Algeria: la malattia di Bouteflika
annuncia la fine di un’era?

Da Reset-Dialogues on Civilizations

L’Algeria è un paese complesso, ma se si dovessero indicare le tre parole chiave per comprenderne le dinamiche attuali queste sarebbero certamente clan, rendita petrolifera, e guerra civile. Ottenuta l’Indipendenza dalla Francia nel 1962 dopo un dominio coloniale durato oltre 130 anni ed una cruenta guerra di liberazione prolungatasi per quasi otto, l’Algeria sotto la direzione di Houari Boumedienne ha avviato un processo di accelerata industrializzazione finanziato dalla vendita di idrocarburi.

Negli anni Ottanta, poi, dopo l’arrivo del nuovo presidente Chadli Bendjedid, il processo di liberalizzazione economica attuato si è caratterizzato per una ritirata della presenza statale, un maggiore spazio per la libera iniziativa, ed un utilizzo di questa rendita per stimolare le industrie leggere e la costruzione di infrastrutture. L’improvviso e violento crollo del prezzo del greggio sui mercati mondiali nel 1986, legandosi alle crescenti diseguaglianze sociali spiegano poi – almeno in parte – le rivolte del Novembre 1988, sedate nel sangue dall’intervento dei militari. Il susseguente processo di apertura politica ha così portato alla vittoria degli islamisti alle elezioni locali del 1990 e alla loro affermazione nel primo turno delle legislative del dicembre 1991. Per prevenire la formazione certa di un parlamento a maggioranza islamista i militari hanno bloccato il processo elettorale con un golpe, che ha scatenato una lunga guerra civile costata la vita a circa duecentomila persone.

Oggi l’Algeria è un paese profondamente segnato da questa esperienza, afflitto da  divisioni interne, ed iper-dipendente dalla rendita petrolifera che finanzia una spesa clientelare a tutto vantaggio di chi dispone delle giuste connessioni col potere. Potere che viene gestito dai vari clan in una costante lotta che tiene un paese ricco di risorse prigioniero di un malessere sociale altissimo.

Ad inizio settembre di quest’anno, con una mossa che ha sorpreso molti, il presidente Bouteflika ha licenziato il potentissimo capo dei servizi segreti algerini Mohamed Mediene, noto con il soprannome di Toufik. Addestrato negli anni Sessanta dal KGB, il “Dio d’Algeria” – come amava farsi chiamare – è cresciuto all’ombra del generale Mohamed Betchine, capo dei servizi di intelligence negli anni Ottanta, prima di rimanere per oltre 25 anni a capo di uno dei servizi segreti più potenti ed influenti al mondo. Una longevità straordinaria, considerando anche che, come sottolineato dall’accademico Jeremy Keenan, il sovietico Lavrenti Beria si è fermato a quindici anni, mentre il nazista Heinrick Himmler si è suicidato dopo solamente undici. In questo quarto di secolo, Mediene è stato uno dei nomi più noti e, al tempo stesso, uno dei volti meno conosciuti di Algeria – data la presenza di un’unica e sbiadita foto che ritraeva il generale Toufik presumibilmente sul finire degli anni Novanta. Il suo disarcionamento non rappresenta però, come in tanti si sono affrettati a dire e scrivere, un tentativo dei poteri civili di esercitare un maggiore e più efficace controllo sulle forze militari. Al contrario, questo deve essere letto come il congiunto e riuscito attacco del Capo di stato maggiore Ahmed Gaïd Salah, acerrimo nemico di Mediene dal lontano 2004 quando il suo predecessore Mohamed Lamari era stato estromesso proprio da un accordo stretto tra Toufik e Bouteflika, e da Athmane Tartag, detto Bachir, l’ex numero due dell’intelligence algerina, entrato in rotta di collisione con Mediene dopo la disastrosa gestione della cosiddetta crisi di In Amenas nel gennaio 2013, quando un gruppo di miliziani affiliato ad Al Qaeda aveva preso in ostaggio oltre 800 lavoratori nell’impianto di estrazione del gas di Tigantourine. In tale occasione, un affrettato e mal preparato blitz delle forze speciali algerine causò almeno 67 morti di cui 37 di nazionalità straniera, facendo esplodere un caso di portata internazionale, sfociato anche nell’insolita convocazione ufficiale da parte delle autorità nipponiche dell’ambasciatore algerino a Tokyo dopo che 10 lavoratori giapponesi erano rimasti uccisi nell’assalto.

La sostituzione di Mediene non è però giunta così improvvisa come si potrebbe pensare, ma è stato il frutto di un riuscito indebolimento ai danni dell’ex uomo più potente di Algeria. Preparata nei mesi precedenti, la manovra ha visto tre fasi: inizialmente una serie di agenzie tradizionalmente sotto il controllo dei servizi segreti algerini sono state trasferite sotto la direzione diretta dell’esercito, facenti capo così ad Ahmed Gaïd Salah; successivamente alcuni dei fedelissimi di Mediene – dal direttore del contro-spionaggio Abdelhamid “Ali” Bendaoud al capo della guardia presidenziale Djamel Kehal Medjdoub – sono stati estromessi e licenziati; ed infine è giunto l’arresto del generale Hassan alla fine di agosto. Tutto era ormai pronto per assestare il colpo decisivo al “Dio d’Algeria”. Colpo che peraltro non si è fatto attendere molto essendo stato assestato, almeno a dar credito alle fonti ufficiali, ad inizio settembre. Dopo il suo clamoroso allontanamento il generale Toufik è quindi caduto in un lungo ma chiacchieratissimo silenzio, solo recentemente rotto con una lettera aperta scritta ad un quotidiano algerino dopo la dura sentenza che ha condannato il generale Hassan, suo strettissimo alleato, ad una pesante detenzione di cinque anni. Al momento, capire in quale direzione e a favore di chi si risolverà lo scontro rimane alquanto difficile, anche se sembra facilmente ipotizzabile che in nessun caso porterà ad un deciso rafforzamento dei poteri civili. La ragione è presto detta: la presidenza, la principale ed unica opposizione al super dominio dei militari, non è mai stata così debole e malmessa.

Quando i militari chiesero ad Abdelaziz Bouteflika, già Ministro degli Esteri dal 1963 al 1978, di correre come presidente “prescelto” nelle scarsamente libere elezioni del 1999, l’Algeria era un paese sfibrato da sette lunghi anni di guerra civile e completamente isolato sul piano internazionale. Nonostante questo, le connessioni personali di Bouteflika, la ripresa del prezzo degli idrocarburi sui mercati mondiali, ed il cambiamento di paradigma a livello globale dopo gli attacchi di Al Qaeda al cuore degli Stati Uniti l’11 settembre 2001 fornirono un contesto favorevole al nuovo presidente che riuscì rapidamente a consolidare il proprio potere. Ottenuta una modifica alla Carta Costituzionale che limitava a due mandati il limite presidenziale, Bouteflika è stato rieletto per la terza consecutiva volta nel 2009. Questo mandato è stato però caratterizzato fin da subito da un brusco raffreddamento del patto che aveva governato l’Algeria negli ultimi anni: quello tra Bouteflika e Mediene.

Le ragioni addotte per spiegare ciò restano spesso vaghe, anche se molti commentatori hanno ipotizzato che Toufik temesse la crescente forza del presidente così come avversasse la successione dinastica che Bouteflika stava preparando e che si palesava con la costante crescita di influenza di suo fratello minore, Saïd, peraltro considerato da Mediene stesso largamente incapace. Il confronto tra il presidente ed il capo dell’intelligence sembrava concludersi nettamente a favore del secondo che non solo a partire dal 2009, attraverso l’utilizzo dell’arma giudiziaria, aveva ridotto la capacità di manovra di Bouteflika – costretto, dopo una serie infinita di scandali ad abbandonare molti degli uomini a lui più vicini, a partire proprio dall’amico nonché Ministro dell’energia, Chakib Khelil – ma era stato anche favorito dalle precarie condizioni di salute di Bouteflika stesso. Il presidente infatti, colpito da un grave ictus, è stato costretto a trascorrere, nella primavera del 2013, quasi tre mesi in Francia per le dovute cure, prima di riuscire a rientrare ad Algeri solamente grazie all’aiuto di una sedia a rotelle.

Nonostante questo, e tra le infinite polemiche delle opposizioni, Bouteflika è riuscito a farsi rieleggere per un quarto mandato nell’aprile del 2014, nella competizione che sarà ricordata come quella vinta dall’uomo “che non poteva camminare, ma è riuscito a correre le elezioni”. Come ampiamente prevedibile in un paese da sempre governato da quello che viene descritto come “lo stato profondo”, l’infermità fisica del presidente ha prodotto una serie infinita di rumors e dicerie sulle reali capacità di Bouteflika di dirigere il paese e su chi sia realmente al potere in Algeria.

Un importante punto di svolta al riguardo si è poi avuto il primo novembre scorso quando diciannove personalità di primo piano del mondo politico algerino hanno preso carta e penna ed espresso pubblicamente i propri forti dubbi rispetto alle capacità di governo del presidente Abdelaziz Bouteflika. L’iniziativa non è certamente una novità assoluta per il paese nord-africano, ma un veloce sguardo alla composizione dei “diciannove”, poi ridottisi a sedici per tre defezioni, produce qualche interrogativo ulteriore. Se escludiamo, infatti, la “trotzkisteggiante” Louisa Hanoune, Segretaria Generale del Partito dei Lavoratori, gli altri diciotto iniziali firmatari della lettera che sollecitava anche un incontro con il presidente sono tutte figure molto vicine allo stesso Bouteflika, se non veri e propri esponenti della sua ristretta cerchia di fedelissimi. In tal senso, un forte dubbio emerge: perché, infatti, richiedere pubblicamente ciò di cui si è già a conoscenza, o che comunque può essere facilmente carpito grazie ai propri contatti personali?

L’intera vicenda – e qui il condizionale è d’obbligo – ha spinto molti ad interpretare il gesto come una manovra difensiva nei confronti del presidente, volta cioè a proteggere la sua precaria posizione coinvolgendo direttamente il paese, proprio in una fase nella quale il “rumore di sciabole” ha raggiunto nuove vette. A molti osservatori, infatti, il presente algerino ricorda da vicino la vicenda tunisina del 1987 quando il malato presidente Habib Bourguiba veniva defenestrato da “un colpo di stato medico-legale” seguendo la famosa formula consacrata da Zine El-Abidine Ben Ali, ai tempi Ministro degli Interni e principale ispiratore di un piano che lo avrebbe portato a ricoprire la più alta carica statale e politica fino allo scoppio delle rivolte – divenute poi famose sotto la dizione di “Primavere Arabe” – che lo costrinsero a lasciare il paese in tutta fretta nel gennaio 2011.

Questo feroce scontro di potere al vertice si inserisce inoltre, in un contesto economico alquanto difficile per l’Algeria, dove le diseguaglianze sociali sono crescenti e l’impoverimento degli strati più deboli della popolazione evidente. Il paese rimane infatti una delle economie meno diversificate al mondo, con oltre il 97% delle esportazioni provenienti dal settore degli idrocarburi ed un comparto manifatturiero che, abbandonati gli sforzi di accelerata industrializzazione degli anni settanta, è praticamente scomparso. In questa situazione, il perdurante basso prezzo dell’oro nero sui mercati crea notevoli problemi al governo algerino che, pur accettando pesantissimi passivi di bilancio, è stato infatti costretto a tagliare la spesa statale e a ridurre drasticamente i sussidi anche sui beni di prima necessità.

Questo, data anche la limitatissima legittimità politica del regime ed il crescente malessere da parte di vari settori della popolazione, è stato controbilanciato da un ricorso sempre più massiccio ai mezzi repressivi per prevenire esplosioni sociali che sarebbero difficilmente placabili senza l’ausilio di un’ingente rendita petrolifera come successo nel recente passato. Il restringimento degli spazi di agibilità politica per le opposizioni colpisce il lavoro di alcuni giornalisti indipendenti così come i movimenti sociali. Nel primo caso, quanto successo ad Hassan Bouras è certamente esemplare. Membro della Lega Algerina per la Difesa dei Diritti dell’Uomo (LADDH, l’acronimo francese) ed attivista contro l’utilizzo delle tecniche di fracking per l’estrazione di petrolio e gas di scisto nel Sud del paese, l’uomo è stato arrestato e detenuto senza capi di accusa ad inizio novembre. Sull’altro fronte, la protesta violenta continua ad animare la risposta dal basso di chi non ha alcuna voce nel sistema politico attuale.

Lo scorso 2 dicembre, il tentativo di abbattimento di una struttura illegalmente costruita durante gli anni della guerra civile ha scatenato una reazione di rara violenza da parte dei giovani di Dergana, estrema periferia Est di Algeri. Il bilancio del confronto tra forze di polizia e contestatori parla di una dozzina di arresti e diversi feriti, prima che la calma apparente tornasse a regnare. Nel recente passato, incontrollate esplosioni di collera sociale sono state una costante del panorama politico algerino, ma la loro incapacità di formulare domande politiche più ampie così come l’impossibilità di collegarsi ad un movimento operaio numericamente limitato e scarsamente combattivo sono stati i freni maggiori all’emersione di una reale opposizione sociale. Entrambi i problemi sembrano permanere oggi, anche se le recenti mobilitazioni dei lavoratori SNVI a Rouïba, cuore pulsante dell’industria pesante di Boumedienne, inducono a pensare che nel futuro dell’Algeria ci possa essere altro oltre le lotte di potere tra le varie anime dei militari.

Nella foto di copertina: il presidente dell’Algeria Abdelaziz Bouteflika è gravemente malato in seguito ad un ictus

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