India: contro caste e discriminazioni
la rabbia degli studenti ora fa paura

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Maggio inoltrato, New Delhi. Nel campus della Jawaharlal Nehru University un gruppo di studenti ha allestito un piccolo accampamento sotto il portico d’ingresso al rettorato. Uno striscione annuncia uno “sciopero della fame indefinito”. Jnu, come è comunemente chiamata, è tra le università più prestigiose dell’India; occupa un grande campus nella zona sud della città, collinoso e molto verde, anche se non basta ad attenuare il caldo soffocante della precoce estate. Gli studenti, diciannove uomini e donne, digiunano da 12 giorni quando li incontro; alcuni loro compagni sono già stati ricoverati in ospedale, allo stremo. Arriveranno a 16 giorni di sciopero della fame, una delle proteste più lunghe nella storia dell’università indiana. Chiedono la revoca dei provvedimenti disciplinari inflitti dalle autorità accademiche ad alcuni di loro, tutti dottorandi: sospensioni e perfino espulsioni fino a cinque anni, divieto di entrare nel campus e pesanti multe pecuniarie. Per la gran parte di quei ragazzi sarebbe la fine del percorso di studi. Le punizioni alla fine sono state solo sospese: e non dalla Cancelleria dell’università ma dall’Alta Corte di New Delhi, che ha accettato di esaminare un ricorso degli studenti chiedendo loro di mettere fine al digiuno.

Lo sciopero della fame nel campus di New Delhi è solo l’ultimo episodio di un’ondata di proteste che ha coinvolto le maggiori università dell’India nell’ultimo paio d’anni. Un movimento che ha sollevato questioni di fondo: dalla libertà di esprimere il dissenso, minacciata da un governo ultranazionalista, al clima di intolleranza alimentato da una cultura politica che vuole imporre all’India una improbabile identità unica di “nazione hindu” (è l’ideologia chiamata hindutva), fino al posto delle minoranze e dei “gruppi svantaggiati” nella società indiana. Ad esempio il posto dei Dalit, i fuoricasta – quelli una volta chiamati “intoccabili”, termine uscito dal discorso pubblico da quando sono formalmente vietate discriminazioni castali, che però restano nei fatti. Insomma, il movimento delle università ha posto una sfida politica che va oltre i campus.

A Jnu la scintilla è stata l’arresto di tre studenti. I fatti risalgono al 9 febbraio, dopo un dibattito organizzato nel campus sul caso di Afzal Guru, attivista del Kashmir condannato a morte per la sua indiretta partecipazione a un sanguinoso attacco al parlamento indiano nel dicembre 2001. L’esecuzione di Guru, avvenuta il 9 febbraio 2006, ha sollevato molte polemiche in India; giuristi, attivisti per i diritti umani, giornalisti e scrittori hanno sostenuto che non aveva avuto un processo giusto e che una condanna affrettata non chiariva le reali responsabilità dell’attentato, e tantomeno aiutava ad affrontare la crisi in Kashmir. Dunque non era la prima volta che il caso di Afzal Guru veniva discusso pubblicamente: quella sera però gli attivisti di un’associazione studentesca legata all’estrema destra hindu hanno protestato presso l’ufficio del Vice-Cancelliere, massima autorità dell’ateneo. Dicevano che là si inneggiava alla distruzione dell’India. Il Vice-Cancelliere ha subito chiamato la polizia per mettere fine a tali “attività anti-nazionali”: così sono finiti in galera Kanhaiya Kumar, presidente eletto dell’Unione degli Studenti di Jnu, e altri due membri del direttivo, Umar Khalid e Anirban Bhattachariya.

«È stato un incidente costruito, una provocazione», dice Riya (nome fittizio, ndr), studentessa che partecipa al digiuno. Intorno sono sparsi zainetti, contenitori d’acqua, libri, qualche laptop. Le indagini della magistratura hanno appurato che un filmato trasmesso a ripetizione dalle tv nazionali, fonte delle accuse, era un montaggio. Mostrava l’assemblea studentesca e un gruppetto che urla “guerra finché l’India sarà distrutta”, o “lunga vita al Pakistan”, ma è risultata una scena aggiunta: chi, quando e dove abbia urlato quegli slogan non è stato chiarito. C’è chi parla di infiltrati. In ogni caso, i tre studenti sono stati imputati di “sedizione”.

La protesta è scoppiata allora. «Per tre giorni abbiamo tenuto sit in, abbiamo fatto catene umane e una marcia interna al campus con oltre cinquemila persone», ricorda Riya: «La legge anti-sedizione va abolita. È un rimasuglio dell’era coloniale, serve a colpire il dissenso» (già, era una legge emanata dai britannici per reprimere l’allora movimento anticoloniale).

Gli arresti hanno fatto scalpore ben oltre il campus. Alcune figure del governo hanno sparato a zero: terroristi, elementi antinazionali. Le tv hanno amplificato le accuse. Durante l’udienza che ha confermato l’arresto, nell’aula del tribunale, avvocati e agenti di guardia sono stati visti picchiare gli imputati. Kumar e i suoi compagni sono stati scarcerati un mese dopo, su cauzione, perché non c’erano prove a loro carico: il magistrato però ha ribadito che non si può invocare la “libertà d’espressione” per quegli slogan, che sono una minaccia all’integrità della nazione, anzi “una infezione” che “va amputata”. Parole inquietanti.

Tornato al campus, Kanhaiya Kumar ha parlato a migliaia di studenti che lo attendevano. «Non cerco libertà “dall’India” ma “nell’India”», ha detto tra applausi e urla di “azadi”, libertà. «Vogliamo azadi dal capitalismo, dal brahmanesimo, dal castismo, questa è la libertà che vogliamo». Quel discorso ha avuto grande eco in tutta la nazione. Molti vedono in Kumar una stella nascente della politica.

Le agitazioni sono continuate tutta la primavera, insieme alle richieste di punizioni esemplari per gli “anti patriottici”. Tra marzo e aprile, nel piazzale davanti al rettorato si è svolta una serie di lezioni aperte in cui illustri giuristi, storici, economisti, artisti hanno discusso “i molti significati di libertà” (filmate, sono sul sito web nato a sostegno del movimento di Jnu). «È in gioco la libertà di opinione», commenta Jayati Ghosh, nota economista, che come molti altri professori di Jnu ha solidarizzato con gli studenti. Fa notare che la Jawaharlal Nehru University ha una consolidata reputazione di università aperta al dibattito. All’inizio di quest’anno però si è insediato un nuovo Vice-Cancelliere (è una nomina governativa): un uomo noto non per le credenziali accademiche ma perché vicino alla Rss, organizzazione politico-culturale all’origine dell’idea di “India hindu” (fondata nel 1925, la Rss ha una struttura paramilitare e una forte coesione interna; dai suoi ranghi escono tutti i dirigenti di spicco del partito nazionalista al governo, incluso il premier Modi). Un paio di settimane dopo l’arrivo del nuovo Vice-Cancelliere, ecco la provocazione che ha portato in galera gli studenti. «L’intenzione del governo è chiara, distruggere l’università come luogo di libera espressione e circolazione del sapere», sostiene Ghosh.

«Attaccano Jnu perché fa resistenza all’ideologia della hindutva promossa dal governo», osserva Himanshu, uno dei ragazzi accampati davanti al rettorato. «Ma il nostro movimento non riguarda solo l’università. Libertà di espressione, giustizia, caste, riguardano tutti». E poi, il movimento è nato molto prima degli arresti: «È cominciato a quando Rohit Vemula si è tolto la vita».

Il suicidio di Rohit Vemula, studente all’università di Hyderabad, nell’India meridionale, lascia sgomenti. È successo in gennaio, e ha suscitato rabbia in tutta l’India, mobilitando studenti, attivisti sociali, partiti della sinistra, intellettuali. Vemula era un dottorando, preparava una tesi di PhD in scienze naturali. Era anche un dalit. Aveva militato in gruppi della sinistra, poi era entrato nella Ambedkar Students Association, organizzazione studentesca che da voce alle istanze dei dalit, gli adivasi (o “tribali”, i nativi del subcontinente indiano), e di altre minoranze e “gruppi svantaggiati”.

Il richiamo a Ambedkar fornisce i riferimenti politici. Bhimrao Ramji Ambedkar, giurista e filosofo, ha presieduto l’Assemblea Costituente che tra il 1947 e il 1949 ha scritto la Costituzione indiana. Era un dalit, e si è battuto contro il sistema delle caste per un’idea inclusiva di cittadinanza. Il sistema di azioni positive a favore di dalit e adivasi è nato allora. Ma la critica di Ambedkar era più radicale: sosteneva che la ferrea gerarchia sociale della casta, in cui un fuoricasta sarà sempre in fondo alla scala del disprezzo, è connaturata all’idea stessa di “India hindu”; in questo aveva polemizzato con altri “padri costituenti” e con lo stesso Gandhi (nei primi mesi di quest’anno, nel cinquantenario della morte, Ambedkar è stato oggetto di celebrazioni ufficiali perfino stucchevoli, che per lo più sorvolano sulla radicalità delle sue idee).

Lo scorso settembre il rettorato dell’Università di Hyderabad ha preso un provvedimento disciplinare contro cinque studenti, attivisti e dirigenti dell’Associazione ambedkariana: espulsi dal pensionato e dagli spazi comuni del campus. Tra loro Rohit Vemula, a cui è stata anche revocata la borsa di studio. Perché? Qualche tempo prima l’associazione aveva organizzato la visione di un film documentario, Muzaffarnagar is still standing, sul pogrom contro la minoranza musulmana avvenuto nella primavera 2014 in una cittadina dell’Uttar Pradesh, India settentrionale: case bruciate, decine di morti, famiglie musulmane costrette alla fuga. Il documentario (come già diverse indagini, indipendenti e ufficiali) ricostruisce come quella violenza sia stata istigata dalle forze della destra hindu, durante la campagna a elettorale che ha portato alla vittoria il Partito nazionale indiano (Bjp) dell’attuale primo ministro Narendra Modi. La proiezione è stata attaccata da studenti della Abvp, l’associazione legata alla destra hindu (la stessa che ha denunciato gli studenti di New Delhi: la scrittrice Arundhati Roy, in un recente saggio, la definisce «occhi e orecchie della Rss, e suo agente provocatore»). Giorni dopo, un giovane ha denunciato di essere stato fisicamente aggredito da Vemula e i suoi compagni; sulle accuse sono stati sollevati molti dubbi, ma l’autorità accademica le ha prese per buone.

L’umiliazione di quel provvedimento disciplinare è evidente: Vemula e compagni sono stati banditi dagli spazi pubblici, proprio come “intoccabili”. Per protesta si sono accampati al limitare dello spazio proibito, sotto un riparo di teli e cartoni polemicamente battezzato velivada, come lo spazio tradizionalmente riservato agli intoccabili all’esterno dei villaggi: il “ghetto dalit”. Per mesi il gruppetto si è arrangiato, dormendo a volte nelle stanze di amici, mangiando gli avanzi della mensa. La protesta degli studenti espulsi non sembra aver mobilitato altre associazioni studentesche né le forze politiche della sinistra, al di là di attestati di solidarietà. Cosa spinga una persona a togliersi la vita è imponderabile, ma gli amici di Vemula hanno parlato di una sensazione di isolamento ormai schiacciante.

Rohit Vemula era figlio di una madre sola e poverissima, e aveva avuto una vita pesante. Era uno studente brillante, ma senza la borsa di studio difficilmente sarebbe potuto arrivare al PhD. Anche i suoi compagni sono la prima generazione istruita nelle rispettive famiglie. È un dato: in tutta l’India l’università pubblica, il sistema delle borse di studio, e vent’anni di politica delle pari opportunità hanno trasformato la composizione delle università: negli anni ’80 erano più élitarie, oggi i “gruppi svantaggiati” non sono più sparute minoranze (a Jnu, a New Delhi, sono sono quasi metà degli iscritti). Certo: ammettere ai corsi è una cosa, eliminare il disprezzo è altro (un reportage del magazine Caravan sulla storia di Vemula ricostruisce le umiliazioni subite da studenti e insegnanti dalit a Hyderabad). Ora però una nuova generazione di studenti, assertivi e curiosi, non si limita a rasentare i muri: rivendica rispetto, e anche il diritto a esprimere opinioni.

Le parole lasciate da Rohit Vemula sono ormai famose. «Il valore di un uomo è stato ridotto alla sua immediata identità e alle sue possibilità. A un voto. Un numero. Una cosa. Mai un uomo è stato trattato come una mente, una cosa gloriosa fatta di polvere di stelle». Riprodotte su striscioni e manifesti, ripetute in assemblee, urlate in cortei di protesta, queste parole hanno fatto il giro dell’India.

Sono queste parole che vedo scritte sotto il ritratto stilizzato di un giovane sorridente, affisso dagli studenti sulla facciata del rettorato della Jawaharlal Nehru University di New Delhi. Accanto c’è il volto di Ambedkar con un’altra citazione: «Se il dominio hindu si realizzerà, sarà la più grande calamità per questo paese, una minaccia a libertà, eguaglianza e fraternità». Poi ancora il ritratto di Baghat Singh, leggendario leader del movimento operaio. Più su l’immagine di Soni Sori, insegnante e attivista sociale adivasi in una remota regione dell’India centrale. Sono le figure prese a riferimento da questi studenti, che combinano le rivendicazioni anticasta, la critica alla politica identitaria e sciovinista della destra hindu, e la critica delle diseguaglianze sociali propria della sinistra.

«Il contesto è un governo di destra che sta cercando di mettere sotto controllo l’istruzione superiore», dice David Pradhan, candidato a un PhD in antropologia culturale, uno dei partecipanti allo sciopero della fame a Jnu. Cita orrori recenti, come l’uomo linciato da una folla perché sospettato di mangiare carne di bue, o intellettuali e artisti attaccati e a volte uccisi perché accusati di offendere l’ideologia che va per la maggiore: le minoranze ora vivono in uno stato di insicurezza. «È in gioco l’India come stato laico», continua lo studente, «un paese stratificato per classi e gruppi sociali, con grande diversità, dove chi ha l’intelligenza di superare gli esami abbia l’opportunità di studiare anche a Jnu, una delle università migliori, luogo di alto standard di insegnamento e di libertà di espressione».

Il governo attacca l’autonomia delle università e taglia i fondi per la ricerca, insiste lo studente. «Il governo ci accusa di essere sediziosi e antinazionali se diciamo che gli abusi delle forze di sicurezza sono violazioni dei diritti umani: e questo promette male per l’India», dice David. «Non vogliamo che questo diventi uno stato teocratico hindù, né uno stato governato dalle imprese, dove anche l’istruzione è privatizzata». I suoi compagni annuiscono. E però, conclude David, «credo che il governo non avesse previsto la risposta di studenti e insegnanti di tutto il paese».

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