Accordi sul nucleare. Da Teheran agli Usa, a chi fanno comodo i rinvii

Da Reset-Dialogues on Civilizations

È stato infine fissato un nuovo termine per la risoluzione del complesso negoziato nucleare iraniano che vede contrapposto l’Iran ai 5+1 (i rappresentanti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite più la Germania). I negoziati riprenderanno nel mese di dicembre. Si dovrà raggiungere un accordo politico entro il 1° marzo, e tutti i dettagli tecnici dovranno essere confermati entro il 1° luglio 2015. Al contempo Teheran continuerà ad accedere a $700 milioni in beni congelati al mese.

Profonde divergenze hanno minato il raggiungimento di questo accordo. Apparentemente, esse riguardano quattro temi principali: la capacità iraniana di arricchimento dell’uranio; la necessità di chiarezza da parte dell’Iran sulle attività nucleari in ambito militare; la data in cui le sanzioni saranno interrotte; e per quanto tempo l’Iran dovrà essere sottoposto a vincoli sul nucleare essendo la nazione una firmataria del Trattato di non proliferazione.

Tuttavia i reali limiti derivano dalla sbagliata comprensione, reciproca, dei potenziali punti di forza e di debolezza dell’altro. Ognuna delle controparti ha reputato, erroneamente, di essere in una posizione di maggior forza.

A parere degli iraniani gli statunitensi sono “chiaramente” intenzionati a ridurre la propria presenza in Medio Oriente al fine di spostare il baricentro della propria politica estera in Asia Orientale. In più la situazione geopolitica globale degli ultimi anni, sia in relazione alle divergenze tra gli Stati Uniti e la Russia come anche con l’instabilità crescente in Siria e Iraq, ha costretto gli americani a ricercare l’aiuto iraniano per la gestione della sicurezza regionale del Medio Oriente. Ciò avrebbe rafforzato il cosiddetto “Asse della Resistenza”, l’alleanza regionale guidato da Teheran). Di conseguenza il tempo, secondo gli iraniani, giocherebbe a favore dell’ottenimento delle condizioni richieste dall’Iran.

Da parte statunitense invece sono in molti a reputare che le sanzioni, più la minaccia credibile di un intervento militare, siano i migliori strumenti a disposizione della Casa Bianca. A detta di costoro, prima dell’instaurazione dell’accordo provvisorio l’economia iraniana era prossima al collasso con un tasso d’inflazione ufficiale al 40 percento, e reale all’80 percento. Al contempo si reputa che Teheran abbia bisogno di Washington per affrontare lo Stato Islamico e le varie sfide regionali. Per cui un prolungamento dei negoziati porterebbe a un’ulteriore indebolimento dell’economia iraniana che porterebbe Teheran ad accettare le condizioni occidentali e perché no, anche a trovare una soluzione al caso siriano più favorevole agli Stati Uniti. Tuttavia il rinvio espone l’accordo a tutta una serie di azioni di sabotaggio, sia in Iran che negli Stati Uniti.

Il presidente iraniano ha giocato finora buona parte della propria credibilità sulla risoluzione del negoziato nucleare. Il prolungamento lo espone alle critiche degli estremisti che lo accusano di aver concesso molto ottenendo in cambio nulla.

Obama si trova ad avere un sostegno elettorale ai minimi storici, e il Congresso è ora nelle mani dell’opposizione. È prioritaria quindi la necessità di recuperare la propria “base”. Il presidente ha a propria disposizione poche carte. A livello interno qualsiasi azione potrebbe essere fatta fallire da una maggioranza a lui avversa. L’unico ambito in cui può avere delle possibilità è in politica estera. E quale vittoria diplomatica maggiore della risoluzione della più che trentennale “guerra fredda” che vede contrapposti l’Iran all’Occidente?

La nuova maggioranza repubblicana si insedierà al Senato ne mese di gennaio e già da ora in molti minacciano nuove sanzioni contro l’Iran, nonché a ostacolare qualsiasi “concessione” che Washington possa pensare di fare, così “uccidendo” i colloqui.

Il deragliamento dei negoziati avrebbe anche l’indubbio vantaggio di non permettere ad Obama di rivendicare la sua epocale “vittoria” in politica estera che potrebbe permettere ai democratici di vincere la prossima tornata elettorale.

Di conseguenza Obama nei prossimi mesi dovrà rassicurare i propri alleati regionali spaventati dall’ipotesi di una pacificazione con l’Iran, facendo loro comprendere come la loro posizione sia isolata nel contesto di una opinione pubblica internazionale favorevole alla risoluzione della diatriba nucleare e di come un collasso dei colloqui potrebbe portare ulteriore instabilità in tutto il Medio Oriente.

A livello interno dovrà “resistere” alle sferzate repubblicane consapevole della portata storica dell’operazione che sta guidando. Al contempo potrebbe mettere i repubblicani di fronte alla prospettiva della limitatezza di scelte qualora i negoziati fallissero. Nell’ipotesi di un fallimento rimarrebbe solo l’opzione militare e i suoi oppositori al Congresso sarebbero, a quel punto, visti come i fautori di una guerra lunga e sanguinosa.

In Iran la fazione guidata da Rafsanjani e Rohani punterebbe ad ottenere ulteriori posizioni di potere per rafforzare la propria forza contrattuale e diventare più resistente agli attacchi. A marzo si terranno le consultazioni per la presidenza dell’Assemblea degli Esperti. Il posto è vacante dopo la morte dell’Ayatollah Mahdavi Kani e ha una importanza fondamentale nel sistema della Repubblica islamica. Sarà questo organismo a scegliere la prossima Guida Suprema. Qualora Rafsanjani riuscisse a “scippare” la poltrona al favorito di Khamenei, l’ayatollah Mahmoud Shahroudi, avrebbe ottenuto una importantissima posizione nella prospettiva dei futuri giochi di potere iraniani. Inoltre nel breve termine le permetterebbe anche di essere in buona posizione per ottenere una maggioranza alle prossime elezioni parlamentari “blindando” così la presidenza Rohani da attacchi interni al Majlis.

Nella foto: la centrale nucleare di Bushehr in Iran

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