Giordania, le elezioni e l’opposizione “morbida” dei Fratelli Musulmani

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Il 23 gennaio la Giordania è andata alle urne per eleggere il nuovo Parlamento, e nonostante la campagna di boicottaggio delle opposizioni, Fratelli Musulmani in testa, le elezioni hanno confermato un’ampia maggioranza delle forze fedeli alla monarchia.

Non un caso, per la Fratellanza e i gruppi della sinistra che hanno cercato, inutilmente, di fare pressione per cambiare l’attuale legge elettorale, che prevede l’assegnazione di soli 27 seggi su 150 sulla base alle liste nazionali, e dei restanti attraverso le circoscrizioni locali, legate a doppio filo alla famiglia di Abdallah II.

Secondo gli osservatori internazionali le operazioni di voto e scrutinio si sono svolte regolarmente, almeno in misura maggiore rispetto ad altri stati del Medio Oriente e del Nord Africa, e secondo la Commissione elettorale indipendente ha votato il 56,69% degli aventi diritto, un milione 280mila persone su quasi quattro milioni. Una bassa affluenza, che non basta a mettere in discussione la fedeltà al re, anche se 18 deputati legati alla Fratellanza, oltre ad una decina di islamici moderati e alcuni candidati di sinistra del movimento panarabo sono comunque riusciti ad entrare in Parlamento.

La scelta di andare ad elezioni anticipate, le prime in Giordania dall’inizio della primavera araba, era stata presa da Abdallah II dopo le manifestazioni cominciate nell’ottobre scorso, quando la gente era scesa in piazza contro il taglio dei sussidi al carburante. Ancora una volta la monarchia giordana ha giocato d’anticipo, con un segnale forte che dimostrasse al suo popolo di essere ascoltato; una scelta strategica, secondo le opposizioni, che di fatto non ha messo davvero in discussione il potere reale.

La situazione del paese è estremamente delicata: sei milioni e mezzo di abitanti, dei quali oltre la metà palestinesi. Un tasso di disoccupazione al 40%, che sale al 60 fra gli under 30. Un afflusso costante di profughi provenienti dalla Siria, che ora si sommano ai rifugiati iracheni, 450mila, già presenti sul territorio.

Come sottolinea il Rapporto 2012 sul paese della Oxford Business Rewiew, pressioni interne ed esterne nel corso dell’anno hanno reso fragile l’intero sistema economico giordano, con uno stato che cerca di contenere la spesa, ma allo stesso tempo promuovere la crescita per arginare il malcontento. Le proteste scoppiate contro il tentativo del Governo di ridurre le sovvenzioni sul carburante e a causa dell’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, sono sempre dietro l’angolo. Ma nonostante le difficoltà il paese ha continuato ad espandersi, e secondo il Fondo Monetario internazionale, che ha concesso alla Giordania un prestito da due miliardi di dollari, il Pil potrebbe aumentare del 3,5% nel corso di quest’anno, per arrivare al 4,5% entro il 2017. Allo stesso tempo, il debito pubblico è salito del 19% alla fine del 2012 per un totale di 22 miliardi di dollari, pari al 72% del Pil, secondo i dati del Ministero delle Finanze.

Il taglio dei sostegni all’acquisto di carburante è arrivato a causa dei continui sabotaggi del gasdotto che dall’Egitto porta il gas in Giordania (e anche in Israele), fatto saltare più volte. Il taglio di questa fornitura, se da un lato ha portato alla ricerca di fonti alternative, dall’altro ha indotto il paese ad acquistare più petrolio, e dunque a dover spendere di più. La fine degli aiuti ha aumentato il malcontento, che il Governo ha cercato di tamponare con l’offerta di un pacchetto di assistenza ai redditi più bassi.

Ai problemi economici si aggiunge il peso della crisi siriana. Nel dicembre scorso il Regno ospitava più di 250mila profughi provenienti dalla Siria, e dall’inizio del 2013 sono arrivate almeno altre 30mila persone, secondo i dati raccolti dall’Unhcr.

Nel corso degli ultimi due anni la piccola monarchia, stretta in una delle aree più sensibili del mondo, è stata attraversata da movimenti di protesta e opposizione, quasi lambita ma mai travolta dalla primavera. La pressione esercitata da queste forze ha permesso di ottenere alcune riforme: già il fatto che le elezioni siano state supervisionate da una commissione indipendente è un segnale di cambiamento e di apertura, anche se minimo, come pure la quota rosa di quindici seggi da destinare alle donne, tre in più rispetto alla scorsa tornata, e la scelta del primo ministro che Abdallah II dovrà condividere con il Parlamento.

Il principale partito di opposizione, il Fronte di Azione Islamico, ha denunciato come la legge elettorale impedisca con la selezione dei candidati di garantire un’effettiva competizione plurale, a favore di una scelta su base tribale più che individuale. Ma di fatto anche gli oppositori sanno che la monarchia va preservata, perché un’ipotetica caduta fornirebbe ad Israele il pretesto per indicare la riva orientale del Giordano come patria dei palestinesi e giustificare l’annessione della Cisgiordania, nonostante il Regno abbia firmato con Tel Aviv un trattato di pace.

Proprio i palestinesi di Giordania sanno che un drastico cambiamento al vertice potrebbe portare nuovi squilibri, sensazione confermata dai risultati del voto israeliano.

Anche a livello internazionale la Giordania riveste un ruolo strategico, e ne è consapevole. Europa e Usa puntano sulla monarchia per contenere la crisi in Siria, anche qualora il regime di Assad dovesse finire. E pure i paesi del Golfo preferiscono il Regno ad un eventuale nuovo assetto che dovesse portare alla maggioranza la Fratellanza giordana, non fosse altro che per la vicinanza con quella palestinese e siriana. Nonostante i Fratelli Musulmani, rappresentanti della cosiddetta “eccezionalità giordana” rispetto al rapporto dello Stato con le correnti islamiste, abbiano sempre convissuto con il potere hashemita e le loro critiche ai governi storicamente non abbiano mai mirato ad indebolire i pilastri del sistema monarchico.

Nella foto: Re Abdallah II di Giordania

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