Dopo le elezioni in Bosnia:
Un paese diviso e immobile

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Da qualche anno a questa parte ogni tornata elettorale, in Bosnia Erzegovina, si ripete uguale a se stessa. I cittadini invocano cambiamento, rottura, futuro. Qualsiasi cosa possa trascinare il paese fuori dal perimetro asfissiante della stagnazione, politica ed economica. Ma alla fine scelgono sempre i soliti partiti e l’esito delle urne segue quasi pedissequamente i crinali demografici e culturali del paese. È l’ormai nota storia delle “tre Bosnie” – quella bosgnacca (musulmana), quella serba e quella croata – che convivono in una, quasi inerzialmente, facendo fioccare litigi e comprimendo lo spazio delle riforme.

Il replay delle volte prima

Anche domenica 14 ottobre il paradosso bosniaco s’è ripetuto. Ma stavolta il fermo immagine è più pesante. La crisi e le recenti alluvioni hanno fiaccato ulteriormente l’economia nazionale. Ogni tentativo di riforma istituzionale, da qualche anno a questa parte, perde quota rapidamente. Il che, sul piano dell’integrazione europea, ha fatto del paese il fanalino di coda della pattuglia balcanica. Tutti marciano in avanti, la Bosnia resta inchiodata al palo.

I cittadini hanno votato per tutti i livelli di un edificio istituzionale bizantino partorito dagli accordi di pace di Dayton: un tempo furono necessari a fermare la guerra, oggi sono un ostacolo fastidioso sulla via della semplificazione amministrativa e dei processi decisionali. Sono stati rinnovati la presidenza (si alternano un bosgnacco, un serbo e un croato), il parlamento nazionale e le assemblee legislative delle due entità etniche (Republika Srpska e Federazione di Bosnia Erzegovina). In Republika Srpska si è eletto anche il presidente, mentre nella Federazione si sono scelti i nuovi rappresentati delle assemblee dei cantoni (sono dieci), alcuni a maggioranza croata, altri a prevalenza bosgnacca.

Ma com’è andata di preciso? Partiamo dal voto per la presidenza. Tra i musulmani ha vinto Bakir Izetbegovic, capo del Partito dell’azione democratica (Sda), fondato dal padre Alija, fautore dell’indipendenza del paese. Izetbegovic si ripresentava. La sua vittoria, scrive Andrea Rossini su Osservatorio Balcani e Caucaso, si deve a una campagna costruita sulla necessità identitaria di tenere unita la nazione bosgnacca.

Izetbegovic ha superato Fahrudin Radoncic, uomo ricchissimo e proprietario di Dnevni Avaz, il giornale più diffuso tra i bosgnacchi. La differenza, secondo Rossini, l’ha fatta l’organizzazione di partito. L’Sda è molto radicato sul territorio, mentre l’Unione per un futuro migliore (Sbb), la formazione di Radoncic, è più leggera, essendo la sua costituzione recente (2009) e tenuto conto del fatto che il suo capo, per tirare acqua al proprio mulino, ha uno strumento come Dnevni Avaz.
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Esce male dal voto il Partito socialdemocratico (Sdp) del ministro degli esteri Zlatko Lagumdzija. Il suo candidato ha ottenuto il 10%. Lagumdzija, veterano delle istituzioni, paga gli scarsi risultati di governo ottenuti in questa legislatura, dove l’Sdp è stato il partito di maggioranza relativa. A nulla è servita una propaganda elettorale in cui è stato rilanciato il mito di Tito.

Molti abitanti della Bosnia, soprattutto i musulmani, sono sotto certi aspetti dei “nostalgici” della Jugoslavia, se non altro perché a quell’epoca le cose, quanto meno in superficie, non funzionavano male. Gli elettori, in ogni caso, non si sono mostrati convinti da questa operazione, che peraltro smaschera le contraddizioni del Partito socialdemocratico: in apparenza contro ogni divisione etnica, ma in sostanza musulmano.

Il quadro dei principali candidati bosgnacchi alla presidenza si chiude con Emir Suljagic. Sopravvissuto di Srebrenica, promotore di una campagna che nel 2012 ha impedito che il villaggio del genocidio esprimesse un sindaco serbo, Suljagic era il front runner del Fronte democratico, una formazione di nuovo conio orientata a sparigliare e a rompere gli ingranaggi del voto etnico. Suljagic ha ottenuto il 15% alle presidenziali e tale dovrebbe essere la percentuale riscossa dal suo partito nella corsa per il Parlamento nazionale. Anche le altre formazioni bosgnacche hanno replicato grosso modo i risultati conquistati dai loro candidati presidenziali. Fa eccezione quella di Radoncic. Lo scarto con i voti ghermiti da quest’ultimo alle presidenziali è abbastanza ampio.

Il risultato del Fronte democratico è buono, ma le preferenze incassate sono troppo poche per dare vita a un’alternativa di spessore, imbevuta di istanze civiche. Anche nel caso in cui entrasse nella coalizione di governo, solitamente larga e formata da partiti delle diverse nazionalità, difficilmente il Fronte democratico imprimerà il ritmo del cambiamento.

I due volti del voto serbo

Il voto, tra i serbi di Bosnia, ha prodotto due risultati divergenti. A livello di presidenza nazionale il candidato della coalizione Alleanza per il cambiamento, Mladen Ivanic, l’abbia spuntata su quella dell’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti (Snsd), Zeljka Cvijanovic. Per un pugno di voti.

L’esito è significativo, perché rappresenta una battuta d’arresto per l’Snsd, che negli ultimi anni ha dominato la politica serbo-bosniaca. In compenso il suo numero uno, Milorad Dodik, s’è confermato presidente della Republika Srpska.

Dodik è un personaggio controverso, che governa con spregiudicatezza e piglio autoritario. A suo modo incarna il paradosso bosniaco. All’inizio della sua carriera politica sfoggiava un approccio moderato, era critico verso il nazionalismo. Poi s’è tramutato in incallito nazionalista, difendendo a oltranza le ampie prerogative – ai limiti dello stato nello stato – assegnate dal sistema di Dayton alla Republika Srpska e sostenendo a più riprese l’esigenza di staccarsi dalla Bosnia Erzegovina, via referendum.

Il suo stile muscolare e radicale ha generato nella Republika Srpska un altro paradosso, portando il Partito democratico serbo, capofila dell’Alleanza per il cambiamento, a posizionarsi su una linea più moderata. Il che stona con il fatto che questo partito è lo stesso fondato da Radovan Karadzic.

Milorad DodikDodik in questa campagna ha puntato molto sul rapporto con Vladimir Putin (Izetbegovic coltiva invece la relazione speciale con Erdogan), incontrato a settembre. Non si tratta soltanto di blindare la relazione intima tra serbi e russi. Il fatto è che Dodik ha visto nella secessione della Crimea dall’Ucraina, di cui la Russia è stata artefice, un precedente – difficilmente praticabile, ma elettoralmente premiante – da dare in pasto ai suoi connazionali.
Parallelamente, il presidente della Republika Srpska ha appoggiato apertamente la creazione di una terza entità: quella croata. Lo ha ricordato Alfredo Sasso su East Journal.

I croati sono la componente minoritaria della Bosnia e lamentano sia il peso ridotto a livello di governo nazionale, sia il fatto di non avere una loro “capitale”, a differenza dei serbi e dei musulmani. Mostar, la città dell’Erzegovina che sta ai croati come Sarajevo ai musulmani e Banja Luka ai serbi, almeno secondo la visione croata, è infatti impossibile da conquistare, fintanto che si continuerà a eleggere il sindaco non sulla base dei voti, ma dell’alternanza tra partiti croati e bosgnacchi (demograficamente i croati hanno peso maggiore). A queste elezioni, tra i croati, hanno prevalso non a caso le forze meno propense al dialogo.

Gli internazionali e la crisi sociale

Non si capisce come la Bosnia, con queste premesse, possa spostarsi in avanti. Salvo sorprese, la coalizione di governo sarà come al solito contraddistinta da veti incrociati, scarsa disponibilità al dialogo e conservazione.

La comunità internazionale potrebbe cercare di scuotere la situazione, ma ha risorse limitate. L’Alto rappresentante (Ohr), una sorta di proconsole internazionale (l’incarico è attualmente nelle mani dell’austriaco Valentin Inzko), è ormai una figura non più capace di intervenire, anche con perentorietà se necessario, nelle locali vicende politiche.
Sarajevo facciata
C’è l’idea che non sia giusto che il peso del protettorato permanga così a lungo e che debbano essere gli stessi bosniaci, attraverso i loro rappresentanti, a prendersi carico del proprio futuro e a cercare il consenso necessario a fare le riforme. Ma qui sta il grosso inghippo. Perché la classe politica bosniaca, autoreferenziale e abile a incamerare voti agitando i retaggi inestinti della guerra e gli interessi nazionali inalienabili dei tre “popoli costituenti”, trae dall’impasse la linfa utile a perpetuare le proprie rendite di posizione e a lasciare tutto immutato, o quasi.

L’alternativa a questo scenario sarebbe la transizione di poteri dall’Alto rappresentante al Rappresentante speciale dell’Unione europea (Eusr), incarico detenuto dal danese Peter Sorensen. La cosa alleggerirebbe il protettorato e porterebbe l’Ue a dispiegare con maggiore efficacia il suo soft power, come fatto altrove nei Balcani, giocando di bastone e carota, condizioni e incentivi. Tutto questo però non è facile da attuare. La chiusura degli uffici dell’Alto rappresentante passa dal consenso tra i principali soggetti della comunità internazionale e si dà il caso che americani e turchi ritengano che non sia ancora giunto il momento per intraprendere questo passo.

Sullo sfondo, intanto, si spalanca una situazione sociale complessa, che qualche mese fa ha dato vita a grosse proteste popolari, contro la scarsità di lavoro e – soprattutto – le tendenze predatorie dei politici. A questo si lega un’insofferenza crescente verso gli “internazionali”.

Le proteste, tuttavia, si sono manifestate quasi esclusivamente nella Federazione di Bosnia Erzegovina, l’entità croato-musulmana del paese. Il risultato incoraggiante del Fronte democratico è frutto anche della capacità di fare breccia tra i reduci delle manifestazioni. Ma al tempo stesso, come segnalato, il Fronte democratico non ha rastrellato una dote di voti tale da spingere sul pedale della rottura. La frustrazione resta dietro l’angolo e potrebbe riesplodere.

Nel frattempo non è sfuggito a nessuno che al tempo delle proteste Dodik si sia recato a Belgrado, il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu (ora premier) a Sarajevo e il capo del governo croato Zoran Milanovic a Mostar. Ed è anche davanti a cose come queste che si fa fatica, pur non volendolo, a pensare alla Bosnia come a un paese unito.

Vai a www.resetdoc.org

Le foto sono dell’archivio di Rassegna Est

Nella foto di copertina e nelle foto grandi: immagini di Sarajevo
Nella foto piccola: Milorad Dodik all’inaugurazione presidenziale del 2010

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