Scompare Peter Berger, grande sociologo del pluralismo

Peter L. Berger, il grande sociologo e teologo protestante, nato in Austria, è scomparso a 88 anni a Brookline nel Massachussetts. La sua morte è stata annunciata dall’Institute on Culture, Religion & World Affairs, che aveva fondato lui stesso alla Boston University nel 1985 e che aveva diretto fino al 2009.

Ripubblichiamo qui una recensione del marzo scorso al suo ultimo libro apparso in italiano, I molti altari della modernità. Le religioni al tempo del pluralismo (Emi, 2017, pp. 208).

Peter Berger ovvero l’inevitabile relatività del Dio di ciascuno

Il pluralismo non è uno dei tanti elementi della modernità secolare. La convivenza ravvicinata di diverse visioni del mondo, di diverse scale di valori nella stessa società, nello stesso villaggio, sullo stesso pianerottolo, sullo stesso video o smartphone, nella stessa famiglia, e anche nella mente dello stesso individuo in momenti diversi della giornata, tutto questo è il cambiamento che ha sconvolto la «compattezza» e l’ordine «naturale» della società tradizionale. È un cambiamento che riguarda sia la coscienza individuale sia l’ordine delle istituzioni. E propone ai religiosi una sfida doppia, quella di convivere con realtà secolari e al tempo stesso quella, diversa e ancora più impegnativa, di convivere con la moltiplicazione dell’offerta religiosa sul mercato delle fedi. Peter Berger, ora a 87 anni, ritorna sulla scena con un libro – I molti altari della modernità. Le religioni al tempo del pluralismo (pp 208, € 19, Emi) – che parla non solo alla comunità accademica della sociologia, ma con la vivacità, che gli è propria, di un dialogo con il grande pubblico.

Il pluralismo produce una situazione in cui la relativizzazione diventa un’esperienza permanente, mentre molte domande della nostra società – che cosa è un matrimonio? lei in che cosa crede? a quali valori educare i bambini? – escono dalla sfera delle risposte in automatico, quelle che cominciano con «ovviamente» e entrano nel novero di quelle cui si deve aggiungere «forse» e «fino a nuovo avviso». Per farsi capire a Berger piace la storia dei «tre Cristi», di Ypsilanti (una città del Michigan), dove si trova un ospedale psichiatrico, nel quale a due internati che si credevano Gesù e che andavano d’accordo se ne aggiunse un terzo. Li misero insieme e dopo lo shock finì che negoziarono una ingegnosa teologia per cui tutti e tre potevano mantenere il titolo di Cristo.

Lungi dal considerare blasfemo il paragone tra la religione e la pazzia, Berger utilizza questo esempio classico, studiato da Milton Rokeach, come un paradigma del «compromesso cognitivo» cui deve accingersi oggi il fedele di qualunque confessione, di fronte alla sfida degli altri «Cristi». Un tipo di contaminazione che evidentemente relativizza qualunque assoluto e che diventa esercizio permanente per qualunque forte convinzione, non solo religiosa. I fondamentalisti, che sono i portatori di un progetto di eliminazione totale del dubbio, se ne sottraggono, ma possono farlo a condizione di sopprimere il contatto con le «altre» versioni del mondo con dittature di tipo nordcoreano su scala statale, oppure su un segmento della società, su una sottocultura, una setta. La censura delle dissonanze cognitive avviene attraverso atti d’autorità (fatwa, accuse di blasfemia, arresti, frustate), ma anche con operazioni mentali che agiscono censurando informazioni contraddittorie, così come i fumatori semplicemente omettono di leggere articoli sui danni del fumo e di «vedere» le scritte terrorizzanti sulle confezioni di tabacco.

Il pluralismo di qualunque tipo era incompatibile con l’autocomprensione cattolica premoderna, il Sillabo di Pio IX ne è un documento esemplare. La Chiesa possedeva la pienezza della verità e in linea di principio gli «errori» (le altre fedi) non avevano diritti. L’«errore LXXVII» sanciva la proibizione della tesi che «in questa nostra età non conviene più che la religione cattolica si ritenga come l’unica religione dello Stato». La stessa libertà religiosa è teologicamente problematica per la Chiesa romana come per tutte le confessioni, a cominciare dall’Islam. Nonostante il Vaticano II, l’epistola Dominus Iesus, del 2000, del cardinale Ratzinger, rappresentava ancora un tentativo di resistere al «compromesso cognitivo»; in altre parole condannava le teologie pluraliste.

Berger, nato a Vienna, come tanti grandi intellettuali della diaspora austriaca (da Schumpeter a Popper) ha legato il suo nome fin dal 1966 a La costruzione sociale della realtà, uno dei testi più influenti della sociologia del XX secolo, che ha scritto insieme a Thomas Luckman e che bastava ad assegnarli un posto di grande rilievo nella storia delle scienze umane. Il linguaggio, le istituzioni, i ruoli sociali acquistano nella vita quotidiana, in cui veniamo cresciuti ed educati, una oggettività che trova un riscontro nella mente.

In altre parole noi accettiamo gran parte di quel che troviamo come «nomos», come un dato che diamo come scontato: non abbiamo bisogno di reinventare o riscoprire il sistema ferroviario ogni volta che prendiamo un treno. L’oggettività ha una sua stabile legittimazione, ce l’ha nel mondo che ci circonda e anche, per così dire, negli scaffali nella nostra mente, ma attenzione solo «fino a prova contraria»: quando un servizio smette di funzionare, quando gli eventi costringono a riesaminare il «nomos». A quel punto togliamo la cosa dagli scaffali delle cose scontate e la spostiamo nello scaffale dei problemi da risolvere. È un processo che Berger definisce di «deistituzionalizzazione» ed è tanto faticoso quanto era comodo trovarsi il problema risolto nella «routine». La modernità pluralista costringe a passare di qui anche la religione, che non è più «naturalmente» quella del luogo e della famiglia dove sei nato, ma il risultato di una scelta tra le molte possibili, compresa quella di non avere alcuna fede ma di ritenersi agnostici o atei, che ha avuto i suoi maggiori successi in Europa.

Negli ultimi decenni l’analisi di Berger si è rivolta alla religione per diverse ragioni. La prima è che lui come tanti altri sociologi, ispirati da Max Weber, era convinto, fin verso la fine del secolo scorso, della tesi della secolarizzazione e «disincanto» del mondo: declino della religione e delle credenze nella trascendenza. E questo anche se non ha mai avuto dubbi lui, luterano, sulla coesistenza della modernità con le credenze nel soprannaturale: era già del 1969 Il brusio degli angeli. Ma nel ’99 con La desecolarizzazione del mondo, la classica tesi weberiana gli appare empiricamente insostenibile. Fatte alcune eccezioni, che sono l’Europa e la comunità intellettuale internazionale, il mondo è religioso come sempre.

Tutto questo per Berger non è, di per sé, in contrasto con la separazione delle istituzioni politiche da quelle religiose. Al contrario la desecolarizzazione (fenomeno sociale non giuridico) è perfettamente compatibile con quella che noi chiamiamo laicità dello stato e che in inglese suona come «secolarismo» istituzionale. È compatibile anche se questo non significa che la laicità sia realizzata in terra, come ben si vede nei paesi islamici e non solo. E a proposito di questa separazione, o «differenziazione», Berger sottolinea nella sua originale visione come essa debba passare non solo tra la chiesa, le moschee, il clero monaci e la politica, ma anche nella coscienza, debba affermarsi cioè come «nomos». Non basta tradurre in legge l’equivalente del primo emendamento della costituzione americana. Deve esserci, deve formarsi un primo emendamento in miniatura nella mente dei singoli cittadini, per cui a nessuno passi per la testa di metter al governo un vescovo o un mullah. (2 marzo 2017)

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