Brexit, ora il cataclisma nazionalista
L’Europa si svegli o sarà la sua fine

Da Reset-Dialogues on Civilizations

I primi sondaggi del 23 giugno, che davano il Remain in vantaggio di qualche punto percentuale nel referendum britannico, avevano fatto sperare molte élite europee. Dopo la risicata vittoria contro la destra estrema euroscettica in Austria, l’Europa poteva, forse, dirsi finalmente salva. Il risveglio ha purtroppo un tono ben diverso. Il problema è che la classe politica attuale sembra culturalmente impreparata a comprendere alcune delle criticità politiche e sociali dell’era contemporanea.

Il voto con il quale la Gran Bretagna rigetta l’Unione Europea è ovviamente un cataclisma politico e sociale con conseguenze non facilmente prevedibili. Eppure non è il primo “segnale” di sofferenza della vecchia Europa. Rappresenta il frammento di un fenomeno che oggi attanaglia l’Occidente. Non è solo una crisi di rappresentanza politica. Nel Regno Unito la gente ha votato, eccome. Stiamo osservando il ritorno di un nazionalismo che spacca le società nazionali, mina la già difficile (almeno in alcuni casi) integrazione di qualsiasi straniero, colpisce valori di eguaglianza e solidarietà che sembravano parte del nostro sentire comune e rischia di creare frizioni tra gli stati.

Il biennio 2015-2016 ha mostrato interamente la fragilità di un mondo scosso, nel perdurare di una crisi economica apparentemente quasi “risolta” con la medicina dell’austerità, dal ciclone rifugiati. Abbiamo, in questo frangente temporale, visto la Le Pen mostrare i muscoli forte dei milioni di voti nelle elezioni regionali francesi, l’FPO austriaco guidare i sondaggi elettorali, i neofascisti slovacchi, che organizzano ronde in tenute quasi militare, entrare in parlamento, gli xenofobi anti-Europa dell’AfD impaurire la leadership politica della Germania dei successi economici, e la poco liberale svolta a destra della Polonia e dell’Ungheria. La lista non finirebbe qui. Tuttavia nonostante questo quadro a tinte abbastanza fosche, la reazione di molti politici, intellettuali, esperti, e società civile è stata quella del puro e semplice silenzio. Non si è compresa la paura d’interi settori della popolazione, quelli sconfitti dalla globalizzazione, che dalla libera circolazione delle merci, oltre a qualche bene di consumo a basso costo, credono di non aver ottenuto nulla, e quelli che non hanno minimamente la prospettiva/possibilità di trasferirsi e far valere la propria competitività sui mercati. In Austria masse di operai hanno votato per chi, da destra, offriva soluzioni demagogiche. In Gran Bretagna ampie zone laburiste, e meno abbienti di Londra, hanno appoggiato il Leave per problemi “locali” che davvero poco hanno a che fare con l’Unione Europea.

La verità è che, in tal contesto, e quando regna la confusione, è facile scaricare tutte le difficoltà su un presunto nemico: l’immigrato, il rifugiato, il politico mainstream, le istituzioni europee, e finanche gli USA. Il voto anti-UE in Inghilterra e in Galles e la campagna referendaria degli ultimi mesi rientrano in questo trend nazionalista e di appello alle virtù dello stato-nazione. Si è innanzitutto assistito alla radicalizzazione del discorso politico, con il risultato di una stigmatizzazione quasi totale del migrante europeo, del rigetto di quello (potenziale) turco, del crescente sospetto verso il richiedente asilo politico, e della mistificazione di tutto quello che suonasse “Europa unita”. Oltre a livelli di demagogia che forse mai si erano visti nelle terre della regina, nell’accezione nazionalista inglese, il richiamo all’importanza della sovranità nazionale si è unito al ritorno del mai sopito mito dell’impero britannico. Un’illusione di potenza globale ha pervaso le menti di alcuni tra i politici e gli elettori (soprattutto anziani) che spingevano per l’isolazionismo.

Sarebbe facile far finta di niente questa volta, addossando agli inglesi,storicamente euroscettici, colpe ben oltre la (gigantesca) miopia politica. Non possiamo nemmeno sperare che l’UE si riformi da sola, presentando un’immagine migliore e più “sociale”, se i governi nazionali, a partire dalla cancelleria tedesca, pensano di utilizzarla a uso e consumo interno. Dobbiamo iniziare tutti un serio dibattito su che tipo di Europa e di società vogliamo, se aperte e genuinamente internazionali oppure chiuse ed escludenti. È compito delle élite spiegare in cosa consiste la complessità di un’epoca globale e che non esistono bacchette magiche che possono risolverla. È, infatti, davvero inutile aspettare, come invece fatto finora, che la marea passi da sola. Purtroppo non si abbasserà facilmente, e qualcuno, nel tentativo di attraversare comunque il fiume, potrebbe già aver seguito qualche strano, e poco democratico, pifferaio magico.


Andrea Mammone insegna Storia dell’Europa presso la Royal Holloway University of London. È l’autore di Transnational Neofascism in France and Italy (Cambridge University Press). Ha scritto per Al Jazeera, The Independent, International Herald Tribune, The New York Times, The Guardian, Reuters, Washington Post, Foreign Affairs e New Statesman.

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