Dieci anni di guerra.
Tutte le cifre del disastro iracheno

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Le prime immagini ci sono arrivate nella notte tra il 19 e 20 marzo 2003. Precisamente alle 5.30, in Iraq. Intensi bombardamenti su Baghdad, alla scadenza dell’ultimatum imposto da George W. Bush a Saddam Hussein e ai figli Uday e Qusay. Le ultime sono quelle dell’ondata di attacchi che ha causato almeno 50 morti  nelle zone sciite di Baghdad (e più di 170 feriti): una decina di autobombe, un ordigno sul ciglio di una strada e almeno due azioni a colpi di armi automatiche. Il quartiere di Sadr City, ma anche Kazimiyah, sono stati messi a ferro e fuoco. Si celebra così il decennale della guerra, forse la più discussa e controversa degli ultimi tempi, anche più dell’operazione in ex Jugoslavia.

Dieci anni in cui, oltre al conto delle vittime sempre crescente e dell’esplosione delle violenze settarie, non sono mancati scandali, morti sospette, scontri pesanti fra gli alleati e all’interno dell’amministrazione Usa e fiumi di pellicole che hanno anticipato i tempi dei bilanci. Ma soprattutto, sul piano diplomatico, non sono mancati gli scaricabarili e neanche le abiure dell’ultimissima ora, come quella dell’ex sottosegretario alla Difesa statunitense Paul Wolfowitz, il falco neocon dell’allora staff presidenziale, che in un’intervista al Sunday Times e in un’altra alla CNN, pochi giorni prima dell’imbarazzante decennale ha ammesso che nell’invasione americana in Iraq “le cose non sono andate come avevo pianificato”. L’errore principale? O meglio, uno dei tanti: quello di non prevedere la possibilità di un’insurrezione; il “buco più grande nel dopoguerra” che ha provocato una spirale di violenza fuori controllo. Un buco in cui sono finiti non solo decine di migliaia di civili iracheni, vittime di attacchi terroristici per le strade, di fronte alla caserme, nei luoghi ritenuti strategici, ma anche migliaia di soldati della coalizione, americani in primis.

I costi della guerra

Oggi, a poco più di un anno dal completo ritiro statunitense (il 15 dicembre 2011), si conta che l’operazione Iraqi Freedom sia costata circa 130mila morti tra i civili iracheni, come testimonia il sito Iraq Body Count (il bilancio sale a 174mila se si tiene conto anche dei combattenti tra soldati e insorti), 4.409 tra i soli soldati Usa  e 1700miliardi di dollari ai contribuenti americani più altri 500 miliardi in assistenza medica ai reduci. Gli effetti collaterali, quali le sindromi post traumatiche (Post traumatic stress disorder) dei soldati, che includono manie depressive, tossicodipendenze, abusi in famiglia fino anche a omicidi e suicidi, sono rimasti per anni fuori dal computo dei danni provocati dalle guerre.

A parlarne ora, in vista dell’anniversario, è uno studio del Watson Institute for International Studies della Brown University, pubblicato lo scorso 13 marzo, dal titolo “Costs of War Project”. Già nei mesi precedenti, la guerra in Iraq era finita sotto la lente delle Forze Armate Usa con un rapporto intitolato “Generating Health and Discipline in the Force Ahead of the Strategic Reset”, in cui si evidenzia come, tra il 2006 e il 2011, la violenza sia entrata nella vita dei reduci con un’impennata del 90% producendo i cosiddetti “traumi secondari” che investono anche chi vive accanto ai militari impegnati in teatri bellici.

Il popolo americano tutto questo più o meno lo sa. Così pare dall’esito dell’ultimo sondaggio commissionato a Gallup, in questi giorni, secondo cui la guerra sarebbe stata un errore per il 53% degli interpellati. Per la prima volta dopo il ritiro delle truppe nel 2011, si fanno bilanci e ciò che emerge è anche un altro fattore: la memoria a breve termine della popolazione statunitense che nel 2008, rispondendo alla stessa domanda, in piena missione in corso, rigettava l’operazione in Iraq nel 63% dei casi. In tema di memoria, va ricordato però che nel 2003, nei primi mesi della guerra, il 75% degli americani aveva invece sostenuto la scelta dell’Amministrazione. Il punto di non ritorno nella coscienza comune è il 2005, l’anno in cui si dichiara  chiusa la “caccia” alle armi di distruzione di massa, ammettendo che l’intelligence ha compiuto un errore. Nello stesso anno, in casa Repubblicana si comincia a parlare di ritiro e Mohamed ElBaradei che, assieme all’ispettore dell’Aiea Hans Blix, aveva messo in discussione le tesi di Washington sulle presunte armi non convenzionali irachene, vince il premio Nobel per la pace. Dal punto di vista dell’opinione pubblica mondiale, però, erano già bastate le immagini degli abusi commessi dai soldati americani ad Abu Ghraib, diffuse nell’aprile 2004, per porre una forte ipoteca al sostegno a una missione nata senza il consenso delle Nazioni Unite.

Iraq, quale democrazia?

I conti, naturalmente, non sono ancora chiusi neanche per chi la guerra l’ha subita. A dispetto di quanto proclamava il 1° maggio 2003 George W. Bush dichiarando compiuta la missione Iraqi Freedom, e otto anni dopo Barack Obama, celebrando il ritiro dei soldati Usa (“L’Iraq è una nazione sovrana, autonoma e democratica”), la situazione in Iraq è tutt’altro che pacificata. Per avere un’idea basti controllare quotidianamente il contatore del sito Iraq Body Count che continua a girare, aggiornandosi. La cronaca irachena non fa più notizia, ma nell’ultima settimana si conta almeno una vittima al giorno con un picco di 35 morti tra Baghdad, Mosul, Areesh, Falluja e Samarra, il 14 marzo. I calcoli non tengono conto, però, degli effetti indiretti della guerra come la distruzione delle infrastrutture, la mancanza di acqua potabile, di cibo e di situazione sanitarie adeguate, che in questi anni hanno colpito un altro 30% della popolazione. Quando si parla di rinascita e di ricostruzione si parla anche di questo. Ma senza sicurezza e stabilità politica la strada resta in salita.

L’Iraq del 2013 è ancora vittima di divisioni settarie e di conflitti a bassa intensità rivolti all’interno dei propri confini, ma che, come dimostra la cronaca degli ultimi giorni, rischiano di arrivare in Siria. Il governo sciita, capeggiato da Nuri al Maliki, non fa più mistero infatti del suo sostegno al potere di Bashar Assad, mentre la parte della popolazione sunnita appoggia i ribelli. Lo scorso 4 marzo un convoglio che trasportava 48 soldati siriani è stato attaccato al confine, causando la morte anche di nove militari iracheni, Un altro elemento di instabilità, questo, in un paese già spaccato al suo interno, con un vicepresidente sunnita, Tareq al-Hashemi, condannato a morte in contumacia, lo scorso settembre, con l’accusa di aver orchestrato l’omicidio di due ufficiali iracheni e di aver comandato una sorta di brigata paramilitare contro obiettivi sciiti. A ciò si aggiunge il radicamento di gruppi legati ad al Qaeda che fanno riferimento alla minoranza orfana di Saddam Hussein (che fino al 2003 ha garantito loro incolumità e potere). Anche le prossime elezioni provinciali, previste per il prossimo 20 aprile, sono state rinviate di sei mesi a ribadire la mancanza di condizioni adeguate sul terreno. Non è certo questo che immaginavo a Washington dieci anni fa e, purtroppo, anche l’aver dichiarato Baghdad Capitale della cultura araba per il 2013 non è nulla più che un premio di incoraggiamento da parte degli alleati della Lega Araba.

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