprimono il desiderio di professare la propria fede anche in cella e queste legittime richieste vanno ascoltate”. Per Erzil, garantire la libertà di accesso al culto è un’arma contro predicatori radicali che puntano a reclutare combattenti più che fedeli.

Allarmismo infondato

Stando alle ultime informazioni, in Italia sono almeno cinque i musulmani che hanno aderito all’estremismo islamico durante la detenzione e una volta usciti sono partiti per l’addestramento in Siria o in Iraq. Sono circa 15, invece, gli stranieri incarcerati per terrorismo internazionale (art.270 bis del Codice penale) e si trovano tutti nell’istituto penitenziario di Rossano, in Calabria. Numeri di gran lunga inferiori a quelli francesi, che non giustificano allarmismi o persino spinte xenofobe.
Secondo lo studio ‘Le moschee negli istituti di pena’ (2013) del ministero della Giustizia, nelle prigioni italiane tra i musulmani praticanti ci sono 181 imam che si aggiungono ai nove autorizzati dal ministero a operare in carcere. Un’offerta la cui inadeguatezza rischia di innescare percorsi di vittimizzazione, che favoriscono l’avvicinamento a un’interpretazione radicale e fanatica dell’islam. Dietro le sbarre, rinchiusi in istituti sovraffollati, Dio può diventare un conforto e il Corano, nelle mani sbagliate, un manuale per aspiranti terroristi.

Com’è cambiata la popolazione carceraria in Italia

La popolazione carceraria italiana è profondamente cambiata negli ultimi anni, come mostra il rapporto annuale dell’associazione Antigone: gli stranieri ammontano al 32 per cento dei detenuti e un terzo di loro ha dichiarato di essere islamico, circa 5.500 persone. Ci sono, però, circa 8.000 persone che non hanno voluto dichiarare la propria fede (la rilevazione è stata fatta dopo gli attentati di Parigi) ed è ragionevole pensare che i musulmani siano in numero maggiore rispetto ai dati ufficiali. L’islam è dunque la religione più diffusa tra gli stranieri. Su circa duecento strutture nel Paese, in cinquanta c’è un luogo di culto per i musulmani, mentre nella maggior parte delle prigioni si prega in cella o ci si organizza negli spazi comuni. Ci sono anche casi di sacerdoti che mettono a disposizione la cappella.

In generale, i detenuti stranieri sono in media più giovani di quelli italiani; sono dentro per reati meno gravi (droga, prostituzione, furto, reati d’immigrazione, resistenza a pubblico ufficiale), quindi devono scontare pene più brevi; hanno minore accesso a misure alternative alla prigione; il loro tasso di alfabetizzazione è molto più basso. “Il fatto che ci siano tanti giovani stranieri nelle carceri italiane segna il fallimento di un percorso di immigrazione”, spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Si arriva in forma irregolare, non si riesce a trovare lavoro, a trovare una casa, a integrarsi, quindi si entra nel circolo dell’illegalità che a volte sfocia in una illegalità criminale”.

L’istituzione totale alla prova dell’integrazione

“Ci dovrebbe essere un’attualizzazione delle regole di vita e dell’organizzazione penitenziaria, ancora pensate per una popolazione detenuta italiana, che tenga conto dei profondi cambiamenti che ci sono stati. L’amministrazione penitenziaria deve assicurare un’offerta religiosa pluralistica. In generale, si deve tener conto del pluralismo etnico, linguistico, culturale, oltre che religioso, per evitare ghettizzazioni”, continua Gonnella. Servono, dunque, più mediatori culturali, interpreti, personale più preparato, più luoghi e ministri di culto, ma a cambiare devono essere anche i rapporti tra l’amministrazione penitenziaria e le diverse istituzioni religiose presenti in Italia. “Bisogna rimettere mano a quel ruolo privilegiato che viene dato alla religione cattolica”, conclude Gonnella. “Le istituzione dovrebbero garantire pari dignità a tutte le fedi e i ministri di culto dovrebbero essere pagati dalle chiese non dallo Stato. Così si avvertirebbe immediatamente di far parte di un mondo laico, dove è garantita uguale libertà di professare o non professare”.
Allo stato attuale, infatti, in ogni prigione c’è un cappellano cattolico, un sacerdote pagato dallo Stato che fornisce anche la cappella per gli incontri tra fedeli e le preghiere. Per le altre religioni, ma non ancora per l’islam, sono state stipulate intese e ci sono elenchi di ministri di culto (questo anche per l’islam) che possono entrare nelle carceri per fornire assistenza spirituale ai detenuti che lo richiedono, ma a titolo volontario.

Tutto affidato al buon senso

“C’è un affastellarsi di norme che complica le cose e, di conseguenza, non c’è uniformità sul territorio nazionale e alla fine tutto viene lasciato all’arbitrio dei funzionari e al loro buon senso”, spiega il pastore valdese Francesco Sciotto, coordinatore del gruppo di lavoro sulle carceri della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei). “Nonostante noi abbiamo un’intesa che ormai da trent’anni ci consente di entrare in carcere, mi è capitato di avere difficoltà a far valere questo mio diritto. Buona parte della quotidianità è gestita nell’ignoranza, così, ad esempio, i detenuti africani evangelici non sono informati della possibilità di incontrare un pastore, se lo desiderano. Inoltre, questo sistema mette al centro le chiese e non i detenuti e il loro diritto a professare la propria fede. È chiaro che questo non è uno dei problemi più rilevanti delle carceri italiane, ma stiamo parlando comunque di un diritto fondamentale”.

Al potenziamento delle misure di sicurezza e dei controlli, va affiancata una politica di integrazione che passa anche attraverso la piena e libera espressione della propria religiosità. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, lo scorso febbraio in un’intervista al Corriere della Sera ha parlato dell’impegno a “far sì che il rispetto dei diritti dei detenuti di religione islamica sia anche strumento […] per contrastare il proselitismo di chi ci vede come nemici dell’islam”. A oggi, però, lo Stato italiano non ha alcuna intesa con nessuna istituzione musulmana italiana. Il dialogo con il ministero si è aperto da due anni, spiega Erzil: “Stiamo negoziando per raggiungere un accordo specifico per le carceri, per semplificare la nomina degli imam autorizzati a entrare, siamo pochi e la richiesta è alta, ma non abbiamo ancora avuto risposta”.

Vai a www.resetdoc.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *