Hebron, la “Belfast del Medio Oriente”
Viaggio attraverso una città spezzata

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Attraversare le strade di Hebron, e soprattutto la storica Shuhada Street, principale arteria commerciale cittadina, oggi da tempo chiusa al traffico e ridotta a uno spettrale serpentone grigio, tra due quinte di case in gran parte ormai abbandonate, dà veramente l’impressione di ritrovarsi nella Belfast degli anni peggiori, col misero quartiere cattolico di Falls Road e l’occhiuta, incombente presenza dell’occupante, che sbuca quasi da ogni parte. Sì, perché questa è la situazione di Hebron, maggiore città della Palestina (200.000 abitanti palestinesi, più circa 700 ebrei nell’antico quartiere ebraico, e i circa 7.000 del vicino insediamento di Qiryat Arba), a 30 km a sud di Gerusalemme.

Famosa per le fabbriche di ceramiche e di vetri soffiati, e sacra anch’essa a tutte e tre le religioni (nella “Grotta dei Patriarchi”, nella parte bassa della città, secondo la Bibbia, sarebbero sepolti Abramo, Sara, Isacco, Rebecca e Lia, una delle mogli di Giacobbe). A Hebron abbiamo camminato a lungo, durante il viaggio fatto recentemente in Israele e in Cisgiordania con Assopacepalestina, l’associazione, presieduta dalla Vicepresidente emerita del Parlamento Europeo Luisa Morgantini, che da anni promuove iniziative di dialogo per la soluzione del conflitto mediorientale.

Sino al 1948 sotto il mandato d’amministrazione britannico, poi, sino alla Guerra dei sei giorni, sotto sovranità giordana, col divieto per gli ebrei di accedervi, nell’agosto 1929, durante i frequenti scontri tra popolazione araba e coloni ebraici, Hebron era stata teatro d’un sanguinoso pogrom (67 ebrei uccisi e 135 feriti). Quarant’anni dopo, nel ’69, gli ebrei tornavano nella città, creando un’ “enclave” successivamente approvata dal Governo israeliano, e fondando poi l’insediamento di Kiryat Arba. Il 25 febbraio 1994, dopo gli accordi di Oslo, l’israeliano Baruch Goldstein, membro della Lega di Difesa Ebraica, “pareggiava i conti” col ’29 sterminando a colpi di fucile mitragliatore decine di mussulmani impegnati in preghiera nella moschea cittadina, e perdendo la vita nei successivi scontri tra arabi ed esercito israeliano (60 i morti palestinesi, di cui 29 nella sola moschea, più altri 35 abbattuti da Tsahal, e 5 israeliani uccisi dalla folla). Dopo l’accaduto, e in conformità con l’accordo ad interim “Oslo II” su Cisgiordania e Gaza del settembre 1995, la città nel ’97 veniva divisa – con un protocollo firmato, sotto supervisione statunitense, da Netanyahu e Arafat – nei 2 settori di Hebron 2 (circa il 20% della città), sotto controllo dell’esercito israeliano, e Hebron 1, affidata al controllo dell’ANP. A vigilare sull’applicazione di questo “Protocollo di Hebron”, le due parti accettavano la presenza d’una forza internazionale con compiti d’osservazione (la T.I.P.H., Temporary International Presence in Hebron), composta da forze norvegesi, italiane, danesi, svedesi, turche e svizzere.

Oggi, questa città davvero è uno dei luoghi dove più si avverte quell’atmosfera di tensione, di scontro tra due popoli, due culture, due religioni, due modi diversissimi di concepire la vita che si respira in tutti i Territori Occupati. E che qui si concretizza nell’intricato regime di codici identificativi personali, permessi, controlli cui i palestinesi devono sottostare per accedere a servizi e abitazioni rimaste nella zona sotto controllo israeliano; nella progressiva “ebraizzazione” della città (avvertibile, ad esempio, dai cartelli che, intorno a Shuhada Street, enfatizzano le testimonianze storiche sulla presenza degli ebrei ad Hebron sin dall’antichità, ignorando completamente la maggioranza palestinese); nel groviglio di check-point, corridoi, posti di blocco che intersecano edifici sporchi e fatiscenti. E, soprattutto, nello stato di Shuhada Street: che, dopo la strage e le proteste popolari del 1994, fu chiusa dalle autorità israeliane (che temevano rappresaglie ai danni dei coloni oltranzisti) prima ai veicoli palestinesi, poi agli stessi civili. Il risultato è una serie di situazioni a dir poco surreali: con più di 500 imprese commerciali, poste lungo la strada o nei dintorni, che dovettero chiudere all’indomani del “febbraio maledetto” del ’94, e i palestinesi – per i quali la strada, ora, è completamente “off limits” – costretti a fare giri tortuosi (per andare all’Università, ad esempio), o addirittura a passare dai tetti degli edifici.
Nel centro culturale (una vecchia palazzina a due piani, sino al 2006 un’installazione militare) che i militanti palestinesi son riusciti faticosamente ad aprire nella parte alta della città, immediatamente sovrastante Shuhada Street, e dove s’organizzano corsi di lingue, di ballo e attività ludiche per i bambini dell’asilo nido, Issa Amro, giovane palestinese fondatore, nel 2006, dello YAS (“Youth Agains Settlements”, movimento nonviolento che contesta la politica israeliana di insediamenti a Hebron, documentando le violazioni di diritti umani con riprese fotocinematografiche, e aiutando la popolazione civile ), è esplicito. “Secondo Israele, io e gli altri attivisti siamo soggetti alla legge militare israeliana (questa sede dello YAS, dove siamo stati ospitati a pranzo, mangiando ottimamente ma combattendo con la cronica scarsità d’acqua per uso domestico che affligge le case palestinesi, dove la disponibilità idrica c’è solo per due, massimo tre giorni la settimana, è nella zona “H2”,sotto il continuo controllo israeliano, N.d.R.).”

“Quella stessa legge che a Hebron – dove già esistono almeno tre insediamenti di coloni ebrei oltranzisti – autorizza la costruzione di ulteriori “settlements”, tra loro collegati: dove vivono estremisti che quasi ogni giorno ci molestano” continua Amro, “spesso divertendosi a buttarci addosso l’immondizia (per proteggersi, come già addirittura nella stessa Gerusalemme Est, dove anche solo quindici anni fa queste cose sarebbero state impensabili, i palestinesi in molte strade di Hebron han dovuto installare lunghe reti metalliche, che, collegando tra loro i palazzi, amplificano ulteriormente l’effetto “bazaar di Istanbul”, N.d.R.). Tuttavia andiamo avanti. Quello che vedete in questo centro è il primo spazio pubblico realizzato ad Hebron da vent’anni, dopo il trauma del 1994-’95, che pesa ancora gravemente sulla vita cittadina (Goldstein, in sostanza, agì contro di noi per punirci di voler essere veramente proprietari di Hebron): entro quest’anno vogliamo aprire anche un cinema”.
DONNA di HEBRON
Nel 2014, Issa e altri militanti YAS sono stati in Italia, organizzando manifestazioni per la riapertura di Shuhada Street a Milano, Firenze e Roma. È nata, già nel 2010, la campagna internazionale “Open Shuhada Street”, sostenuta da Assopacepalestina e da altre organizzazioni pacifiste e per i diritti umani: e di cui s’è tenuta l’ultima edizione a fine febbraio, con una “staffetta della solidarietà” tra varie città italiane, da Milano a Genova, da Torino a Brescia, Padova, Bologna, Firenze. Momento conclusivo, il 27 febbraio a Roma, presso la Comunità cristiana di base di San Paolo (storico “Regno” di Don Giovanni Franzoni): con le testimonianze di Sundus Azza, attivista di YAS, e Najwa Amro, abitante di Shuhada Street, e la proiezione del video di Livia Parisi “Al Khalil, la città fantasma”. “Qui a Hebron, invece”, conclude Issa Amro, “vogliamo fare del 25 febbraio, data del “giorno da cani” di Goldstein, la festa civica (anni fa abbiamo lavorato, per organizzarla, insieme anche a militanti sudafricani antiapartheid); e anche in Germania (Paese che ha con la Palestina stretti rapporti economici, N.d.R.) vogliamo organizzare qualcosa”.

Complessa, a dir poco, è la situazione di questa “Belfast del Medio Oriente”. Dove un movimento come YAS lotta senz’altro in modo nonviolento, ma forte – diversamente che nella maggior parte della Cisgiordania – è l’appeal seduttivo di Hamas. Le cui bandiere nere occhieggiano ogni tanto, in mezzo a quelle verdi classiche islamiche e al solito mare di simboli, bandiere, manifesti inneggianti al “grande assente” Arafat, al presidente Abu Mazen e all’uomo che molti, anche in Europa, considerano quasi il “Mandela palestinese”: quel Marwan Barghuti, successore di Arafat alla guida dell’OLP, dal 2002 detenuto nelle carceri di massima sicurezza israeliane con la condanna a 5 ergastoli per omicidio, che fu tra gli organizzatori delle Intifade del 1987 e del 2000, e per il quale si sta organizzando, in Francia, Italia e altri Paesi europei, un’altra grande campagna di mobilitazione. Ma, tornando al paragone con l’Ulster, è innegabile che Arafat, uomo discutibile, emblema delle difficoltà della società palestinese d’esprimere una classe dirigente moderna e capace, immune dalle collusioni col terrorismo e dalle lusinghe “tangentocratiche”, ha avuto però il merito di tenere la religione (lui che da giovane aveva militato, in Egitto, proprio nei “Fratelli musulmani”) fuori dalla questione palestinese, mantenuta sempre nei binari d’un sano secolarismo. Conformemente, del resto, alla formazione e alla mentalità del palestinese medio: pragmatico e, pur da credente musulmano, con l’occhio volto ad Occidente, non certo ad ayatollah e sceicchi wahabiti. Appunto per questo, la prospettiva di una “irlandizzazione” del conflitto mediorientale sembra francamente poco probabile. Da parte sia palestinese che soprattutto, “mutatis mutandis”, israeliana, emergono però, oggi, segnali preoccupanti (come le scritte anticristiane vicino alla basilica dell’Annunciazione a Nazareth, o i folli progetti dei movimenti ultraortodossi ebraici di radere al suolo la moschea di Omar a Gerusalemme): contro i quali le energie civili delle due società, palestinese e israeliana, devono vigilare al massimo.

Immagine di copertina: fotografia di Michele Cirillo

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