Egitto, dopo il ‘riformismo’ di Al-Sisi
ecco gli autodafé dei libri sovversivi

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Fahrenheit 451 in salsa egiziana. Questa volta però, non è fiction, ma cruda realtà. È questo quello che abbiamo pensato vedendo un falò di libri che bruciavano nel cortile di una scuola di Giza. Guardando le foto scattate in questa località alle porte del Cairo ci siamo sentiti per un momento catapultati in quella società dispotica narrata dal romanzo di Ray Bradbury dove leggere o possedere libri è considerato un reato. In un paese, l’Egitto, dove il dibattito – più o meno propagandistico – sull’interpretazione riformista dell’Islam si sovrappone alla morsa repressiva del regime nei confronti dei suoi oppositori, anche i libri entrano nel mirino di chi vuole plasmare la narrazione del presente e forgiare le menti di chi scriverà la storia del nuovo secolo. Non è quindi un caso che il primo – e chi scrive spera l’ultimo – rogo si sia consumato in una scuola, dove le menti da forgiare sono tante e, soprattutto, giovani.

Per difendersi da chi l’accusa di aver legittimato una cerimonia tipica di quei regimi che cercano di controllare l’opinione pubblica attraverso censura e repressione, Bouthania Kishk – ufficiale del governo che ha partecipato al falò – usa la parola “patriottico” per descrivere il rogo di libri che da metà aprile fa discutere la società egiziana, divisa tra quanti reputano il gesto una necessaria misura antiterrorismo e coloro che la giudicano invece inaccettabile. “Bruciare queste letture mette le menti dei bambini al riparo dall’estremismo e dal terrorismo” dichiara Kishk, ricordando che esiste un apposito comitato al quale il Ministero dell’Educazione ha affidato il compito di fare ispezioni in scuole e librerie per fare piazza pulita dei testi sovversivi e “pericolosi”. Osservando i fotogrammi che ritraggono i frammenti dei libri bruciati si riconoscono però anche opere di importanti intellettuali musulmani. Da un libro di Abd Al-Razzak Al-Sanhuri – padre di molte costituzioni arabe e da sempre un modernizzatore della sharia – a quello – più controverso – nel quale Sheikh Ali Abdel Razik spiega che l’idea del Califfato non è sostenuta dalle scritture sacre all’Islam.

Pur non commentando i titoli ridotti in cenere, Kish ci tiene a sottolineare che il rogo è avvenuto in una scuola di proprietà del cognato di Essam El-Erian, uno dei massimi esponenti della bandita Fratellanza Musulmana. Già in precedenza il proprietario, insieme al fratello, era stato fermato con l’accusa di incitare genitori e studenti a manifestazioni antigovernative. Ecco perché la scuola era tenuta d’occhio da una commissione creata apposta dal Ministero dell’Istruzione. Da mesi infatti il governo egiziano ha iniziato a controllare le cosiddette “scuole del 30 giugno[1]”, quegli istituti privati che – nella maggioranza dei casi – erano gestiti dalla Confraternita e sono ora nelle mani di ciò che ne resta.

Questo evento è la cartina tornasole del più ampio sforzo del “nuovo regime” per riprendere il controllo sulle scuole nelle mani della Fratellanza. “Il governo mette le mani sugli istituti nei quali almeno cinque membri del consiglio direttivo sono della Confraternita e in quelli che ricevono finanziamenti – anche minimi – dalla Fratellanza” spiega a Resetdoc un docente cairota che preferisce mantenere l’anonimato. Il controllo del nuovo regime si estende anche sui programmi di studio, come mostrato il mese scorso dall’annuncio del primo ministro Ibrahim Mahlab che si è detto pronto a rivederli tutti, in modo da escludere qualsiasi incitazione alla violenza e al settarismo. “La storia è la materia che maggiormente risente di questi provvedimenti, soprattutto quando si tratta di manipolazioni. Basta pensare che tra le pagine strappate ci sono quelle che riguardano le guerre combattute dai musulmani contro altri popoli” continua il docente. E per capirlo basta parlare con un qualsiasi genitore che negli ultimi quattro anni si è seduto al fianco del figlio per fare i compiti. Non è difficile trovare chi conferma che la storia è la materia più bistrattata. Per la gioia degli editori che continuano a stampare nuove edizioni, dopo la rivoluzione del 2011 vi è stata una revisione dei programmi che ha obbligato a stracciare le pagine che fino a quel giorno avevano tessuto le lodi del vecchio dittatore Hosni Mubarak. Un’azione simile si è ripetuta dopo la caduta –manu militari – del presidente islamista Mohammed Mursi. Da settembre, in alcuni libri si trovano addirittura capitoli interamente dedicati alla differenza tra rivoluzione – thawra – e colpo di stato, inqilab. Parola, quest’ultima, che il nuovo regime non vuole sentir pronunciare, soprattutto per descrivere gli eventi che sono seguiti alla manifestazione del 30 giugno 2013.

Sempre parlando di controllo, in queste settimane altri due sono i dibattiti che hanno tenuto banco nei mezzi di informazione, nuovamente influenzati dall’autocensura, ancor prima che dalla censura. Il primo è quello scaturito dalle parole di Sherif Al-Shobashi, giornalista con un trascorso all’interno del Ministero della Cultura, che ha registrato un video messaggio per lanciare una marcia di donne senza velo nelle strade della capitale. Al-Shobashi ha infatti invitato tutte le ragazze e signore obbligate a indossare il velo a scendere in strada il 1 maggio per criticare le motivazioni che i più conservatori adducono per trovare una giustificazione religiosa a quello che – secondo lui – è in primis un’imposizione sociale. Copiose e immediate le reazioni, soprattutto quelle di quanti si oppongono a profonde riforme dell’Islam che implicano anche una revisione interpretativa delle sacre scritture.

L’ultimo dibattito che ha avuto grande risonanza è quello scatenato da Islam Al-Baheiri, conduttore di una televisione privata che ha criticato alcuni studiosi islamisti vissuti nei primi secoli dell’Islam e ancora oggi considerati da Al-Azhar, massima autorità dell’Islam sunnita con sede al Cairo, autorità intoccabili. Dopo aver descritto questa università come un’istituzione piena di ministri conservatori ed estremisti, la sua trasmissione non è più andata in onda. Facile capire il perché, visto che da mesi Al-Azhar – a sua volta attraversata da una riforma dei programmi di studio – si è pubblicamente schierata a sostegno dell’appello riformista lanciato dal presidente Abdel Fattah Al-Sisi.

A gennaio, l’ex generale ha infatti chiesto una riforma dell’Islam, in un discorso che ha portato la stampa internazionale a descriverlo come il Martin Lutero che il mondo arabo starebbe aspettando. Ciononostante, osservando la reazione di Al-Sisi a tutti questi episodi sembra che l’attivismo riformista della presidenza egiziana stia in realtà tirando i remi in barca.

In un discorso pronunciato all’Accademia Militare nel pieno dei dibattiti qui descritti, l’ex generale che indossa ora abiti civili ci ha tenuto a precisare che una riforma dell’Islam non si può ottenere dal giorno alla notte e deve essere guidata da intellettuali illuminati e rispettati. Piuttosto che cavalcare il dibattito scaturito da questi eventi per portare avanti la sua riflessione sulla riforma dell’Islam, Al-Sisi ha precisato che questa deve essere fatta con attenzione senza “ fare pressione sull’opinione pubblica o impaurirla. La gente non ha nulla di più prezioso della propria religione”. Insomma, con le sue parole, Al-Sisi sembra aver voluto calmare le acque di quel dibattito riformista che lui stesso ha contribuito a scaldare.

L’atteggiamento assunto ora dal presidente non deve sorprendere. Mostra solo i limiti del suo discorso riformista, confinato alla lotta contro l’estremismo religioso, in primis quello domestico. Del resto esattamente un anno fa Robert Springborg, uno dei più importanti studiosi dell’Egitto contemporaneo, aveva già previsto che Al-Sisi avrebbe fatto del discorso sulla religione un’arma strategica per radicare il suo potere. “Al-Sisi si appoggerà molto di più sull’islam per legittimare il suo regime autocratico – scriveva Springborg in un articolo apparso su Foreign Affairs –, più di quanto abbia fatto credere agli osservatori egiziani e stranieri”. E così è stato, visto che Al-Sisi ha nazionalizzato non solo Al-Azhar, ma anche l’interpretazione dell’Islam in Egitto. Dietro l’appello al riformismo religioso si cela – in realtà in modo abbastanza evidente – il tentativo di contenere e controllare gli oppositori. In primis la loro capacità di raggiungere la popolazione attraverso classici libri o moderni mezzi di informazione che forgiano le menti dei più giovani. Presentando la sua agenda riformista, Al-Sisi riesce poi a distrarre gli egiziani dai veri problemi che condizionano quotidianamente la loro vita e che restano tuttora irrisolti.

Se le immagini di un gruppo di maestri che incendiano libri nel cortile di una scuola provocano indignazione, molto più vergognose sono le carenze del sistema educativo che si trascinano anno dopo anno. Scuole pubbliche sovraffollate, risultati deprimenti e anche clima di violenza all’interno di alcune aule. Basta pensare alla fine fatta dall’undicenne Islam Sherif che lo scorso marzo è stato picchiato a morte da uno dei suoi insegnanti. “Speriamo che dopo aver difeso il nostro Fahrenheit 451, nessuno arrivi a giustificare l’uccisione di un bambino per motivi di sicurezza”, commenta un utente Twitter. “Il timore è che chi è seduto sui banchi di scuola sia ritenuto pericoloso per quello che sta pensando e per la mente che si sta forgiando.”

Note

[1] Il 30 giugno 2013 è il giorno in cui milioni di egiziani sono scesi in strada perprotestare contro il presidente islamista Mohammed Mursi e chiedere elezioni anticipate. A seguito di queste manifestazioni, i militari hanno deposto Mursi, ora condannato a morte.

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