L’Europa centrale dice no ai rifugiati
Chi rifiuta le quote e perché

Da Reset-Dialogues on Civilizations

L’Europa ospiterà centosessantamila rifugiati nel 2015. Ognuno dei suoi stati membri sarà chiamato a riceverne una quota, proporzionale al proprio peso economico e demografico. È la proposta snocciolata mercoledì dal presidente della Commissione, Jean-Claude Junker, durante il discorso sullo stato dell’Unione.

La Germania è promotrice di questo schema. Lo applica da tempo al suo interno, distribuendo tra i vari Länder gli oneri della gestione dei richiedenti asilo. A ripartirli è la cosiddetta “chiave di Königsteiner”, sistema istituito negli anni ’50 e originariamente inteso a spalmare nell’allora Germania occidentale i fondi destinati alla ricerca.

Lo schema tracciato da Juncker, che si adegua all’accresciuto flusso di rifugiati e dunque ne rettifica al rialzo il numero da smistare nei 28 paesi membri, rispetto al tetto dei 40mila previsto lo scorso maggio, punta all’ulteriore alleggerimento della pressione che Italia, Grecia e Ungheria, le tre grandi porte sull’Europa, riscontrano sulle proprie frontiere. S’instaura in sostanza un principio di sostenibilità intra-comunitaria e solidarietà, al tempo stesso, verso chi fugge da paesi considerati non sicuri, a partire dalla Siria.

Eppure in seno all’Ue non tutti sono solidali. L’Europa centrale rifiuta tale meccanismo, ed è proprio per questo che risulta di questi tempi esposta a un violento rovescio di critiche.

Mappa della distribuzione interna dei richiedenti asilo in Germania nel 2014.

Mappa della distribuzione interna dei richiedenti asilo in Germania nel 2014.

Le gradazioni del no

Lo scorso venerdì, dal vertice del Gruppo Visegrad, il foro di dialogo e cooperazione che riunisce Polonia, Repubblica ceca, Ungheria e Slovacchia, è uscito un comunicato in cui i primi ministri di questi paesi hanno sostenuto che “qualsiasi proposta che porterà all’introduzione di quote obbligatorie e permanenti come misure di solidarietà sarebbe inaccettabile”.

Spaccato dall’approccio su guerra ucraina e rapporti con la Russia (Varsavia sostiene Kiev e le sanzioni, l’Ungheria e la Slovacchia rivogliono commerciare con Mosca, Praga balla un po’ nel mezzo), il quartetto dell’Europa centrale ha quindi ritrovato sulla questione dei rifugiati un’unità di vedute.

Eppure il no assume diverse gradazioni. Il primo ministro ungherese Viktor Orban, che sta chiudendo il confine con la Serbia, l’ultimo tassello della rotta balcanica, fa cadere l’accento sui concetti di terra, popolo e sangue. Il suo non è soltanto una bocciatura delle quote, ma un netto rifiuto all’arrivo di migranti e a quella che a suo avviso ne è una rischiosa variabile dipendente: la contaminazione culturale tra europei e rifugiati. In un suo recente intervento, apparso sulle colonne della Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha spiegato che l’Ungheria non ha scelte, se non quella di rendere sicuri i propri confini e difendere se stessa e il resto dell’Europa dalla promiscuità culturale, salvaguardando le radici cristiane del continente. Tutto questo perché, fa notare il primo ministro magiaro, la maggioranza dei rifugiati è di fede musulmana.

Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia, diversamente dall’Ungheria, non scartano l’idea di accogliere rifugiati, ma intendono assorbirne una quantità minore rispetto a quella assegnata loro da Bruxelles. Varsavia ha fatto sapere, fino all’altro giorno, che può accogliere al massimo duemila persone, a fronte delle oltre diecimila che le spetterebbero. Dopo il discorso di Juncker il primo ministro, Ewa Kopacz, ha tuttavia promesso maggiore impegno. Anche Repubblica ceca e Slovacchia si sono dette propense a ospitare sul proprio territorio un certo numero di rifugiati.

Tutti e tre gli esecutivi, a ogni modo, condividono con l’Ungheria lo spauracchio dell’Islam. Sono aperti all’arrivo dei soli rifugiati di religione cristiana. La Polonia ne ha già accolti alcuni tramite un’iniziativa dell’associazione Fundacja Estera.

C’era una volta Solidarnosc

Il Gruppo Visegrad nacque all’indomani della caduta del Muro di Berlino. La Polonia, l’Ungheria e la Cecoslovacchia, che nel 1993 si sarebbe poi divisa, sentirono il bisogno di coordinarsi, parlare e confrontarsi, consapevoli che la strada della transizione sarebbe stata per tutti lunga e lastricata di sfide impegnative. Alla base della fondazione del Gruppo Visegrad, esperienza che ha dato risultati così buoni al punto che i Balcani occidentali vorrebbero mutuarne le migliori pratiche, ci fu il valore della solidarietà. Una parola chiave di quell’incredibile periodo che trova nella nascita di Solidarnosc in Polonia – solidarietà: questo significava il nome del sindacato di Lech Walesa – il punto iniziale di un processo di liberazione, nazionale e regionale, dal sistema di matrice sovietica.

Dopo il 1989 il concetto della solidarietà, appunto, non si estinse. I gruppi dirigenti dell’Europa centrale, protagonisti della lotta contro il comunismo, credevano davvero che l’unità nella diversità, incanalata in strutture elastiche, capaci di dare ritmo e costanza al dialogo, avrebbe fatto la differenza.

I giornali di tutto il mondo, oscillando tra l’amarcord e la retorica, si stanno chiedendo, davanti alla postura assunta dall’Europa centrale di fronte alla questione rifugiati, i motivi per cui questo principio è andato liquefacendosi.

Urne e quieto vivere

Molteplici i fattori da prendere in considerazione. Tra quelli di breve periodo c’è quello elettorale. Polonia e Slovacchia affronteranno a breve la prova di fuoco delle elezioni parlamentari. Si terranno rispettivamente il 25 ottobre e nel marzo del 2016. Accoglienza, immigrazione e integrazione non sono i temi che faranno vincere o perdere (a Varsavia pesano di più economia e questione ucraina), ma nel complesso hanno la forza di spostare voti.

Nella tradizionale sfida tutta a destra che caratterizza la Polonia ormai da diverse tornate, Diritto e Giustizia (PiS), una destra paternalista, nazionalista e tendenzialmente organica alla chiesa cattolica, che in Polonia guarda con diffidenza alle novità portate in Vaticano da Francesco I, dovrebbe tornare al potere dopo due legislature all’opposizione. La sua posizione è che la Polonia non possa sobbarcarsi il compito di ospitare rifugiati. Sarebbe socialmente, economicamente e culturalmente non sostenibile.

PiS, notoriamente, manifesta una certa conflittualità verso la Germania e l’Ue, considerata un freno alla tutela degli interessi nazionali. Il caso vuole che la Piattaforma civica (Po), partito centrista che governa dal 2007, abbia sviluppato rapporti eccellenti con Berlino e che il suo storico numero uno, l’ex primo ministro, Donald Tusk, sia oggi presidente del Consiglio europeo. Ewa Kopacz, che le è succeduta alla guida del governo e che è in netto svantaggio nei sondaggi, sta così cercando di smarcarsi dall’etichetta di filo-tedesca e filo-europea, insistendo sulla tutela della specificità polacca. Ne consegue il rifiuto del sistema delle quote lanciato da Berlino e la pretesa di accogliere solo migranti cristiani. C’è da credere tuttavia che una tale posizione si sarebbe in ogni caso affermata, al di là dei calcoli elettorali.

Varsavia ha comunque una parziale scusante. Nel corso degli ultimi due anni sono arrivati in Polonia decine di migliaia di ucraini. Molti sono fuggiti dal Donbass in guerra, ma c’è anche chi è giunto in Polonia alla ricerca di lavoro, dato che nell’ex repubblica sovietica il sistema economico è al collasso. Il flusso di ucraini non è facilmente gestibile, comporta sforzi burocratici e finanziari.

In Slovacchia si vota a marzo. Lo Smer, il partito di Robert Fico, l’attuale primo ministro, ritenuto interprete di un modo populista di stare a sinistra, resterà a quanto pare la prima forza del paese. Ma sente la competizione della destra, pur se essa è frammentata. Dal momento che l’economia gira bene, la scelta di Fico è quella di redistribuire – da poco è stato messo in campo un pacchetto di spese sociali da 200 milioni di euro – e mantenere a livello sociale il fermo immagine. La Slovacchia è un paese cattolico, non abituato all’immigrazione. Da qui il no ai rifugiati.

La Repubblica ceca quest’anno non vota, ma nel 2016 ci sarà il parziale rinnovo del Senato, nel 2017 sarà la volta delle politiche e nel 2018 delle presidenziali. Lo scenario non è dissimile da quello slovacco. L’economia, dopo alcune fasi stagnanti, se non recessive, è tornata a crescere. Nel primo trimestre Praga ha fatto registrare un +4,4%, il dato migliore in Europa. I due uomini forti della coalizione sinistra-destra al potere a Praga, il primo ministro socialdemocratico Bohuslav Sobotka e il ministro delle finanze Andrej Babis, l’uomo più ricco del paese, si contendono già da adesso i meriti della ripresa. E siccome l’economia va, non è il caso di scombussolare il quieto vivere e di accogliere “diversi”. Non tanto perché ciò confliggerebbe con i sentimenti cristiani della popolazione. La Repubblica Ceca, infatti, è un paese dove l’ateismo ha una sua considerevole tradizione.

La disabitudine alla diversità

Sta emergendo in questo periodo una tendenza a etichettare l’Europa centrale come un laboratorio continentale del razzismo, della xenofobia, del neonazismo. Non che certi fenomeni non siano presenti. Ma non è questa, probabilmente, la migliore delle spiegazioni al rifiuto delle quote. L’Europa centrale, in quest’ottica, non costituisce eccezione. Il razzismo è diffuso anche sull’altro versante dell’Unione europea. La Lega Nord, il Fronte nazionale in Francia, Pegida in Germania: sono solo alcuni esempi di partiti e movimenti, capaci di raccogliere molti più voti di forze omologhe dell’Europa centrale, che nella fascia occidentale dell’Ue gridano all’invasione dei migranti e al pericolo dell’islamizzazione, alzando muri.

Il problema, se mai, sta nella disabitudine alla diversità. Questi paesi sono nazionalmente omogenei. Così li ha resi lo spostamento di popolazioni e confini, drammatico, seguito alla seconda guerra mondiale. Il caso più significativo è quello polacco. Sono scomparsi gli ebrei; ucraini e lituani si sono ritrovati di colpo nell’Urss; i tedeschi, così come accaduto nel resto dell’Europa centrale, sono stati cacciati sulla base del principio giuridicamente aberrante della colpa collettiva, stabilito agli albori della stagione comunista. Che, nel corso del suo progredire, ha registrato più volte la manipolazione a scopo di consenso delle questioni nazionali. Senza contare che il comunismo chiuse a chiave queste popolazioni all’interno dei rispettivi territori nazionali, malgrado la predica strumentale dell’internazionalismo.

Dopo il 1989 l’Europa centrale non ha attirato immigrazione. Il saldo migratorio, pressoché ovunque, con la sola eccezione della Repubblica ceca, è ancora negativo. Va da sé che la mancata esperienza di promiscuità culturale non rappresenta una giustificazione. Ma forse influisce sulla forma mentis, tanto dei cittadini quanto dei governanti (che lucrano politicamente sulla cosa).

Sottrazioni di solidarietà

Le transizioni economiche e politiche, nell’Europa centrale, hanno avuto impatti sociali molto pesanti. A questi paesi sono stati chiesti sacrifici immensi. I risultati sono stati incoraggianti, sotto molto aspetti. La Polonia odierna vive a livello economico una sorta di epoca d’oro. La Repubblica ceca e la Slovacchia sono solide realtà. L’Ungheria, forse, lo è di meno. Ma ha le sue doti da offrire.

A ogni modo, in tutti questi paesi ci sono sacche di povertà e ritardi economici. La solidarietà, vista da Varsavia, Praga, Budapest e Bratislava, è anche il dovere, da parte di chi ha di più (l’Europa occidentale), di sostenere e aiutare chi ancora ha di meno (l’Europa centrale). Il ragionamento ha una sua legittimità, sebbene non andrebbe dimenticato che il processo di convergenza tra “vecchia” e “nuova” Europa stia levigando le disparità, lentamente ma con costanza.

Il fatto, però, è che questa lettura della solidarietà vira a volte verso il vittimismo. Lo si è visto nel caso della Grecia, quando l’Europa centrale e i paesi baltici hanno rivendicato il diritto a non aprire i cordoni della borsa, proprio in ragione dell’indigestione di riforme fatta negli anni passati. “A noi è stato chiesto di fare sacrifici e di controllare maniacalmente le finanze pubbliche, perché mai dovremmo ora mostrarci solidali con la Grecia, che invece ha truccato i conti?”. Questo, volendo sintetizzare, il discorso che ha preso piede nel quadrante est. Con i rifugiati sta avvenendo la stessa cosa. Il diritto alla solidarietà che spetta a chi fugge dalle guerre viene percepito come una sorta di sottrazione del proprio bisogno, ancora inestinto, di solidarietà. Ammesso che ciò sia vero, la prova di maturità democratica che si sta offrendo non è certo delle migliori.

È tuttavia vero che in questi giorni, dal basso, si notano scatti di solidarietà che aiutano a sgomberare il campo dalle facili generalizzazioni. Molti cittadini di Budapest hanno dato prova di grande generosità, aiutando i migranti ammassati nella stazione Keleti. In Slovacchia una petizione “plea for humanity”, con cui si pretende dal governo una posizione meno ottusa sui rifugiati, ha raccolto diecimila firme. Non dove confortare, ma anche questa in fin dei conti è una notizia.

Immagine di copertina: Credits Vásárhely24/Frankó Máté
Immagine interna: Mappa della distribuzione interna dei richiedenti asilo in Germania nel 2014. Url immagine: http://www.bamf.de/SharedDocs/Bilder/EN/Asyl/Sonstige/verteilung-asylbewerber-2014.jpg;jsessionid=5638F4D0660DF7BB4AD99BA848D6B6AF.1_cid286?__blob=poster&v=4

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