Musulmani contro l’Is.
Un fronte di lotta che conta

Lo Stato Islamico non è l’Islam. A ribadirlo con una veemenza direttamente proporzionale all’escalation di orrore targato ISIS, sono gli stessi musulmani che si riuniscono nelle piazze lastricate delle capitali europee e su quelle digitali dei social network per dire che le atrocità jihadiste non sono compiute in nome della loro fede.

A presentarla come una vera guerra intestina tra i fedeli di una stessa religione è il filosofo francese Bernanrd-Henri Lévy che, dopo essersi schierato dalla parte delle controverse caricature di Maometto sul giornale danese Jyllands-Posten, oggi difende i moderati islamici attraverso un commento pubblicato sul Corriere della Sera.

L’Islam “è diventato un luogo di dibattito, anzi, un campo di battaglia”, scrive Lévy specificando che “di questa battaglia i musulmani sono i primi arbitri. Islam contro Islam. Guerra di appropriazione attorno ai nomi dell’Islam. Lotta ideologica, interna quindi all’Islam, fra chi ritiene che jihad, per esempio, sia un comandamento spirituale e chi una chiamata all’omicidio e alla guerra santa.” Nasce qui la necessità, secondo il filosofo francese, del recupero del ruolo delle moschee e di quelli che chiama i “veri imam” – per distinguerli da quei predicatori che, sui social network, chiamano i giovani della Ummah islamica a imbracciare i fucili per compiere quella che, secondo la loro interpretazione, è la volontà di Allah.

Prendiamo in considerazione uno qualsiasi dei giovani invitati da predicatori improvvisati a raggiungere il migliaio di loro concittadini già partiti per la Siria e l’Iraq. Immaginiamolo tentato dal gruppo che si vuole fondere con il jihadismo, che egli vede formarsi nella propria città o sulle pagine Facebook e ripetono che essere musulmani significa dare la caccia agli ebrei, ai cristiani, agli yazidi e agli sciiti. Ebbene, è di importanza capitale che egli ascolti da veri imam che il Corano non è questo. È decisivo che abbia davanti a sé l’immagine di altri gruppi che testimonino che l’Islam è una religione di fratellanza e di pace. È essenziale che all’idea di Islam predicata dalla nuova setta di assassini si opponga un’altra idea, sostenuta da voci più potenti, forti di tale potenza, atte a screditare i sostenitori della prima idea.

Ma su queste stesse piazze digitali, sono sempre i giovani musulmani a dire che no, l’orrore dell’ISIS non è quello dell’Islam. Lo fanno i ragazzi dai tratti mediorientali così come le ragazze col velo, brandendo in mano dei cartelli con la scritta #NotInMyName e scattandosi foto da far circolare sui social network per ribadire la condanna alle atrocità dei jihadisti e sottolineare che non si riconoscono nelle motivazioni delle orribili gesta di cui spregevolmente si vanta l’autoproclamatosi Stato Islamico.

La mobilitazione online, nata dalla Fondazione britannica Active Change, ha avuto il beneplacito pubblico perfino dal presidente americano. “Prendete i giovani musulmani inglesi che hanno risposto alla propaganda terroristica dando il via alla campagna Not In My Name e dichiarando che ‘l’ISIS si nasconde dietro un falso Islam’” – ha detto Barack Obama durante il suo discorso alle Nazioni Unite, con riferimento esplicito alla campagna dell’ong londinese. Parole, quelle del presidente americano, che pur nella loro efficacia mediatica hanno svegliato alcune voci critiche. Tra queste, Richard Amesbury, direttore dell’Istituto di Etica Sociale dell’Università di Zurigo, che nel Bulletin des Zentrums für Religion, Wirtschaft und Politik si chiede “in nome di chi parla Obama, presidente di un paese la cui costituzione ha da sempre proibito al governo di interferire nelle questioni religiose, quando entra nel merito di ciò che costituisce l’Islam o la religione. Per caso, oltre a essere comandante supremo è anche teologo supremo?” “La lotta contro l’ISIS è, tra le altre cose, una lotta sulle definizioni, il che implica una lotta tra le autorità per il controllo dei significati. Il campo di battaglia è quello aperto dei social network. L’ISIS è islamico? Quella in ballo non è una domanda di ordine fattuale ma normativo e con implicazioni politiche globali.”

Il video della campagna #NotInMyName

Dai social network alle piazze reali, non meno universale rispetto alla mobilitazione digitale di #NotInMyName, si è rivelata quella “analogica” chiamata dal presidente del Consiglio centrale dei musulmani in Germania, Aiman Mazyek. Il leader islamico è stato infatti promotore, attraverso le duemila moschee sparse nel territorio tedesco, di una “giornata di lotta” contro l’ISIS, che ha riunito i tedeschi di ogni religione e di ogni città – da Berlino a Amburgo, passando per Hannover e Monaco. “Vogliamo chiarire che i terroristi e i criminali non parlano a nome dell’Islam, che calpestano i comandamenti del Corano e che non c’è posto per gli assassini e i criminali nella nostra religione” – dichiarava Mazyek annunciando il raduno “contro l’odio e l’ingiustizia”. Un’iniziativa lanciata non a caso di venerdì e che nello stesso giorno – benché in dimensioni molto ridotte – si ripeteva anche fuori dalla moschea di Roma, con i cartelli dei fedeli a ribadire che “ISIS non è Islam”. Un motto a cui però qualche musulmano si ribella. È il caso dell’inglese Mehreen Faruqi , portavoce dei Verdi sui temi del multiculturalismo, che è intervenuta sulla questione dalla pagine del Guardian. “Nessuno nega che i video delle decapitazioni dei giornalisti da parte dell’ISIS e le continue notizie dei massacri sono estremamente dolorosi, che chiedono risposte forti e ci chiamano all’azione. Ma perché un’intera comunità dovrebbe essere costretta a scusarsi o prendere le distanze da azioni deprecabili alle quali non hanno preso parte?”. Questo è l’interrogativo posto sul piatto dalla politica inglese che sottolinea come “aspettarsi delle scuse implica due cose: che i musulmani, che sono più di un miliardo nel mondo, sono generalmente un gruppo omogeneo; e che non siamo davvero accettati come parte della società occidentale”.

La questione allora, tornando al commento di Lévy, pare essere di natura prettamente politica. Perché – come ha specificato l’intellettuale francese – separare l’Islam buono da quello cattivo, “non significa offendere i musulmani, ma onorarli. […] Non significa fare «comunitarismo», ma fare, o rifare, politica: la vera politica, che traccia linee di demarcazione all’interno delle formazioni ideologiche al cui proposito i nostri maestri ci insegnavano che si ha sempre ragione nel farvi passare il filo che separa i due eterni partiti dell’inumanità e del vivere insieme.”

“È l’occasione, adesso,” – conclude Lévy – “di esaminare la malattia dell’Islam di cui parla da vent’anni Abdelwahab Meddeb. Le tragedie a catena, il grande ciclone planetario dove volteggiano alcune fra le parole dell’Islam: forse tutto questo sarà, per coloro che tengono a tali parole come alla loro fede più intima, il punto di partenza di una lunga e bella marcia al termine della quale la terza religione del Libro si libererà, anch’essa, della parte oscura di sé.”

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