I braccianti sikh dell’agro pontino:
sfruttati per lavorare come schiavi

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Sui campi dell’agro pontino, nel basso Lazio, c’è uno stuolo di braccianti indiani sikh che lavora dall’alba al tramonto, sotto il sole cocente, in condizioni di sfruttamento. Alle cinque del mattino sono già in bicicletta e tornano a casa che è sera inoltrata. Dodici, quattordici ore di durissimo lavoro nei campi. Devono chiamare “padrone” il datore di lavoro. Se si ribellano perdono il posto e sono costretti ad allontanarsi. Per sopportare la fatica dei campi, il dolore alle ossa, alla schiena, alle mani, le frustrazioni psicologiche, sono spesso costretti a doparsi. Oppio, metamfetamine, antispastici. Il caso è stato sollevato un anno fa dall’associazione In Migrazione che ha pubblicato il dossier “Doparsi per lavorare come schiavi”. Da allora non è cambiato molto. La politica locale è di fatto disinteressata – intervenire costerebbe troppi voti.

I più fragili arrivano a suicidarsi: qualche mese fa un lavoratore indiano si è impiccato dentro una serra. Aveva una busta paga di 250 euro al mese, forse in nero arrivava a 450 euro. Ma è tutto “normale” se non si sa leggere il fenomeno, se gli indiani investiti in bicicletta sono “solo” vittima di incidenti stradali e non delle condizioni di lavoro, se i braccianti che si infortunano nei campi sono lasciati a trecento metri dal pronto soccorso intimando loro che no, non possono dire che si sono fatti male a lavoro. Questa è schiavitù anche se non ci sono le catene ai piedi. Succede nel 2015 nei campi agricoli di Sabaudia, Terracina, nella provincia pontina. A denunciare quello che sta accadendo è da anni Marco Omizzolo, sociologo e presidente dell’associazione In Migrazione, con diversi dossier e da ultimo in un saggio nel volume “Migranti e territori” (Ediesse 2015). Omizzolo sui campi c’è stato: si è infiltrato come bracciante lavorando insieme a una squadra di indiani. E denuncia che le condizioni di sfruttamento non sono un caso isolato: sono sistematiche.

La situazione della comunità indiana in provincia di Latina è particolare: si è formata a metà degli anni Ottanta e ora conta fra 25 mila e 30 presenze. Fra l’85 e il 90% dei lavoratori è impiegato nel bracciantato, quasi tutti uomini – ma negli ultimi anni anche le donne stanno iniziando a lavorare nei campi. Alcuni sono arrivati in modo autonomo, altri attraverso il ricongiungimento familiare, altri seguendo le rotte della tratta internazionale. Omizzolo ci racconta che lo sfruttamento dei braccianti sikh “è un fenomeno diffuso che coinvolge tutte le principali città della linea di costa pontina. La comunità sikh è residente a Latina, Sabaudia, Terracina, San Felice, Fondi e Formia. Vivono una condizione di strutturato sfruttamento in ragione di un sistema di reclutamento fondato su tratta internazionale e caporalato nella sua variante anche etnica. La gestione di tratta e caporalato è fatta attraverso una sorta di associazione a delinquere che comprende, anche se in rapporto sbilanciato, alcuni imprenditori, il trafficante e alcuni lavoratori”. La tratta funziona attraverso accordi fra piccoli e medi imprenditori e uno “sponsor”, o trafficante, che si occupa di reclutare in Punjab i lavoratori chiesti dall’imprenditore (che paga una quota per ogni lavoratore), che a loro volta pagano fino a 10 mila euro per arrivare in Italia. “Non c’è il racconto di un Eden ma la vendita di un prodotto” spiega Omizzolo. “I lavoratori vengono per propria scelta, per questo la chiamiamo tratta internazionale nero-grigia, perché non c’è un elemento di violenza evidente. I ragazzi pagano, arrivano in Italia attraverso un visto turistico, qui hanno garantito un alloggio nei luoghi della comunità indiana, il giorno dopo vanno direttamente a lavorare in azienda. All’inizio il lavoratore lavora gratuitamente o con un acconto di 100-150 euro perché così l’imprenditore “ritorna” dell’investimento originariamente fatto. E resta a lavorare in quell’azienda per diverse ragioni: in alcuni casi, ma sono pochi, il datore trattiene i documenti; in altri il lavoratore si sente garantito in ragione di un patto sottoscritto col datore di lavoro; non conosce la lingua, non ha una rete sociale né locale né nazionale, quindi tende a rimanere nell’azienda”.

Le condizioni di lavoro sono durissime: i braccianti vengono pagati da 2 ai 4 euro l’ora e arrivano a stare sui campi fino a 14 ore al giorno tutti i giorni (mezza giornata la domenica), invece di 9 euro lordi per sei ore e mezza di lavoro previsti dal contratto. Hanno buste paga fittizie che segnano quattro o sei giorni di lavoro invece del mese intero, ore segnate a mano dal “padrone”, oppure buste paga gonfiate che permettono loro di chiamare la famiglia ma li espongono poi a una povertà crescente, perché pagano più tasse e servizi. “La comunità è in una condizione di segregazione sociale e di nicchia occupazionale”, racconta Omizzolo, che sottolinea come il sistema sia molto articolato: “Il sistema di sfruttamento non prevede solo lo sfruttato e lo sfruttatore ma più figure, perché l’imprenditore agricolo medio pontino non ha le conoscenze né le capacità per gestire la tratta internazionale. C’è uno stuolo di liberi professionisti, commercialisti, consulenti del lavoro, che in forme diverse in cambio di consulenza e denaro indicano la strada più favorevole e sicura per sfruttare i lavoratori”.

Il datore di lavoro è il “padrone”. Spiega Omizzolo: “Padrone è diventato il termine chiave che denota un sistema. La cosa che mi ha impressionato più di tutte è stata l’azione intimidatoria, repressiva e di schiacciamento dell’identità che viene praticata in molte aziende. Secondo la Flai Cgil, il 90-95% delle aziende agricole in provincia di Latina pratica forme varie di sfruttamento, dal caso più estremo di condizioni di schiavitù al lavoratore che viene pagato sei euro invece dei nove previsti dal contratto provinciale. C’è poi un 5-10% di aziende che assume in modo regolare: sono quelle medio-grandi e grandi che hanno investito sulla qualità del prodotto, che hanno un marketing importante, quelle biologiche e quelle vitivinicole che vincono premi internazionali”.

C’è poi il fenomeno del doping: i braccianti sono costretti ad assumere sostanze dopanti per reggere la fatica dei campi. “Troppo lavoro, troppo dolore a mani”, ha raccontato uno di loro. Un altro: “Il padrone dice lavora e io prendo poco per lavorare meglio e non sentire dolore e fatica perché io devo lavorare. Tu hai mai lavorato in campagna per 15 ore al giorno?”. Un anno fa sono stati rintracciati dodici casi. Il fenomeno è emerso quasi per caso e da segnalazioni confidenziali, racconta Marco Omizzolo, fin quando “durante la redazione di un dossier di Amnesty International un indiano mi disse che ci sono droghe che arrivano nei campi perché i lavoratori sono stanchi. Allora ho inquadrato il fenomeno: droga, campo agricolo, sfruttamento. Non è droga per sballarsi ma è assunzione di sostanze dopanti per lavorare come schiavi nei campi agricoli”. Tre i tipi di sostanze coinvolte: c’è l’oppio, frutto di produzione locale o extraregionale in mano a italiani e di spaccio in mano indiana, che costa pochissimo (dieci euro a bulbo); la metamfetamina, “molto probabilmente realizzata in modo clandestino da organizzazioni criminali-mafiose”; e l’antispastico usato per superare i dolori muscolari, in genere frutto di spaccio da rapina alla distribuzione di farmaci e alle farmacie. Dopo un anno dalla denuncia, sostiene Omizzolo, la situazione “adesso è peggiore perché non ci sono state azioni da parte delle istituzioni per superare il fenomeno. C’è stato molto dibattito politico, molto dibattito mediatico ma a distanza di un anno il fenomeno si sta allargando dal campo alle azioni fuori dal campo. Le forze dell’ordine agiscono attraverso azioni repressive ma manca l’azione della politica, che dovrebbe essere quella di promuovere politiche pubbliche di contrasto e prevenzione”.

Nelle ripetute denunce fatte da chi sui campi agricoli c’è stato si parla di schiavitù. “Per essere schiavi non devi avere la catena alla caviglia”, spiega Omizzolo. “Riduzione in schiavitù significa violazione dei diritti umani, impossibilità di esercitare i propri diritti di persona e di lavoratore. Secondo la normativa internazionale c’è riduzione in schiavitù quando un lavoratore prende un terzo del salario di cui avrebbe diritto, quando non è libero di poter intervenire pubblicamente dichiarando la propria condizione, quando vengono negati i diritti sociali. Tutto questo incatena al sistema di sfruttamento nel quale si è inseriti. La domanda è: perché in trent’anni i sikh dell’agro pontino continuano a fare i braccianti agricoli? Perché non ci sono alternative, non ci sono servizi sociali, perché il sistema esterno non li tutela”. Alcuni hanno iniziato a denunciare, anche attraverso uno sportello di informazione e assistenza aperto a Bella Farnia (che si è appena chiuso) ma “hanno compreso limiti e contraddizioni del nostro sistema giudiziario” spiega Omizzolo raccontando che per una vertenza iniziata due anni fa deve ancora essere stabilita la prima udienza. “Il sistema giudiziario italiano è così lento e farraginoso che determina per chi alza la testa una condizione di debolezza tale che si arriva o a rinunciare alla denuncia o a dover andare via, perché si perde il posto di lavoro”. Qualcosa si potrà pure fare. Per Omizzolo serve formazione e informazione di base; servizi sociali pubblici; blocco dei contributi pubblici europei alle aziende che praticano lo sfruttamento e la riduzione in schiavitù; l’aggiornamento del reato di caporalato e la sua introduzione nel 416 bis.

“Il dossier Agromafie e caporalato di Flai Cgil dice che ci sono 400 mila lavoratori e lavoratrici che vivono condizioni di sfruttamento; l’80% sono immigrati; di questi 100 mila vivono condizioni di riduzione in schiavitù”, racconta il sociologo. “Il fenomeno è presente in particolare nel Sud ma anche nella campagne dell’Astigiano, in Emilia, nel Veneto, dove ha carattere meno evidente ma è ugualmente presente. È un fenomeno sistemico. Ed è legato anche alle politiche industriali poggiate sulla grande distribuzione organizzata”. A questo si aggiunge la mancanza di controlli e di regolarità. Gli imprenditori agricoli lo negano ma i braccianti sikh all’una e mezza, d’estate, sono sui campi sotto il sole a lavorare. E la politica locale latita. Sostiene Omizzolo: “Il fenomeno non viene affrontato dalle istituzioni perché affrontarlo significa mettere in discussione il sistema. E il sistema imprenditoriale agricolo pontino politicamente conta ed economicamente è forte, paga le campagne elettorali, racimola migliaia di voti. Guardare dentro quel sistema e cercare di cambiarlo significa perdere consenso. Per questo le maggiori operazioni sono state condotte dalle forze dell’ordine e non dalla politica. La politica interviene a livello nazionale, ma la politica locale è strumentalmente disinteressata”.

Immagine: Un fermo immagine dal documentario “Tan Kosh” di Giordano Cossu, Saverio Paoletta e Harvinder Singh che racconta la vita dei braccianti sikh nell’Agro pontino

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