Egitto, così il colpo di Stato
entra nel suo quarto anno

Da Reset-Dialogues on Civilizations

La mancata partecipazione del presidente egiziano al-Sisi al ventisettesimo meeting della Lega Araba – sostituito nelle sue funzioni dal premier Sherif Ismail – aveva portato il quotidiano Al-Masry Al-Youm a speculare circa un tentativo, poi scoperto, di violenta defenestrazione del feldmaresciallo divenuto presidente. Le successive e canoniche smentite di rito del portavoce del governo egiziano non erano certamente riuscite a dissipare i dubbi su quanto successo. Tuttavia, appare sensato ipotizzare che la decisione di al-Sisi di non prendere parte al summit non possa in alcun modo costituire argomento forte per alimentare il sospetto di uno sventato complotto interno.

Come evidenziato dal settimanale The Economist, solamente sette dei ventidue capi di stato che avrebbero dovuto prendere parte all’annuale incontro tra i paesi arabi si sono effettivamente recati a Nouakchott, capitale della Mauritania e sede del summit. Inoltre, rimane difficile sostenere che i sette rappresentassero un vero e proprio parterre de rois, visto che nelle loro fila c’era il “padrone di casa” e quindi necessariamente presente, Ould Abdul Aziz; il presidente yemenita sostenuto dai sauditi, Mansour Hadi, scacciato dalla capitale San’a dal 2015 e quindi “libero da impegni”; e Omar al-Bashir, presidente del Sudan ricercato dalla corte penale internazionale con l’accusa di genocidio. Insomma, la presenza di tentativi interni al regime egiziano di porre fine alla dittatura di al-Sisi possono certamente essere reali, ma le prove della loro esistenza rimangono alquanto deboli.

Una crisi economica senza fine

Il terzo anno di al-Sisi al potere è stato caratterizzato dal fallimento di tutti i suoi tentativi di far ripartire l’economia egiziana. L’esempio più clamoroso resta quello del settore turistico. Prima della cacciata di Hosni Mubarak, in seguito allo straordinarie proteste popolari dei primi mesi del 2011, l’intero comparto occupava circa il 10 percento della manodopera egiziana e garantiva un afflusso monetario attorno ai 12,5 miliardi di dollari annui. Nel 2013, il numero di turisti che visitavano l’Egitto era già sceso di oltre un terzo, mentre gli introiti si erano quasi dimezzati. L’esplosione della bomba posizionata sull’aereo russo che era da poco decollato da Sharm el-Sheikh il 31 ottobre 2015, così come il misterioso inabissamento in mare del velivolo dell’EgyptAir che stava percorrendo la tratta Parigi-Cairo il 19 maggio scorso, hanno ulteriormente peggiorato una situazione già critica. Secondo quanto dichiarato a Daily News Egypt da Elhamy El-Zayat, ex presidente della Federazione Egiziana del Turismo (ETF, l’acronimo inglese), nel 2016 le entrate generate dal turismo potrebbero attestarsi attorno ai 3,6 miliardi di dollari, ovvero il 75 percento in meno di quanto avveniva sotto Mubarak.

Negli ultimi decenni il settore turistico ha assunto una funzione strategica per il regime egiziano. Da un lato, costituisce una voce importante per l’economia, garantendo occupazione in un contesto caratterizzato dall’ingresso di quasi un milione di persone all’anno nel mercato del lavoro. Dall’altro, garantisce l’afflusso di monete “pesanti” (ovvero, euro e soprattutto dollaro americano) in un paese che storicamente soffre dell’incapacità di auto-finanziarsi sui mercati (sia per l’assenza di risparmio interno, dovuto alla povertà di gran parte della popolazione, sia per la scarsa fiducia che i titoli di stato egiziani potrebbero ottenere a livello finanziario). L’indebolimento dell’industria del turismo ha quindi spinto il regime di al-Sisi verso un modello ibrido, capace di tenere assieme ferocissime politiche neoliberiste – sconosciute persino ai tempi di Mubarak e del cosiddetto ‘governo dei businessmen’ diretto da Ahmed Nazif – e faraonici progetti infrastrutturali.

Sul primo versante si devono sottolineare i tagli ai sussidi, l’implementazione di misure di austerity, la riduzione del deficit attraverso indiscriminati tagli ai servizi essenziali, e nuove ondate di privatizzazioni volte a favorire investitori occidentali ed arabi. Sull’altro fronte, invece, sono di rilievo l’espansione del Canale di Suez, il progetto di collaborazione energetica sviluppato assieme alla tedesca Siemens, e il tentativo di giungere alla realizzazione di un impianto nucleare grazie al supporto tecnologico e finanziario della Russia di Putin. Visto poi che tutto questo non è stato sufficiente per arrestare un’esponenziale accumulazione di debito e la contemporanea e logica svalutazione della moneta egiziana, l’aiuto dei sauditi è stata l’ultima carta che rimaneva da giocare ad al-Sisi.

Un nuove ciclo di proteste e i suoi limiti

Anche i tradizionalmente generosi aiuti dei sauditi, specialmente in una prolungata fase di bassi prezzi petroliferi, hanno però il loro prezzo salato. Quello pagato dal regime di al-Sisi è stata la cessione di due isole del Mar Rosso – Tinar e Sanafir – al regno dei Saud. Una decisione che rende evidente le difficoltà economiche di un regime che ha costruito la sua propaganda su nazionalismo, sovranità, e difesa dei confini, trovandosi poi costretto a svendere alcuni pezzi del suo territorio per salvarsi dalla bancarotta. Le reazioni interne sono state veementi, con moti di protesta diffusi e la conseguente severa repressione del regime. Al riguardo, significativa è stata la censura che si è abbattuta sul popolare quotidiano Al-Masry Al-Youm. Lo scorso aprile, alla vigilia del viaggio in Egitto del re saudita Salman, che avrebbe poi ricevuto un dottorato onorifico, l’eloquente titolo scelto dal quotidiano era “Due isole ed un dottorato a Salman.. e miliardi all’Egitto”. Chi però la mattina dopo ha comprato Al-Masry Al-Youm in edicola ha letto qualcosa di alquanto diverso: “Bilancio della visita di Salman: accordi per 25 miliardi”.

Repressione e censura non sono riuscite però ad impedire il formarsi di un’ampia coalizione che ha severamente contestato la cessione delle due isole ai sauditi. Per la prima volta dal colpo di stato del 3 luglio 2013, un fronte eterogeneo di opposizioni al regime di al-Sisi ha così messo da parte le recenti divisioni per mobilitarsi congiuntamente contro il governo. Forze rivoluzionarie (il movimento giovanile 6 Aprile ed i Socialisti Rivoluzionari di ispirazione trotzkista), così come partiti che avevano inizialmente sostenuto il golpe in funzione “anti-Fratelli Musulmani” (il Partito della Costituzione, fondato dal premio Nobel El Baradei; il partito Karama, guidato da Hamdeen Sabahi e dal noto sindacalista Kamal Abu Eita; ed il partito Democratico Egiziano)  hanno dato vita ad un implicita coalizione che ha poi preso il nome dal giorno delle proteste, ovvero “15 aprile”. Nonostante nei mesi precedenti molti analisti avessero segnalato un’impennata nelle proteste contro il governo, queste erano rimaste circoscritte a specifici ambiti professionali e lavorativi. Le contestazioni del 15 aprile devono perciò essere considerate come un importante salto qualitativo in confronto a quanto successo nei mesi precedenti, emergendo come le prime di carattere strettamente ‘politico’ dell’era al-Sisi.

Tutto questo non deve certamente portare alla semplicistica ed un po’ banale conclusione di trovarsi alla vigilia di un nuovo ciclo rivoluzionario. La coalizione che aveva inizialmente sostenuto il colpo di stato guidato da al-Sisi si è certamente assottigliata. Parimenti, anche la fiducia verso colui che inizialmente era stato dipinto dalla propaganda interna come “il nuovo Nasser” si è significativamente ridotta, soprattutto tra i ceti popolari. Tuttavia, il movimento operaio egiziano – al netto di alcune esplosioni rabbiose e da generosi, ma per il momento infruttuosi, tentativi di darsi una più solida organizzazione – resta debole, frammentato, e soggetto ad una furiosa repressione; mentre il coordinamento tra le opposizioni politiche ha solo mosso i primi passi e all’orizzonte non si scorgono tentativi di giungere a una più organica collaborazione. Rimane inoltre completamente insoluto il nodo dei rapporti tra le forze ‘laiche’ e la Fratellanza, con quest’ultima che, come recentemente analizzato da Paolo Gonzaga su ResetDoc, vive una delicatissima fase caratterizzata da una aspra contesa interna per il potere.

Insomma, il regime golpista di al-Sisi – descritto costantemente come instabile, precario, e mal messo – è entrato nel suo quarto anno di vita ed i pericoli più grossi per la sua stabilità, al netto delle illazioni giornalistiche, rimangono proprio congiure e complotti interni. Ovvero, non proprio uno scenario felice per tutti quelli che avevano creduto nello slogan più popolare delle rivolte del 2011: “pane, libertà, e giustizia sociale”.

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