Egitto: lunga striscia di sangue,
la Rivoluzione è solo un ricordo

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Un paio di settimane fa, proprio sulle colonne di Reset, Azzurra Meringolo ha ricordato come il 25 gennaio sia diventata una data sempre più difficile da celebrare in Egitto. L’anniversario simbolico dello scoppio della rivoluzione che cinque anni fa, dopo 18 giorni di proteste senza precedenti, portò alla caduta di Hosni Mubarak è infatti il simbolo crescente della ferocia repressiva del nuovo regime e della debolezza dei movimenti di opposizione. Un anniversario che oltretutto negli ultimi anni ha anche lasciato dietro di sé una lunga striscia di sangue.

Nel 2014 negli scontri contro le forze di polizia davanti al sindacato dei giornalisti perse la vita Sayed Abdullah, giovane attivista del Movimento 6 Aprile. L’anno successivo è stato il turno della trentunenne poetessa, madre, e membra del Socialist People’s Alliance Party (SPSP), Shaimaa al-Sabbagh, tragicamente uccisa da un proiettile mentre stava recandosi in piazza Tahrir a deporre un mazzo di fiori per i martiri della rivoluzione.

L’ultimo doloroso episodiogiulio regeni riguarda invece uno studente friulano. Il dottorando all’Università di Cambridge, Giulio Regeni, che si trovava temporaneamente all’Università Americana del Cairo per portare avanti i propri studi, è stato ritrovato cadavere in un fosso all’estrema periferia della capitale egiziana dopo che di lui si erano perse le tracce proprio lo scorso 25 gennaio. La dinamica degli eventi non è stata ancora chiarita, ma gli evidenti segni di tortura che sarebbero stati trovati sul corpo dello studioso lasciano poco spazio alle interpretazioni.

Dagli altari all’oblio: il silenzio della classe media egiziana

La rivoluzione egiziana è stata spesso descritta da giornalisti ed esperti Occidentali come un singolo evento, circoscritto ad una piazza – Tahrir, ovviamente – e ristretto a poche settimane. La ricorrente narrazione ci propone così un’improvvisa e largamente inattesa mobilitazione di giovani provenienti da quella classe media inferiore in crescente difficoltà negli ultimi anni di Mubarak.

Questi figli della burocrazia nasserista, infatti, nonostante un alto livello di istruzione, si scontravano con una realtà fatta di corruzione, favoritismi, nepotismo, e limitatissime possibilità di affermazione per chi non aveva le conoscenze giuste. Il desiderio di raggiungere una società più meritocratica dove maggiori sarebbero state le libertà politiche e civili ha quindi innescato una dinamica di piazza che si è immediatamente avvantaggiata del supporto fornitogli dai moderni mezzi di comunicazione.

Dopo un lungo e pacifico confronto con il regime, la forza numerica e simbolica dei manifestanti ha infine, sempre secondo questa vulgata, costretto Mubarak ad abbandonare il potere alla soglia dei trenta ininterrotti anni alla guida dell’Egitto.

Il problema con questo, decisamente prevalente, resoconto è la sua estrema parzialità. Sia chiaro, quanto detto sopra non è la fantasiosa descrizione di qualcosa mai avvenuto, ma la trasformazione di una parte nel tutto.

Le classi medie sono state certamente una delle spine dorsali delle rivolte, ma il ruolo del movimento operaio che a partire dal 2004 ha dato vita – seguendo le parole di Joel Beinin, studioso americano tra i massimi esperti in materia – «alla più lunga e forte ondata di proteste dai lontani anni Quaranta» non può essere ignorato.

Così come non può essere taciuta la forza esplosiva che i crescenti settori marginali della società hanno impresso alla rivolta con la loro carica di rabbia e frustrazione. Ricomporre le tessere di quel puzzle che trovò splendida armonia in piazza Tahrir cinque anni fa – ma non solo lì, perché nei fatidici diciotto giorni tutto il paese dal Delta fino al tradizionalmente sornione Alto Egitto era in ebollizione – sembra però oggi maledettamente complicato.

Questo nonostante la vitalità che, tra avanzate e ritirate, mantengono i lavoratori, soprattutto nei distretti industriali ad alta concentrazione di manodopera, e il non addomesticamento dei quartieri popolari delle principali città egiziane. In altre parole, proprio quelle classi medie tanto decantate come le principali artefici della rivoluzione sembrano essere oggi il principale elemento mancante in quella unica e magica formula che può portare a sfidare e sconfiggere dal basso i regimi autoritari: ovvero, la contemporanea mobilitazione in varie parti del paese e per un periodo sufficientemente lungo di molteplici classi e forze politiche.

Il lungo viaggio verso Tahrir

I giovani delle classi medie non si sono improvvisamente materializzati in piazza Tahrir in una giornata d’inverno dedicata alle celebrazioni della polizia. Quanto divenuto spettacolarmente visibile il 25 gennaio 2011 è stato infatti il portato di un lungo processo di mobilitazione cominciato negli ultimi mesi del 2000 quando, dopo molti anni di assordante silenzio, l’opposizione riusciva nuovamente a far sentire la propria voce. La causa scatenante delle proteste era lo scoppio della seconda Intifada palestinese, mentre il bersaglio politico divenne il regime egiziano ed il suo posizionamento filo-israeliano.

Le mobilitazioni che accompagnarono buona parte del 2001, raggiungendo un nuovo apice nel 2003 in vista dell’intervento militare americano in Iraq, segnarono due importanti successi per l’opposizione. Per la prima volta in molti decenni – probabilmente dalle lontane cosiddette Rivolte del pane del gennaio 1977 – decine di migliaia di persone si riversarono nelle strade del paese, giungendo anche per alcune ore ad una limitata ma significativa occupazione di piazza Tahrir.

Secondariamente, il monopolio assoluto della forza goduto dal regime che aveva negli anni precedenti portato alla proibizione di qualsiasi forma di dissenso pubblico veniva adesso parzialmente sfidato. In realtà, nonostante questi indiscutibili successi, sembra corretto affermare che il portato più grande di questa prima ondata di mobilitazione risieda altrove e specificatamente nel nuovo spirito di collaborazione che si respirava e praticava nel frammentato panorama politico dell’opposizione egiziana. Islamisti, nasseristi, liberali, e marxisti giungevano ad una nuova cooperazione che si fondava sulla mobilitazione contro il comune nemico – ça va sans dire, il regime – e che prevedeva una reciproca libertà d’azione all’interno della propria constituency.

Questa impostazione sarà alla base del movimento Kefaya e di tutte le sue varie ramificazioni a partire dal 2004 in poi. Il bilancio di queste forze, così come quello del Movimento 6 Aprile, sorto nel 2008 e in gran parte un’emanazione indiretta di Kefaya, rimane però in chiaroscuro. Infatti, a fronte di una mobilitazione costante che portò a sorpassare molte delle linee rosse imposte dal regime, la capacità attrattiva di queste forze rimase sempre limitata, portando a proteste e sit-in che raramente superavano il migliaio di partecipanti.

Questa d’altronde era l’appeal massimo di movimenti Cairo-centrici, legati a tematiche liberali e a favore del processo di democratizzazione, con una fortissima presenza di classi medie. Questi giovani, attivi politicamente in gruppi e gruppuscoli che – fatto salvo il caso della Fratellanza Musulmana – non avevano alcun contatto con le fasce sociali più svantaggiate sono poi stati il motore delle rivolte del 2011, quando per la sorpresa di molti, Islamisti e liberali, copti e marxisti, si mobilitavano congiuntamente contro l’odiato regime fino a decretarne la caduta.

Le difficoltà di oggi: dal “tradimento” Islamista al colpo di stato supportato da liberali e nasseristi

Questo scenario non si è però ripetuto il 25 gennaio 2016. Certamente, il dispositivo di sicurezza messo in piedi dal regime è stato straordinariamente efficace. L’opposizione già fiaccata da un numero elevatissimo di prigionieri politici, spesso considerati nell’ordine dei 40,000, è stata falcidiata da minacce, scomuniche, ed arresti preventivi. Inoltre, il numero di agenti di sicurezza schierati nei punti più sensibili delle città è stato altissimo fin dai giorni che hanno preceduto l’anniversario. Alla fine, se si esclude qualche isolata e sporadica manifestazione ad Alessandria ed in alcuni quartieri periferici del Cairo, il bilancio è stato pienamente positivo per il regime.

Un successo però che non può essere interamente ascritto alla tracotante repressione messa in campo dal governo di al-Sisi, ma anche alla debolezza dell’opposizione che risulta divisa, frammentata, e rancorosa. In particolar modo, la fallita transizione democratica che dalla caduta di Hosni Mubarak l’11 febbraio 2011 ha portato al colpo di stato del generale al-Sisi il 3 luglio 2013 ha determinato una recrudescenza della frattura tra l’Islam politico ed il resto dell’opposizione. I militari, disarcionato Mubarak per proteggere il sistema, hanno inizialmente stretto una più o meno esplicita alleanza con la Fratellanza. Questa, in attesa delle elezioni parlamentari ed ancor di più di quelle presidenziali, ha quindi assunto un basso profilo nelle moltissime manifestazioni che si sono successe nel corso del 2011 per la piena realizzazione dei principi che avevano ispirato la sollevazione.

Un simile comportamento, ed ancor di più le misure adottate una volta conquistata la presidenza con Mohammed Morsi nell’estate del 2012, ha fatto gridare al tradimento islamista da parte di nasseristi, liberali, e gruppi di sinistra in genere. Questo coagulo di forze ha quindi preso parte ai crescenti moti di protesta contro il governo diretto dalla Fratellanza, sfociati poi in quelle oceaniche manifestazioni del 30 giugno 2013 che hanno costituito la cornice di legittimazione al successivo colpo di stato.

L’intervento dei militari in politica ha portato ad una fortissima repressione delle forze islamiste, culminato nella Strage di Rabaa quando il presidio permanente della Fratellanza che chiedeva la liberazione del presidente democraticamente eletto Morsi – arrestato assieme a molti altri suoi sostenitori – è stato attaccato dalle forze di sicurezza causando oltre mille vittime. Inoltre, non poche forze liberali, nasseriste, e laiche hanno direttamente appoggiato il movimento guidato da al-Sisi.

I casi più eclatanti sono probabilmente quelli del Premio Nobel per la pace ed ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Mohamed El Baradei, e del leader e simbolo del sindacalismo indipendente egiziano Kamal Abu Eita. Entrambi infatti hanno, almeno inizialmente, assunto posizioni di rilievo all’interno del governo ad interim sostenuto dai militari.

Detto altrimenti, la lunga e complessa parabola che ha portato al colpo di stato di al-Sisi ha prodotto una fortissima sfiducia tra l’universo islamista e quel frammentato mondo che corre dalle forze liberali ai gruppi marxisti. Questo clima rende ovviamente impossibile il ripetersi dell’esperienza politica che ha attraverso gli anni duemila, fiaccando così le capacità di mobilitazione di quelle classi medie che il 25 gennaio 2016 sono rimaste nuovamente alla larga da piazza Tahrir.

Nella foto a sinistra: Giulio Regeni, il dottorando di 28 anni di Fiumicello (Udine) seviziato e ucciso al Cairo il 25 gennaio 2016

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