Filosofia: la battaglia del pluralismo
contro etnocentrati e “monisti”

Una versione parziale di questo articolo è apparsa su La Repubblica del 15 ottobre 2014. Al pluralismo culturale e alla cultura del pluralismo Reset-DoC dedica un ciclo di incontri a Milano sul tema della “Cittadinanza inclusiva”.

Il pluralismo culturale, caro a Isaiah Berlin, che ne è stato il più noto sostenitore nel secolo sorso, è una prospettiva filosofica e politica che ha dei nemici, i quali aiutano a capire la natura e la portata della sfida. A questi nemici lo stesso Berlin ha dato un nome: sono i «monisti», i tenaci difensori di una philosophia perennis, per i quali la storia del pensiero è sempre alla ricerca dell’unica risposta vera a tutte le domande. I monisti sono fedeli a un unico sistema di valori, il «mio», il «nostro», quello ereditato, Peccato però che tanti e diversi si possano intitolare quel «noi» e farci sopra interminabili guerre.

Il monista si riconosce subito dal suo punto debole, dal drappo rosso che ne scatena le reazioni, dalla bestia nera che ne disturba i sonni: il relativismo. Ma attenzione, noi non dobbiamo identificare il pluralismo con il relativismo, questa sovrapposizione è un esercizio retorico, che appartiene tipicamente alla strategia «monista» che attraverso l’accusa di «deriva» riduce il primo al secondo, presentandolo come un vizio che rischia sempre di «scivolare» verso la condizione del parente degenere. E vale per il pluralismo filosofico in generale, per la teoria della conoscenza (pluralismo cognitivo) quel che vale per il pluralismo culturale e morale.

Per meglio capirci sarà bene mettere in chiaro che cosa è il relativismo in filosofia: è la definizione che si attribuisce alle posizioni che negano la possibilità per la conoscenza di attingere la realtà, che rifiutano la nozione di essere e che nella forma più estrema, il prospettivismo di Nietzsche, sostengono che non esistono verità ma soltanto interpretazioni. Dal punto di vista cognitivo non è indispensabile, per essere in sintonia con il pensiero filosofico contemporaneo, spingersi fin là, ci si può fermare molto prima e attestarsi su soluzioni epistemologiche di tipo neokantiano o su forme di moderato realismo (Hilary Putnam), compatibili con l’effettivo funzionamento della scienze. Come ha saggiamente osservato Steven Lukes (Moral Relativism, 2008), dopo il lungo ciclo della sbornia postmodernista, dopo l’ondata degli studi culturalisti, femministi, postcoloniali, dopo l’orgia di letterature comparate, di antropologia culturale, dopo avere visto trattare gli scienziati come una tribù preda di credenze mitologiche equivalenti alle fantasie di una chiromante, ci si può fermare un momento prima di precipitare nel vuoto. Dovremmo almeno evitare di mettere epistemologicamente sullo stesso piano i creazionisti evangelici che credono prossima la fine del mondo e gli oncologi che somministrano una radioterapia per salvare delle vite.

Tutto considerato, il «grande fossato» (Ernest Gellner) è stato ormai saltato ed è molto difficile tornare indietro, per quanto si cerchino eccentriche prospettive: anche i creazionisti prendono i vaccini, anche gli heideggeriani viaggiano in aereo e usano il computer.

Sul piano cognitivo i conti tra relativismo e pluralismo si possono regolare diversamente da come ha immaginato Benedetto XVI da prefetto della fede prima e da pontefice poi. Nella celebre messa «pro eligendo pontifice» accusò «il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”» e la sua «dittatura», «che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie». Il cardinale Ratzinger respingeva soprattutto la tesi che il pluralismo etico sia «la condizione per la democrazia». E in effetti che il pluralismo etico, non il relativismo, sia il naturale sfondo di una società libera e democratica dovrebbe esser un dato acquisito in un contesto non dittatoriale e non teocratico. E come diversamente si può immaginare la vita pubblica in società mobili e variegate, per orientamenti politici diversificate, e per la loro stessa composizione multietniche e multireligiose? Chi può arrogarsi, in presenza di tanta varietà di genti, di fedi e di chiese, di credenti, di non credenti e di indifferenti, il diritto e il potere di interpretare la «legge morale naturale»?

Riuscirà la Chiesa che ha messo fino a poco fa in parentesi il Concilio Vaticano II a riaprire il dossier delle teologie pluraliste, nella pratica ma anche nella dottrina del dialogo con le altre religioni? Riuscirà a riaprire il dossier del processo intentato nel 1999 a Jacques Dupuis, il teologo belga costretto dalla Congregazione della dottrina della fede a lasciare l’insegnamento alla Gregoriana e a una “ritrattazione” che lui però non accettò mai?

Ma il monismo non ha soltanto una veste confessionale, si manifesta, e come, anche tra i non credenti. Allan Bloom era ossessionato dal relativismo non meno di Benedetto XVI e, anche lui, combatteva il pluralismo mettendolo in caricatura come relativismo, ma non lo faceva ispirato dalla fede, lo faceva nel nome della cultura classica, di Socrate e Platone. Il suo best-seller del 1987, The Closing of the American Mind, ha il merito di rappresentare il monismo nella sua espressione più colta e vivace e di fornirci, involontariamente, un résumé godibilissimo di tutti i vizi dell’etnocentrismo nordamericano, wasp nel senso non metaforico, e apertamente rivendicato, di bianco, anglo-sassone e protestante.

Quanti oggi hanno accettato e tuttora predicano la vulgata monista! per cui “multiculturalista” è diventata la parola passe-par-tout di pronto impiego per esorcizzare ogni genere di fallimento delle politiche di integrazione degli immigrati, di tutti i fallimenti europei anche quando a fallire sono i rigidi principi repubblicani della politica francese, che si distingue per la tendenza opposta.

Bloom è anche più disinibito di Ratzinger nel mostrare il lato etnocentrico, egoistico del monismo, centrato sul nucleo forte della società occidentale. E definisce in modo ancora più chiaro come la openness, la apertura mentale pluralista, che è stato uno dei caratteri formidabili della cultura americana e della sua intellettualità, nella prima metà del secolo, dalla grande scuola antropologica di Boas ai pragmatisti – grandi fucine di pluralismo – sia la causa, secondo lui, di tutti i guai presenti della cultura americana e delle sue università; come essa sia, insieme all’eguaglianza, il nome del «tradimento» perpetrato ai danni dei giovani ad opera di una classe di insegnanti corrotta dal relativismo culturale, dal ’68, dalla liberazione sessuale, dalla musica rock e da Mick Jagger. Tutto il bagaglio conservatore, grosso modo lo stesso delle «maggioranze silenziose» europee degli anni settanta, o di quel che sarebbe diventata, volta a volta, in modo più o meno sofisticato ed elegante, la vulgata neocon di Billy o’Reilly e della Fox-News all’epoca della guerra in Iraq, o in Italia degli atei devoti, di Giuliano Ferrara, Antonio Socci, di Libero e C. Tutti uniti nel recriminare ad ogni stormire di scrupoli «politicamente corretti» e nel rimpianto identitario per la perdita dell’«orgoglio», per la perdita del senso della «nostra» civiltà, per la viltà con cui la classe dirigente ha perso il senso della propria funzione «civilizzatrice» ed è caduta preda di «ridicoli sensi di colpa», – qui è di nuovo Bloom che parla – o di sogni terzomondisti. Gli scrupoli di un John Rawls o di un Robert Dahl nell’individuare una teoria della giustizia e della democrazia che individui un metodo per definire gli obiettivi comuni senza danneggiare parti della società, magari quelle più deboli, appaiono a Bloom come una parodia di questa «tendenza a non dispiacere a nessuno». E chi si occupa dei più forti? poveri loro dopo il ’68, Marcuse, i figli dei fiori, Woodstock, i Rolling Stones! Il potere e il sapere definiscono il bene comune attraverso un rapporto di forza, che non ha paura di apparire etnocentrico e non ha bisogno di giustificarsi. Tutto questo ne avrebbe fatto un libro di culto per i neocons e avrebbe entusiasmato Norman Podhoretz, il teorico della quarta guerra mondiale contro l’Islamofascismo e supporter dei Tea parties Se Allan Bloom fosse stato un p meno raffinato e spiritoso, più sanguigno, più apertamente razzista e più ossessionato dall’Islam che dai neri e da Nietzsche, sarebbe diventato un eroe di Oriana Fallaci. Lo fu invece di Saul Bellow, prefatore del libro, Nobel della letteratura, che gli dedicò anche Ravelstein, il romanzo che ha rilanciato il culto di Bloom nella tribù dei monisti di tutto il mondo. Dopo tutto, il raffinatissimo Bellow era anche quello della battuta: «Quando gli Zulù produrranno un Tolstoj, lo leggeremo». Frase che, a parte la promessa di leggere, sembra rubata a Calderoli.

Nell’immagine: Allan Bloom

  1. “trascendenza dall’interno” (kant, rawls e habermas). quanto alla necessità di un “monismo” della ragione democratica, si veda ciò che accomuna gli argomenti di vargas llosa sul foglio di oggi (17 ott.) alla critica di allan bloom, troppo severamente trattata da bosetti.

  2. pezzo brillante. però bisognerebbe battere sui DUE fronti: la critica contro il monismo deve andare di pari passo con la critica al relativismo (in italia bobbio e compagni). altrimenti si dimentica l’aspetto UNIFICATORE del pluralismo culturale (vita giusta come ordinatrice delle vite buone) e la dimensione TRASCENDENTE della validità (dove il monismo ha ragioni da vendere, così come la oriana fallaci aveva ragioni da vendere sulla sacrosanta fedeltà alla “nostra” vita buona occidentale, che deve anche sapersi difendere – con giustizia – dagli attacchi esterni).

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