Amina, le Femen tunisine e il corpo della protesta

Da Reset-Dialogues on Civilizations

È tornata a farsi sentire e vedere dopo il primo maggio, Amina, la Femen tunisina che, ritratta in topless, aveva fatto scalpore nel suo paese e aveva ottenuto l’attenzione internazionale. È tornata, capelli biondi e cortissimi, a seno nudo e con la scritta “no a lezioni di morale”, per protestare contro la manifestazione con la quale il partito del Congresso per la repubblica stava celebrando la Festa del Lavoro. Ha urlato contro gli esponenti politici ed è stata bloccata dalla polizia, che l’ha ricacciata dietro le transenne.

Dopo aver fatto perdere le sue tracce, Amina è ricomparsa per continuare la sua protesta anche da sola, lontano dalla famiglia e dalle minacce dei fondamentalisti. Il 17 marzo scorso, come riporta anche la pagina Facebook ufficiale Femen Tunisian (da cui è tratta la foto, ndr), la ragazza è stata trattenuta dalla famiglia contro la sua volontà e sottoposta a cure farmacologiche. Solo il 12 aprile, poco meno di un mese dopo, Amina è riuscita a fuggire e i suoi sostenitori hanno lanciato una campagna di crowdfunding per permetterle di lasciare il paese entro il prossimo settembre. Poi, il 19 maggio, Amina è stata arrestata a Keirouan, durante una protesta davanti a una moschea nella quale si era asserragliato un gruppo di salafiti.

Con lei, diciannovenne tunisina, la protesta delle Femen è arrivata nel Nord Africa. La “topless jihad”, è stata definita – e fin dalla sua comparsa, nell’aprile scorso, ha suscitato commenti, critiche e persino un movimento di donne musulmane che si sono schierate contro. Eppure la protesta in topless partita dall’Ucraina parla di donne e alle donne. Il messaggio delle prime scritte sul torace di Amina, in arabo, era chiaro: “Il mio corpo mi appartiene e non è fonte di onore per gli altri”. Gli abusi, anche nel mondo arabo, sono all’ordine del giorno e la stessa vicenda di Amina lo dimostra – visto che la famiglia, dopo le proteste, l’avrebbe anche sottoposta a un test di verginità. Una zia avrebbe anche pubblicato un video in cui avrebbe dichiarato che la nipote è malata di mente, e con il suo atto vergognoso ha ferito la famiglia, e l’orgoglio del padre in particolare.

La fondatrice del movimento, Inna Shevchenko, da anni residente in Francia, ha protestato a sua volta per difendere il diritto di Amina alla libertà di espressione anche nel suo paese, violato non solo dalla famiglia ma da tutti coloro che l’hanno giudicata immorale. Le attiviste di Femen hanno scelto di utilizzare il corpo come mezzo di espressione contro corrente, per raccontare i diritti delle donne senza distinzione di nazionalità, di religione, di tradizioni. Le ingiustizie hanno infatti accomunato il mondo islamico con quello occidentale, dalle violenze domestiche alla sottomissione tradizionale. “L’idea di una femminista musulmana è un ossimoro”, ha dichiarato proprio la Shevchenko.

Ma la protesta delle Femen ha spesso preso di mira i simboli e i leader religiosi, ben oltre l’Islam: il Papa, il Patriarca Ortodosso russo, l’arcivescovo del Belgio André-Leonard Jozef. Proprio la leader del movimento, di origine ucraina, è stata la prima ad essere accusata di aver offeso il sentimento religioso durante le manifestazioni a sostegno delle Pussy Riot. E lei stessa ha dichiarato che le Femen hanno raggiunto il loro scopo, facendo parlare di sé le altre donne, comprese le musulmane, anche contro di loro e le loro manifestazioni.

Certo è che ne è nato un dibattito, anche in Tunisia: e se molte donne hanno ritenuto eccessiva la forma di protesta in topless di Amina Tyler, le sue foto hanno fatto il giro del paese e poi dell’Europa. Organizzazioni come l’Associazione tunisina di libertà e uguaglianza, pur sostenendo la libertà di espressione delle Femen, ha subito preso le distanze del topless jihad, definendo il fenomeno “completamente estraneo alla società”. Il centro iracheno per la riabilitazione delle donne ha definito controproducenti queste forme di manifestazione, a causa della nudità inaccettabile usata come mezzo di protesta.

Eppure l’uso del proprio corpo per manifestare, chiedere diritti e riuscire a scalfire il muro dell’indifferenza era già stato usato nel mondo arabo, durante la “primavera”, quando la giovane blogger Aliaa Elmahdy, nel novembre 2011, aveva pubblicato in rete alcuni autoscatti in cui aveva posato indossando solo le calze per denunciare una società sessista fatta di violenza, razzismo e ipocrisia.

La risposta delle Femen alle critiche sulla forma del protestare alla fine è stata sempre la stessa in ogni paese in cui hanno organizzato le loro iniziative: con i vestiti addosso se ne sarebbe accorto qualcuno?

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