“Dovrebbe esserci un Pulitzer per le infografiche”

Sarebbe giusto assegnare un premio anche alle infografiche. “Ci vorrebbe un Pulitzer”. Parola di uno che di numeri e grafici se ne intende, eccome. A dirlo è stato infatti Nate Silver, statistico americano che con le sue previsioni azzeccò i risultati elettorali di 50 su 50 Stati, annunciando la vittoria di Obama ben prima degli scrutini. Durante un AMA (Ask Me Anything) sul social network Reddit, il giovane blogger e statistico ha scritto: “I ragazzi del New York Times sono davvero i migliori in questo. Anche perché sono dei veri giornalisti oltre a essere programmatori e/o grafici: l’obiettivo è comunicare un’informazione complessa in maniera chiara e accurata, e non solo fare qualcosa di carino. Dovrebbe esserci una categoria del Pulitzer per questa roba”. D’accordo con lui, The Atlantic che spiega che sì, c’è già un premio per il giornalismo esplicativo, ma che dovrebbe essercene uno a parte per il giornalismo che spiega la realtà semplificandola con grafici e disegni.

La crisi economica e la disoccupazione nell’Occidente sono problemi che impallidiscono di fronte alla povertà, alla violenza e alla mancanza di libertà dei Paesi del Sud del mondo. Ce lo ricorda un’infografica, pubblicata sul sito del Washington Post, che disegna la mappa dei Paesi dove è meglio – e peggio – nascere. I più fortunati? I bambini di Svizzera, Australia e Norvegia. Mentre Nigeria, Kenya e Ucraina, colorati in rosso acceso, sono i Paesi che si piazzano in fondo alla classifica. La Cina, nonostante il boom e il netto miglioramento delle condizioni di vita, continua a posizionarsi sotto la media, 49esima su 80.

Invece, sul sito dell’americano Enliven Project, campagna di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne, un’altra infografica interessante – e triste, come l’ha definita il Washington Post – mostra dei numeri agghiaccianti sugli stupri: solo in 100 casi su mille le donne riescono a vincere la paura e denunciano il loro violentatore – e, tra questi, solo il 10% finisce dietro le sbarre. (2 su 1000 sono invece i casi di uomini falsamente accusati). L’infografica è diventata virale nel giro di poche ore, ma baratta la sua incisività con la chiarezza. A pensarla così è Amanda Marcotte che, in un post pubblicato su Slate.com, puntualizza alcune esagerazioni all’interno del grafico.

 

Il conservatorismo? Una questione di marketing

Un simposio di conservatori americani si interroga sul futuro della destra. Tra gli interventi pubblicati all’interno della rivista Commentary, – alcuni molto duri, come quello di Bret Stephens che ammette: “Mi accontenterei semplicemente di essere meno frequentemente imbarazzato dal partito a cui appartengo”, ce n’è uno firmato da Jonah Goldberg che mostra il conservatorismo come una questione di marketing. Certo, non sarà facile – premette Goldberg citando cambiamenti demografici e crisi economica tra i fattori che minano il domani dei conservatori . ma il conservatorismo non morirà. “C’è un fattore che non è stato ancora adeguatamente discusso: il tramontare del marchio libertario del conservatorismo”.

Addio, Welfare State

Elogio (funebre) del Guardian che annuncia la morte del Welfare State “dopo decenni di malattia pubblica”. A determinare il trapasso, la recente firma di David Cameron al provvedimento sui tagli ai fondi di assistenza che colpisce milioni e milioni di famiglie inglesi. “E’ pacificamente scomparso lunedì 7 gennaio, poche settimane dopo aver compiuto il suo 70esimo compleanno. Negli anni, il sistema aveva sofferto di numerosi attacchi”, continua il commento firmato da Aditya Chakrabortty e caratterizzato da un filo di ironia british. “I Labouristi sono caduti nella trappola del Welfare, ma David Cameron non gongoli”, ammonisce Benedict Brogan sul Telegraph. E, sullo stesso sito, uno schieratissimo Dan Hodges titola: “La disputa è conclusa: ha vinto Cameron, ha perso Milliband”, paragonando il dibattito sul Welfare State a un incontro di boxe finito con la spugna dei Labour gettata in mezzo al ring.

Lo sviluppo è digitale

Da Farmerbook (il social media che permette ai contadini indiani di promuovere la propria attività) a Catapult (la piattaforma di crowdsourcing di fondi da destinare alle donne del Terzo mondo), passando per I paid a bribe (attivo in Kenya come in Pakistan per unire le forze e combattere tutti insieme la corruzione). Sono solo tre delle applicazioni e link passati in rassegna dal blog Poverty Matters – ospitato dal sito del Guardian – tra le soluzioni social per dare una mano ai Paesi in via di sviluppo.

E sul sito dell’americana Npr, viene pubblicata un’interessante storia di emancipazione femminile attraverso i nuovi media. “Le donne keniote si creano una propria cultura geek” racconta la nascita di Akirachix, club di sole donne programmatrici informatiche con il doppio scopo di superare il gender gap e portare il Kenya fuori dalla povertà.

Amore (universale) e divorzio nel 2013

Le feste di Natale sono finite: addio empatia e buone azioni verso il prossimo. Partendo da qui, Stephen Asma sull’Opinionator del New York Times, si sofferma su “Il mito dell’amore universale” e cita Peter Singer e James Rifkin, Cicerone e Orwell per arrivare alla conclusione che “non si può amare l’umanità, solo le persone”.

Mentre sull’ edizione americana dell’ Huffington Post, Laura Doyle, sedicente esperta di affari familiari, ha inaugurato il 2013 riprendendo le donne attraverso un post intitolato: “Cinque motivi perché il divorzio è colpa vostra”. Un post pieno di stereotipi, secondo Lynn Parramore che su Salon.com risponde con l’articolo – inizialmente pubblicato su Alternet – “L’America deve smetterla di incolpare le donne per il divorzio”.

E, a proposito di donne, l’ultimo numero di Dissent magazine dedica un’intera sezione al “New Feminism”. Qui, l’introduzione.

 

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