Betlemme, la rabbia dei giovani
I nostri leader dei buoni a nulla

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Betlemme – Il mattino del 15 luglio Betlemme, a dieci chilometri da Gerusalemme, si è risvegliata al suono dei petardi e dei clacson delle macchine piene di studenti festanti per i tawjihi (i risultati degli esami di maturità). Il rumore della vita che si ostina in un territorio sotto una lunga occupazione, ha preso il posto di quello degli scontri che si ripetono ogni notte da oltre un mese tra i giovani palestinesi e l’esercito israeliano, durante le proteste per la strage che si sta consumando nella Striscia di Gaza dall’8 luglio.

Da quando Tel Aviv ha lanciato l’offensiva denominata ‘Barriera Protettiva’ contro il movimento islamico Hamas che dal 2007 governa questo minuscolo lembo di terra sottoposto a un rigido embargo da Israele, nei raid dell’aviazione e della marina israeliana sono morte 192 persone e circa 1.400 sono rimaste ferite, oltre il 75 per cento tra la popolazione civile, secondo le Nazioni Unite. Mentre i razzi di Hamas, quasi sempre intercettati dal costoso scudo antimissile Iron Dome (una batteria costerebbe circa 50 milioni di dollari), hanno fatto una decina di feriti, negli ultimi giorni, tra cui una bambina.

Le notizie circolate da lunedì sera su un imminente cessate-il-fuoco mediato dall’Egitto, tornato sulla scena dopo un iniziale rifiuto, non hanno fermato i bombardamenti israeliani né i lanci di razzi da Gaza, dove nelle prime ore della mattina sono morte cinque persone. Si trattano le condizioni di una tregua che il governo del premier israeliano Benjamin Netanyahu ha accettato, mentre per Hamas e soprattutto per il suo braccio armato, le Brigate Ezzedin al-Qassam, hanno il sapore di una resa. Intanto, il movimento islamico ha alzato il tiro lunedì, facendo levare in volo un drone, poi abbattuto, sulle aree meridionali di Israele, dove continuano a risuonare le sirene che esortano gli israeliani a rifugiarsi nei bunker. Il premier israeliano ha promesso una “intensificazione dell’attacco, se Hamas non accetterà il cessate-il-fuoco”.

Nelle città della Cisgiordania c’è dolore, rabbia e apprensione per i “fratelli” gazawi. Ogni notte, dopo l’Iftar (il pasto serale che interrompe il digiuno nel mese islamico del Ramadan) e una giornata trascorsa davanti agli schermi di computer e cellulari scorrendo le immagini dei morti e delle case distrutte, i ragazzi scendono in strada scandendo slogan e scagliando pietre e bombe molotov contro i soldati israeliani, che rispondono con gas lacrimogeno, proiettili di gomma, o anche veri, e bombe sonore. Talvolta le camionette israeliane spruzzano un liquido nauseabondo nei campi profughi palestinesi, come accaduto in quello di Aida, a Betlemme, la settimana scorsa.

Lunedì mattina, nel villaggio di Samu, a Hebron, due proiettili hanno centrato all’addome il 22enne Munir Ahmad Badarin, uccidendolo. Badarin è il primo morto nei Territori occupati dall’inizio dell’offensiva su Gaza, ma altri sette palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania durante quella “punizione collettiva” abbattutasi su di loro dopo la scomparsa, il 12 giugno, dei tre ragazzi israeliani ritrovati morti il 30 giugno. Un omicidio attribuito subito ad Hamas, appena riconciliatosi con Fatah che governa la Cisgiordania, che ha scatenato rastrellamenti e scontri in cui sono stati uccisi sette palestinesi, e una raffica di arresti (circa mille). Sono tornati in cella in prevalenza i prigionieri scarcerati con l’accordo tra Hamas e Tel Aviv per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit nel 2011 ed esponenti dei vertici del movimento islamico. A questa rappresaglia, cui Hamas ha risposto con il lancio di razzi, si è affiancata quella degli ebrei estremisti che il 2 luglio hanno ucciso, bruciandolo vivo, un 16enne palestinese di Gerusalemme est. Sono seguite manifestazioni e scontri, e anche aggressioni da parte dei coloni, che hanno coinvolto palestinesi con cittadinanza israeliana sia nella Città Santa sia nei paesi e nei villaggi palestinesi in Israele.

“Forse questo fatto ha un po’ sorpreso Tel Aviv”, dice l’analista palestinese Nassar Ibrahim, co-direttore dell’Alternative Information Center (Aic) di Beit Sahour, Betlemme. “Ma il riconoscimento della cittadinanza israeliana non ha cancellato nei cuori e nelle menti di queste persone il fatto di essere palestinesi, la lotta per i diritti del proprio popolo e la rabbia può esplodere in ogni momento”.

Una rabbia contenuta, sinora, in Cisgiordania. Alle proteste a Betlemme, Ramallah, Hebron, Qalqiliya, Gerusalemme est, la zona palestinese della città più contesa al mondo, partecipano soprattutto i giovani dei campi profughi. Quelli che non si riconoscono più nella leadership palestinese, che si sentono traditi dall’accettazione di condizioni per i negoziati (gli ultimi falliti lo scorso aprile) che hanno marginalizzato o anche cancellato i loro diritti di profughi da 66 anni.

“Sfortunatamente i nostri leader ripongono ancora fiducia nel diritto internazionale, ma noi non vediamo alcuna soluzione nei negoziati. La verità è che gli israeliani non vogliono la pace, e neanche noi vogliamo questa pace”, dice un ragazzo del campo di Dheisheh, a Betlemme, che vuole restare anonimo. “Il nostro problema con gli israeliani dura da oltre sessant’anni, ma adesso abbiamo altri problemi da affrontare che riguardano la nostra società. Dobbiamo sbarazzarci di questa leadership vecchia, delle banche che ci soffocano, di un sistema liberista che ha creato classi sociali di privilegiati che vogliono mantenere lo status quo, l’occupazione, perché ne traggono benefici. E i nostri partiti e i nostri leader, l’élite, fanno parte di questo sistema. Hanno rapporti economici con Israele, con gli Stati Uniti, l’Europa, i Paesi del Golfo”.

Un processo cominciato con Oslo, spiega Nassar Ibrahim, da quando sono iniziati ad arrivare i soldi. “Se hai legami economici con Tel Aviv, con Washington, sua alleata, con l’Europa, devi sottostare alla loro agenda e questo spiega anche il declino di questioni prima centrali, come il diritto al ritorno dei profughi, che sono la maggioranza dei palestinesi, e il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione nazionale del nostro popolo. Le rivendicazioni di un popolo che lotta da cento anni sono state ridotte a compromessi su qualche metro di terra e sui check point. Ma noi non dimentichiamo l’oceano di sangue che ha bagnato la nostra lotta”.

E se le proteste e gli scontri di queste settimane in Cisgiordania non sono sfociati in una Terza Intifada, invocata da alcuni media, è perché i giovani si domandano per quale motivo dovrebbero sacrificare la propria vita per leader in cui non hanno fiducia e per processi di pace in cui non credono più, dicono alcuni ragazzi di Dheisheh. Ma la rabbia cova sotto la cenere e non si può prevedere quando esploderà.

“La resistenza, l’intifada, non si è mai fermata”, continua Nassar Ibrahim. “La lotta è un processo complesso, un processo sociale, culturale, economico, di resistenza che non si risolve in una marea di gente per strada. Mentre i gazawi resistono sotto le bombe, i palestinesi in Cisgiordania agiscono e reagiscono in un contesto totalmente diverso, sotto un’occupazione diversa, i cui meccanismi di controllo sono più efficienti, dove c’è un coordinamento alla sicurezza tra Autorità nazionale palestinese (Anp) e Israele, percepito come un secondo braccio dell’occupazione. Ma questo non significa che non siamo pronti a lottare per i nostri diritti. Qui giochiamo nel cuore della Palestina e gli israeliani temono la resistenza”.

L’operazione ‘Barriera Protettiva’ non durerà a lungo, secondo Nassar Ibrahim. “Penso che si fermeranno. Una guerra aperta rischia di scatenare un conflitto regionale in un momento in cui Tel Aviv è in crisi, sia all’interno sia a livello internazionale. Ci sono agitazioni nel governo; nessuno sa cosa potrebbe accadere al Nord, quale potrebbe essere la reazione di Hezbollah (il movimento sciita libanese che combatte in Siria al fianco di Assad, ndr) che in questo momento si muove dal Libano all’Iraq. L’intesa sul nucleare iraniano innervosisce i leader israeliani, come anche l’accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah (una delle ragioni che stanno dietro all’attacco a Gaza) che Israele ha contrastato, non trovando però la sponda dell’alleato statunitense. Una riconciliazione frutto di una crisi che riguarda entrambi: Hamas è isolato dopo la caduta dei Fratelli Musulmani in Egitto e la rottura con la Siria, storico alleato; mentre Fatah e l’Anp stanno subendo un drastico calo di consensi”.

Molti palestinesi temono che Israele abbia centrato l’obiettivo di rovinare questa riconciliazione raggiunta dopo sette anni di divisioni. Il leader di Fatah, Mahmud Abbas (noto anche come Abu Mazen), potrebbe scaricare i “terroristi” del movimento islamico, ma per Nassar Ibrahim la riconciliazione reggerà. “Quando l’attacco contro Gaza finirà, potremmo uscirne più forti di fronte al mondo. Se (i leader palestinesi) si metteranno d’accordo sulle questioni più urgenti – applicazione delle risoluzioni, liberazione dei prigionieri – riusciranno a sottrarsi all’influenza di Israele e potranno porre le loro condizioni nell’agone internazionale”.

Intanto, i giovani si incontrano e discutono di quanto sta accadendo a Gaza. La rabbia monta alla vista delle bombe che si abbattono sulle case, sulle moschee, sulle piazze di Gaza City e vicino agli ospedali, precedute da una telefonata delle Forze armate israeliane che intimano alla gente di lasciare le proprie abitazioni, diventate obiettivi militari, in dieci minuti. Nessuno può dire cosa potrebbe succedere se Israele “oltrepasserà la linea rossa”, conclude Nassar Ibrahim.

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