Il Bahrein verso le elezioni, ma gli sciiti sono ancora esclusi

Da Reset-Dialogues on Civilizations

La seconda conferenza anti-Isis a Manama (la prima si è tenuta a Parigi a settembre) si è conclusa il 9 novembre con un impegno solenne a scovare e perseguire i finanziatori dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria (Isis). Ad alcuni analisti, però, non è sfuggita l’ironia della scelta del Bahrein per ospitare l’incontro, al quale hanno partecipato una trentina tra rappresentanti di Stati e governi che aderiscono alla coalizione internazionale capeggiata dagli Stati Uniti, che bombarda in Iraq e in Siria. Le dichiarazioni d’intenti dei vertici del piccolo regno e centro finanziario della Penisola arabica, governato dalla dinastia sunnita Al Khalifa, stridono non poco con la costante repressione della maggioranza sciita del Paese, dei dissidenti e degli attivisti per i diritti umani, che sta caratterizzando queste settimane che precedono le elezioni parlamentari del 22 novembre.

Una repressione che alimenta e aggrava le divisioni tra i due islam, fa notare Brian Dooley su Al Jazeera, creando l’atmosfera giusta per la proliferazione del settarismo di cui si nutre l’ideologia jihadista dell’Isis. Le ultime settimane sono state segnate da manifestazioni contro il regime degli Al Khalifa, che di rado si sono guadagnate gli onori della cronaca, e da una serie di attacchi incendiari contro le macchine o le sedi elettorali dei candidati. Venerdì 7 novembre centinaia di persone sono scese in strada nell’isola di Sitra per protestare contro l’intervento della polizia alcuni giorni prima a Nuwaidrat, in occasione delle celebrazioni per l’Ashura, ricorrenza religiosa molto sentita tra gli sciiti. Gli agenti avevano bloccato la processione ed erano scoppiati scontri con i fedeli. Giorni prima altri blitz delle forze dell’ordine avevano preso di mira alcuni villaggi sciiti, con la rimozione delle bandiere e dei simboli legati alla commemorazione. Nel giro di un paio di settimane, inoltre, la giustizia bahreinita ha sospeso e di nuovo autorizzato le attività di alcune fazioni dell’opposizione (i partiti sono vietati), tra cui il movimento al Wefaq che raccoglie consensi tra gli sciiti e che ad ogni modo aveva già annunciato il boicottaggio della tornata elettorale, giudicandola una farsa. Ma anche la dissidenza si è espressa con la violenza: una decina di candidati sono stati presi di mira con attacchi incendiari alle proprie macchine e ai comitati elettorali.

In questo clima il voto rischia di essere un mero esercizio di apparente democrazia e forse un’occasione persa per riaprire il dialogo interno e delegittimare l’estremismo islamista che ha preso piede anche in questo piccolo arcipelago del Golfo Persico, con poco più di un milione di abitanti. Si contano circa cento bahreiniti nelle file dell’Isis e tra questi un alto funzionario della polizia, che in un video esortava i suoi connazionali a unirsi all’esercito dell’autoproclamato califfato di Abu Bakr al Baghdadi.

L’attivista Nabeel Rajab, direttore del Centro per i diritti umani del Golfo e cofondatore del Centro per i Diritti Umani nel Bahrein, rischia venti anni di carcere per avere denunciato in un tweet la provenienza di combattenti dell’Isis dai ranghi delle forze di sicurezza del regno, che ha definito “incubatori ideologici” per jihadisti sunniti. E non è l’unico attivista finito dietro le sbarre con accuse di sovversione o di offesa alla monarchia: ci sono anche l’ex presidente Centro per i Diritti Umani nel Bahrein, Hadi al Khawaja, e sua figlia Zaynab. Questo piccolo regno che ospita la V flotta della marina statunitense e di rado solleva le critiche della cosiddetta comunità internazionale, poiché è considerato il bastione dell’Occidente contro le mire espansionistiche iraniane, ha il secondo più alto tasso pro capite di detenuti tra gli Stati arabi, dell’Asia occidentale e del Nord Africa. Si stima, in assenza di dati ufficiali, che ci siano circa tremila prigionieri politici nei penitenziari del Paese e che la popolazione carceraria sia raddoppiata dal 2011, quando in migliaia sull’onda delle primavere arabe presidiarono piazza della Perla per chiedere riforme in senso democratico della monarchia costituzionale nata nel 2002 dalle ceneri dell’emirato. Un cambiamento calato dall’alto, che non ha intaccato il potere assoluto della casa reale che ha sempre l’ultima parola sul governo del Paese.

Da quella sollevazione popolare schiacciata nel sangue dalle truppe del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG), sorta di Nato della Penisola arabica dominato dall’Arabia Saudita, il Bahrein è sempre in fibrillazione. Le proteste non si sono mai fermate, soprattutto nei villaggi e nei quartieri sciiti. Così come non si sono fermate le persecuzioni, i blitz della polizia, gli arresti, le torture ampiamente praticate nelle carceri che non aiutano la pacificazione di una società sempre più spaccata. Un tentativo di dialogo nazionale rilanciato dalla casa reale all’inizio dell’anno è fallito e non ha avuto il seguito sperato neanche l’iniziativa di re Hamad di istituire una commissione d’inchiesta (la Bahrein Independent Commission of Inquiry-BICI) per far luce sulle violenze subite dai manifestanti durante lo sgombero, a febbraio del 2011, della piazza simbolo della rivolta, piazza della Perla.

La BICI, presieduta da Cherif Bassiouni, ha stabilito che c’è stata una sistematica violazione dei diritti dei manifestanti e che gli arrestati sono stati torturati, anche fino a procurarne la morte. Inoltre, è emerso che migliaia di persone hanno perso il lavoro e nei mesi successivi sono finiti alla sbarra persino i medici che avevano soccorso i dimostranti feriti. Tuttavia, negli ultimi tre anni non è stata fatta giustizia per quelle violazioni e, al contrario, la stretta repressiva di Manama è stata inesorabile. Decine di persone, tra cui tanti minorenni, sono finite in cella con accuse di terrorismo e sono state approvate una serie di leggi liberticide, tra cui una norma che di fatto sospende il diritto di riunirsi. La comunità internazionale si è limitata a dichiarazioni di condanna, qualche risoluzione, come quella del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, senza però esercitare alcuna reale pressione su Manama.

Il 22 novembre non ci saranno osservatori internazionali (le autorità hanno ritenuto che non ce ne sia bisogno) a monitorare le prime elezioni dopo le sollevazioni del 2011. Alla corsa elettorale partecipa un numero record di candidati: 171 per le amministrative e 322 per 40 seggi nell’Assemblea nazionale, la Camera bassa. Gli altri 40 deputati del Consiglio della Shura, che detiene il potere di veto sulle proposte di legge, sono nominati direttamente dal sovrano. Secondo l’analista politico Ahmed AlKhuzaie, appena il 15 per cento dei candidati ha una vera strategia politica e anche se ce l’ha, manca una programmazione legata a delle scadenze. Ai politici bahreiniti manca una “visione”, ha sostenuto l’esperto sul bahreinita Gulf Daily News. Sarà per questo e per l’assenza di al Wefaq, che nella scorsa tornata elettorale si aggiudicò 23 seggi, che c’è scarso ottimismo sull’affluenza alle urne. Il voto rischia si essere un’occasione persa per includere i cittadini nel dibattito politico e smorzare così le rivalità e il settarismo che giocano a favore degli estremisti.

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