Bollywood’s India: indagini storiche
sul grande schermo nel subcontinente

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Bollywood’s India. A Public Fantasy (2015) di Priya Joshi, associate professor alla Temple University di Baltimora equivale a una summa theologiae sulla cinematografia indiana, un libro che ogni appassionato del cinema del subcontinente asiatico dovrebbe leggere per conoscere più a fondo i principali filoni conduttori di un grande schermo che di anno in anno cattura sempre più estimatori.

Un linguaggio piano, accessibile, a metà tra l’articolo specializzato e il saggio divulgativo. Un approccio multidisciplinare, che non trascura la psicanalisi. Poi, tre decenni fondativi nella storia del cinema indiano, gli anni Cinquanta, i Settanta e i Novanta post-liberalizzazione del subcontinente. Inoltre, due trittici fondamentali di Bollywood: tre film di Raj Kapoor dei Fifties e tre dei due sceneggiatori Salim-Javed degli anni Settanta. Ancora, l’analisi del più famoso curry western: si tratta di Sholay (“Fiamme”), di Ramesh Sippy, del 1975. E infine pellicole post-liberalizzazione che non sono più Bollywood, ma Bollylite, simili a Bollywood, ma per il loro contenuto sostanzialmente diverse. Sono questi, in sintesi, i temi trattati nel libro della ricercatrice Priya Joshi.

«L’incontro del cinema con la politica non è nuovo, né è confinato al periodo studiato», si legge nel libro. «Ma ciò che differisce attraverso i vari periodi storici è il genere di nazione presa in visione nel cinema, il genere delle pubbliche fantasie che la rafforzano e la contengono, e il grado in cui la nazione costituisce il nucleo della fantasia del cinema».

A differenza di altri autori Priya Joshi sancisce una netta suddivisione tra Stato e nazione. Il primo si riferisce alle componenti politiche e amministrative della politica moderna che hanno il potere e l’autorità per governare, la seconda invece costituisce l’insieme di costruzioni ideali congruenti con lo Stato, ma che spesso non vi si sovrappongono. Così, se la nazione precede la creazione dello Stato nelle democrazie occidentali, l’inverso accade in India, quando, nel 1947, al tempo del famoso “appuntamento con il destino” citato nel discorso di Nehru quando l’India diventa indipendente dal Regno Unito, la nazione resta tutta da fare. E il cinema rimane una zona di confine tra Stato e nazione.

Proprio la dinastia dei Kapoor, cineasti famosi quanto la dinastia Nehru al potere, e ad essa legata per affinità intellettuali, negli anni Cinquanta lega il primo concetto di nazione al cinema. È il decennio in cui ancora c’è il sogno di una nazione unificatrice, che sa offrire sogni. In Awara (“Il vagabondo”), del 1951, di Raj Kapoor (1924 – 1988), un ragazzo, rifiutato dal padre giudice che scaccia la madre incinta perché rapita da un bandito e quindi probabilmente vittima di uno stupro (anche se non è vero), diventa un delinquente. Aggredendo il padre, verrà salvato dalla pupilla di questo, avvocato, con cui ha una storia d’amore. Passerà qualche anno in carcere ma con la promessa di diventare un uomo migliore, “un giudice”, e la ragazza lo aspetterà. Nell’immaginario pubblico ci sono quindi due idee: la natura del crimine e gli sforzi per riformarlo, e la situazione difficile del “piccolo uomo” stritolato in una società ostile. Ma in due film successivi, la giustizia, anche se vista ancora come emanazione dello Stato, che premia e punisce, è più evanescente. È il caso di Shree 420 (“L’inganno del gentiluomo”) del 1955, sempre di Raj Kapoor, e di Ab Dilli Dur Nahin (“Dehli ora non è lontana”), del 1957, questa volta solo prodotto da Kapoor. In quest’ultima pellicola, un bambino, che chiede giustizia per il proprio padre, cerca disperatamente Nehru per portare la testimonianza scritta della sua innocenza, ma lo statista appare come una figura evanescente, lontana, che si vede solo nelle foto o in parate ufficiali, e solo alla fine il ragazzino riuscirà a raggiungerlo.

Gli anni Settanta vedono una brusca virata e un tradimento degli ideali del padre Nehru con l’ascesa al governo di Indira Gandhi. Sono gli anni in cui, dal 1975 al 1977, la statista indiana, accusata di brogli elettorali, proclama lo stato d’emergenza contro le opposizioni. Anni duri, difficili, con la sterilizzazione forzata di masse di poveri. Di tutto questo sono soprattutto testimoni due film: Sholay (“Fiamme”), del 1975, e Deewar (“Il muro”), del 1975.

Sono entrambi campioni d’incasso al botteghino, e Sholay è diventato un tormentone per gli indiani anche di generazioni successive. Si tratta di un curry western: un ex ispettore di polizia, Thakur, che ha visto uccidere la propria famiglia da un bandito, Gabbar, che gli ha anche mozzato le braccia, ingaggia due ex fuorilegge, Jai e Veeru, per farlo fuori. Uno di questi morirà, l’altro andrà via dal villaggio di Thakur seguito però dalla sua bella, Basanti, che ha incontrato là.

Secondo Javed Akthar, co-sceneggiatore, il film rifletteva lo Zeitgeist dell’epoca, con lotte sociali, frustrazione politica, disillusione verso tutte le istituzioni, i college, le forze di polizia. La pellicola è reazionaria, perché si rivolge a quelli delle classi basse come gli abitanti del villaggio e a due fuorilegge per proteggere Thakur, un uomo della upper class. Sholay ha avuto grande successo tra le masse popolari perché dimostra che la violenza e la brutalità possono essere estirpate solo da due fuorilegge, non dallo Stato, impotente. Il film infine ha funzionato nei confronti dell’audience aiutandola a esorcizzare le sue paure.

Ma un altro film fondativo segna gli anni Settanta: si tratta di Deewar (regista, Yash Chopra), seguito da altri due che, secondo la Joshi, ne mitigano il messaggio dirompente. Sono Trishul (“Il tridente”), del 1978, e Shakti (“Potere”), del 1982, tutti e tre con la sceneggiatura di Salim Khan e di Javed Akthar.

Qui si può parlare, con Freud, di romanzo familiare: le fantasie sono spostate da una situazione frustrante (per esempio una famiglia umile) ad una che gratifica il soggetto che, per esempio, sogna di avere genitori altri, socialmente più appaganti, o una situazione individuale e sociale migliore. In tutti e tre i film la vicenda è spostata dal livello dello Stato-nazione a quello della famiglia, tutti e tre i film strutturalmente sono simili. Ma è opportuno soffermarsi solo sul più paradigmatico, Deewar. La trama è semplice: un sindacalista, Anandbabu, costretto a tradire gli ideali dei lavoratori perché la sua famiglia è stata rapita dal padrone, scompare, lasciando la moglie Maa e i figli piccoli Vijay e Ravi che vanno a Mumbai a vivere con gli emarginati. Qui la madre e Vijay, il bambino più grande, lavorando, permettono al minore di laurearsi. A un certo punto però Vijay diventa un fuorilegge mentre Ravi un ispettore di polizia. La storia finisce con Ravi che uccide Vijay che muore tra le braccia della madre. La storia ha delle analogie con il complesso di Edipo: mentre Giocasta si uccide quando scopre l’incesto con il figlio è come se Maa sposasse il figlio più grande e lo uccidesse armando (come nel film farà) la mano di quello più piccolo. E quando Vijay rinfaccia a Ravi il suo stile di vita gramo come tutore della legge, lui gli risponde: «Io ho Maa». Sia Ravi che Maa rendono la parentela un oggetto. Maa sanziona la sua violenza come quella dello Stato (la polizia). Vijay deve morire e la donna deve farlo in modo da renderlo il suo sacrificio, non quello di lui. E lo Stato appare pienamente ingannato, dando addirittura alla donna una medaglia. Maa rappresenta per la propria famiglia quello che Indira Gandhi rappresenta per le istituzioni statali: non per niente c’è un manifesto elettorale in cui sullo sfondo dell’India compare Indira con la scritta Mother India Needs You.

Passano gli anni Settanta, scarsi accenni, nel libro, agli Ottanta. Con la liberalizzazione si registrano fenomeni nuovi, come l’affacciarsi prepotente dei NRI (Non Resident Indians) e la globalizzazione, in cui la cinematografia indiana perviene in Occidente, dove però resta un fenomeno di nicchia, quasi limitato agli immigrati. Ma si ha un nuovo fenomeno: Bollywood cede il posto a Bollylite, una filmografia di immagine e non di sostanza dove manca il contenuto latente a favore di quello manifesto, dove la famiglia è stabile ed estesa, dove lo spazio sociale diviene la casa e non più gli slum, dove la mobilità sociale è irrilevante nei confronti della trama, dove la violenza ricorre entro la famiglia e non tra classi, dove l’identità nazionale è convogliata da lotte entro ciò che è individuale e non entro ciò che è pubblico. Ed è Bollylite che sostituisce ai valori della famiglia quelli dell’impresa e del consumismo che, rispetto ai film dei decenni passati, diventano il fine di tutto.

Naturalmente molto spesso Bollylite e Bollywood si intersecano, ed è difficile dire dove inizi uno e dove finisca l’altro.

È negli anni Duemila che le logiche cambiano attraverso una nuova riflessione sulla logica del mercato, ormai non fondamentale: non più solo film alla Bollylite, ma anche pellicole che ritornano alla vecchia tradizione che, con le sue pubbliche fantasie, ha fatto, rifatto e disfatto (made, remade, and unmade) nel tempo il concetto di India. In questo quadro, comunque, date le nuove tecnologie, la diffusione del “modello blockbuster” spinge ad includere anche film che contemperano elementi locali e regionali, uscendo così da quella logica mainstream che tanto aveva caratterizzato gli anni precedenti. Ma tutto questo dovrà essere oggetto di future riflessioni.

Vai a www.resetdoc.org

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *