L’accordo sul nucleare iraniano:
un’opportunità decisiva per i riformisti

Quando ripenseranno all’accordo sul programma nucleare dell’Iran siglato a Vienna lo scorso luglio, gli iraniani e americani delle prossime generazioni lo giudicheranno di certo una vittoria per la diplomazia del dialogo e la politica della pazienza. Ma ricorderanno anche come quest’accordo abbia rappresentato per gli attori che la compongono un’opportunità di legittimazione ed emancipazione della società civile iraniana.

Negli ultimi venticinque anni l’Iran ha attraversato una fase di significativa evoluzione in termini sia politici che sociali: la sua popolazione si è fatta via via sempre più giovane, più istruita, più laica, più liberale. Un mix esplosivo di sviluppo demografico – che ha determinato un incremento nelle fasce giovanili di popolazione – unito a urbanizzazione, tasso di disoccupazione in crescita e rapida diffusione dell’istruzione universitaria, ha fatto emergere nel Paese tutta una serie di nuovi soggetti sociologici perlopiù giovani e istruiti (oltre che, di fatto, per la maggior parte di sesso femminile) privi però di qualsiasi futuro dal punto di vista politico, economico o sociale. Di conseguenza, la società iraniana si è ritrovata divisa da un gap generazionale che vede da una parte potenti conservatori macinaprofitti e dall’altra giovani ribelli senza ideali. Quella dell’Iran è diventata una società spaccata tra i Donald Trump e i James Dean. Su un fronte ci sono quelli che sfruttano il proprio potere per fare soldi e dall’altro ci sono quelli che si ribellano all’ordine sociale e politico.

Alla luce di tutto questo, non deve sorprendere che la gioventù iraniana sia stata in prima linea nelle iniziative a supporto dell’accordo sul nucleare, visto che proprio i giovani sono quelli che hanno sofferto di più per la disoccupazione e la svalutazione della valuta iraniana, conseguenza delle sanzioni. Che si tratti di utenti Internet o di manifestanti spontanei, i giovani iraniani, che oggi rappresentano oltre il 60 per cento degli ottanta milioni di abitanti del Paese, sono ben istruiti e credono nell’attuabilità di un processo di graduale cambiamento della Repubblica Islamica dell’Iran. Dato particolarmente interessante, più della metà degli iraniani di età compresa tra i 18 e i 24 anni frequenta una qualche forma di istruzione superiore e, stando ai dati fin dal 2003, più del 60 per cento delle matricole nelle università del Paese sono donne. Inoltre, i giovani in Iran usano Internet in percentuale di gran lunga maggiore rispetto al resto del Medio Oriente. La rivolta civile del 2009 è stata con ogni probabilità espressione di questi nuovi comportamenti e abitudini che sono andati gradualmente emergendo tra i giovani iraniani. Un fenomeno che è ancora presente, e mina la legittimità del governo teocratico.

Nel frattempo, la malagestione economica e la corruzione sono diventate il nemico comune contro cui nel 2009 i vari fronti di protesta si sono coalizzati al di là delle classi sociali di riferimento. Paradossalmente, oggi, una comunanza di intenti analoga si riscontra a favore dell’accordo sul nucleare. Alla notizia della firma del 14 luglio, migliaia di giovani iraniani si sono riversati per le strade di Teheran per celebrare l’inizio di un nuovo capitolo nei rapporti tra l’Iran e il resto del mondo. Sventolavano foto di Mohammad Javad Zarif, il ministro degli Esteri, e non dell’Ayatollah Khomeyni o dell’Ayatollah Khamenei. Qualche giovane manifestante aveva addirittura con sé i ritratti di Mir-Hossein Moussavi e Mehdi Karroubi, due candidati alle elezioni presidenziali del 2009 condannati ai domiciliari negli ultimi quattro anni per la loro opposizione al governo.

Dall’elezione di Mahmud Ahmadinejād alla presidenza, nel giugno del 2005, osservatori sia iraniani che internazionali hanno indagato modalità e ragioni della contrazione in atto nella sfera della società civile iraniana, e le ripercussioni che ne derivavano in termini sociali, politici e umani. Gli analisti concordano quasi all’unanimità nel ritenere che la posizione antagonista nei confronti della società civile sia stato il tratto distintivo dell’amministrazione Ahmadinejād dal 2005 al 2013. In quel periodo, non solo sono state abrogate le riforme introdotte durante il mandato del presidente Mohammad Khātami (1997-2005), ma in generale la società civile iraniana ha attraversato notevoli difficoltà e subito gravi minacce in ambito giuridico, normativo e politico. Ovviamente, dalla presidenza di Mahmud Ahmadinejād è scaturito un esacerbarsi del conflitto intrinseco tra sovranità popolare e regime autoritario connaturato all’impianto politico della Repubblica Islamica. E a farsi ancora più lampante è stato il contrasto politico tra l’essenza repubblicana della politica civile iraniana e la sua controparte religiosa.

Le elezioni presidenziali del 2009 hanno cambiato il destino della società civile iraniana. Le proteste senza precedenti che ne sono seguite hanno messo seriamente a repentaglio non solo la credibilità politica di Mahmud Ahmadinejād ma anche lo status morale della sovranità teologica e la sua legittimità agli occhi del mondo. Il risentimento dell’opinione pubblica e la lotta che ne è derivata tra gli artefici e fondatori della rivoluzione ha rappresentato per il regime clericale iraniano la sfida più difficile che abbia mai affrontato da quando nel 1979 è subentrato al governo dello Scià. Quanti tra i riformisti credevano che il sistema lasciasse margine di cambiamento si sono ritrovati a fare i conti con una struttura teologico-politica che ricorreva all’estremizzazione della violenza per affermare la propria legittimità. Chi ha osato pronunciarsi ed ergersi a paladino della società civile iraniana ha rischiato il carcere, la tortura, lo stupro e la condanna a morte. Il giro di vite sempre più pesante ai danni di giornalisti, intellettuali, studenti e attiviste donne, a cui hanno fatto seguito gravi difficoltà economiche, ha spinto molti tra gli iraniani più giovani e istruiti all’esilio.

Al di là di questo, la crisi sociopolitica successiva alle elezioni si è profondamente radicata nelle lotte intestine di potere. Più di ogni altra cosa, essa ha incarnato e continua a incarnare una crisi che investe la struttura ideologica di più vecchia data mutuata dalla rivoluzione. Da una parte, quelli come Moussavi, Karroubi, Khātami e Rohani – che sono stati tra i principali architetti del regime islamico nonché candidati alla presidenza o effettivamente presidenti – ritengono che la nomenclatura islamica sia comunque aperta alle opzioni di riforma e rinnovamento. Ma ad essi e ai loro alleati in seno alla società civile iraniana si oppongono i gruppi conservatori e ultraconservatori che continuano a credere nell’autorità del giurisperito (velayat-e faqih) come matrice fondamentale nell’organizzazione della società iraniana. Nella moltitudine di fazioni della politica iraniana, conservatori e ultraconservatori hanno sempre giocato un ruolo importante in termini di difesa e promozione di organismi politici chiave – come l’Assemblea degli Esperti, il Consiglio dei Guardiani e il Consiglio delle Opportunità – in contrapposizione alla presidenza e alla società civile. Fin da subito, i gruppi ultraconservatori hanno criticato e smontato i risultati raggiunti dall’amministrazione Rohani sia in politica interna che estera.

Quel che rende l’elezione di Rohani ancora più sorprendente è il fatto che non si trattava di un candidato giudicato vicino alla Guida Suprema dell’Iran, ma ha comunque ottenuto il via libera per restituire un afflato di apertura alla politica estera iraniana. Di fatto, la maggior sfida per Rohani negli ultimi due anni è stata quella di mantenere un equilibrio tra i diversi gruppi di pressione e scongiurare il rischio che uno di essi acquisisse forza sufficiente a metterlo in discussione. Ma il presidente ha anche dovuto risollevare lo spirito della società civile iraniana portando avanti una lotta senza quartiere a malagestione, corruzione e violazioni dei diritti umani, tutti fattori che avevano contribuito al declino della diplomazia iraniana. È chiaro che nessuno si aspettava una repentina inversione di marcia nell’atteggiamento che l’establishment ha nei confronti degli attori civili. Inutile dire, però, che l’elezione di Rohani ha rappresentato una significativa opportunità per strappare la società civile iraniana da otto anni di turbolenze politiche derivanti dal governo sconsiderato di Mahmud Ahmadinejād. Quel che più importa, l’elezione di Rohani ha dimostrato in modo lampante che per quanto la politica in Iran possa essere manipolata, è impossibile preindirizzarla in tutto e per tutto. Dopo la sua elezione e dopo l’accordo sul nucleare, in Iran la speranza del cambiamento ha trovato nuova linfa, generando più partecipazione, più dialogo e più contraddittorio in seno alla società civile iraniana.

L’accordo di Vienna ha rappresentato una pietra miliare per il futuro geostrategico del Medio Oriente, ma è stato anche una boccata d’aria fresca per la società civile iraniana. Senza dubbio, il progressivo alleggerimento dalle sanzioni che hanno soffocato l’economia dell’Iran darà maggiore respiro alle future richieste di più diritti e più libertà. Esiste oggi la possibilità che la società civile dell’Iran inizi a giocare un ruolo diverso e più costruttivo nel futuro della politica iraniana. Stando a un recente rapporto pubblicato dalla Campagna Internazionale per i Diritti Umani in Iran, un’elevata percentuale di iraniani di spicco appartenenti alle diverse professioni è convinta che l’accordo avrà in Iran una ricaduta positiva in termini di rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali. Per oltre due terzi degli intervistati, la rimozione delle sanzioni migliorerà le condizioni economiche dell’iraniano medio, permettendo alla gente di concentrarsi di più sul potenziamento delle libertà civili.

Qualsiasi speranza di cambiamento democratico in Iran è strettamente e direttamente collegata agli avanzamenti in termini economici che seguiranno la fine delle sanzioni. Il governo Rohani è al momento tra l’incudine e il martello di due gruppi di interessi contrapposti. Da una parte, dovrà fare i conti con le aspettative dei giovani iraniani riaprendo il mercato iraniano alle imprese europee e creando nuove opportunità di lavoro, o andrà incontro a un enorme malcontento. Secondo il Meed, rivista specializzata in economia mediorientale, via via che le sanzioni verranno rimosse l’Iran potrebbe da qui al 2030 raddoppiare il proprio prodotto interno lordo (che nel 2014 era pari a 427 miliardi di dollari) e attirare nell’arco dei prossimi cinque anni quasi 350 miliardi di dollari in investimenti esteri diretti.

D’altro canto, però, Rohani e il suo esecutivo subiscono ogni giorno la pressione anche degli ultraconservatori iraniani, che stanno cercando di difendere gli ideali della rivoluzione e continuano in politica ad avere l’ultima parola. I conservatori hanno però bisogno di ottenere un risultato significativo alle elezioni parlamentari dell’anno prossimo, a cui seguirà un’altra consultazione elettorale, quella per l’Assemblea degli Esperti, che ha il potere di scegliere la Guida Suprema e vigilarne le attività.

Per la società civile iraniana, quindi, quel che conta adesso è trovare una via d’uscita dalle difficoltà economiche in modo da poter riorganizzare le proprie forze e inaugurare una nuova era di politica post-ideologica. Ecco perché, per la società civile iraniana, l’accordo sul nucleare segna l’alba di una nuova era politica. Bisogna tener bene a mente quanto questa nuova era sia non solo labile, ma anche segnata da tutti i limiti di una società civile iraniana che sta cercando di emanciparsi attraverso la creazione di una sua propria cultura politica contrapposta e parallela. Resta il fatto che la maggior parte dei giovani iraniani ha abbandonato la politica fondamentalista e i razionalismi utopici per abbracciare la logica del pluralismo, del dialogo con l’Occidente e della comprensione della cultura moderna e dell’eredità iraniana.

Inutile dire che l’accordo sul nucleare resta un traguardo straordinario dal punto di vista della diplomazia. Per quanto sia prematuro stabilire prospettive e ricadute di un accordo del genere sul futuro della politica interna dell’Iran, si può ragionevolmente affermare che esso segni uno dei maggiori punti di svolta nella storia contemporanea iraniana. L’apertura della società iraniana a nuovi investimenti economici e la crescita del settore privato avranno ripercussioni positive specie in termini di consolidamento di una cornice di riferimento civile, di dialogo con lo Stato, di potenziale giuridico e di incentivi alla mobilitazione sociale.

L’accordo sul nucleare, dunque, in termini di dialogo tra il governo iraniano e quello americano, offre un quadro assolutamente ottimistico. Di sicuro garantirà al regime islamico una rinnovata legittimità, facendo dell’Iran la prossima potenza egemonica del Medio Oriente. Ma aiuterà anche il Paese a essere più aperto, trasparente e attento alle pressioni internazionali su temi come la pena di morte e la detenzione carceraria di soggetti civili.

L’Iran ha ancora tanta strada da fare per arrivare al vero buon governo, ma la società civile è pronta a ricoprire un ruolo di primo piano nell’assicurare alla politica iraniana un cambiamento pacifico e non violento. Per portare a termine la sua rivoluzione, però, l’Iran ha bisogno di cooperare dal punto di vista economico e politico con il resto del mondo.

Questo articolo è uscito in inglese su The Huffington Post l’1 ottobre 2015

Traduzione di Chiara Rizzo

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