C’è un’opa del Tea Party sui Repubblicani?

La battaglia per lo shutdown ha fatto emergere le crepe all’interno del partito, rendendo palese la perdita del controllo della leadership su alcuni membri del Congresso – oltre all’insoddisfazione della base nei confronti della leadership stessa: anche, ma non solo, per questo potremmo presto assistere alla morte del partito repubblicano americano. A porre la questione in termini così drastici è John B. Judis dalle pagine online di The New Republic, citando pure un editoriale di Tom Edsall sul New York Times e due recenti sondaggi del Pew: quello che, a fine settembre, ha registrato che la rabbia nei confronti del governo è “più palpabile tra i conservatori repubblicani”, accavallandosi con i repubblicani che “sostengono il Tea Party”; e quello secondo il quale il 65% dei repubblicani che hanno votato alle primarie, disapprovano i propri leader al Congresso. E che il dibattito sulla mancata approvazione del bilancio abbia danneggiato il GOP è il risultato anche del sondaggio della NBC/WSJ che parla di “effetto boomerang” per i Repubblicani.

Ma c’è chi, come Tim Carney, è pronto a dare una chance alla destra americana – almeno nel prossimo appuntamento elettorale che deciderà il nuovo sindaco della città di New York. Dal punto di vista del commentatore del Washington Examiner, alcuni repubblicani dimostrerebbero di aver tratto la lezione dalla débacle presidenziale di Mitt Romney – e soprattutto dal disastroso discorso sul 47% di americani che non lo avrebbe mai votato – e capito che bisogna un po’ starci dalla parte della gente. Una presa di coscienza che non toglie il punto interrogativo dal titolo “I Repubblicani possono essere il partito del popolo?”.

Sempre a proposito di interrogativi esistenziali sul GOP, c’è chi cerca la definizione di un partito a rischio estinzione con la dialettica della negazione. “I Repubblicani non sono più il partito dei padri”, titola Josh Barro per Business Insider recuperando e rovesciando la metafora del “paterno” Gop e dei democrats “mamme hippie ed isteriche”. “Il freno del babbo è quello che impedisce al governo di affossare l’economia quando tenta di dare cose carine al pubblico. Adesso però che il babbo è ubriaco e picchia i propri figli è tempo per l’economia di supportare la mamma”.

Infine, su Salon, Avi Tuschman propone di risolvere i dubbi esistenziali con ironiche teorie prese in prestito alla neuroscienza, in questo pezzo dal titolo “Dentro al cervello conservativo – La neuroscienza può aiutarci a comprendere i più strani degli uccelli: i moderni conservatori. Loro sì che pensano differente”. Una maniera pungente ed edulcorata per esprimere il concetto, ben più diretto del capo della Fed Ben Bernanke: “Repubblicani, smettetela di fare gli stupidi!”

Colonialismo, sogni e incubi cinesi

Parte dal rischio default che pesa sugli Stati Uniti anche l’uscita dell’agenzia d’informazione cinese Xinhua che ha dichiarato maturi i tempi per una de-Americanizzazione del mondo. Un intervento che pesa come un macigno, provenendo da chi tiene il fiato sul collo agli Stati Uniti, pronto a strappargli di mano non appena sarà possibile, lo scettro di prima potenza economica mondiale. Anche perché la Cina avanza a passi lunghi e decisi verso il colonialismo dell’Occidente, come dimostrano i grafici pubblicati sul sito della Bbc, in un articolo di respiro ben più globale rispetto a quello suggerito dal titolo: “Cosa possiede la Cina in Gran Bretagna”. E a circa un anno dal discorso di Xi Jinping che incitava a seguire il “sogno cinese”, sulla New York Review of Books, Ian Johnson presenta e spiega la propaganda cinese pensata proprio per diffondere l’esortazione della Cina a perseguire i propri ideali – diametralmente opposti a quelli del pure polveroso ma forse non più così di moda sogno americano. E a proposito di sogni, incubi e propaganda, Jeffrey Wasserstrom su The China Story ripercorre la nascita e la crescita della schizofrenia occidentale che non riesce a immaginare il suo “sogno cinese” (comprano le nostre cose), senza preoccuparsi per il suo “incubo cinese” (sono troppo differenti da noi. E soprattutto, sono troppi.)

Immigrazione in Europa

Numeri sull’immigrazione vengono presentati da The Telegraph nell’articolo intitolato “La vera dimensione dell’immigrazione europea”. The Independent parla invece di “un disastro alla settimana”, chiedendosi se nessuno abbia un’idea su come arginare la corrente umana che sta trasformando il Mediterraneo nel cimitero dei migranti. Una domanda al limite del retorico che l’autrice Charlotte McDonald-Gibson rivolge all’Europa intera – sottolineando, non senza biasimo, che a partire “dalla tragedia di Lampedusa, nessuna nazione europea si è resa volontaria”. E dell’avviso che il dramma consumatosi nei primi giorni di ottobre al largo delle coste siciliane, sia una “tragedia europea”, è pure Nando Sigona, ricercatore italiano presso l’università di Birmingham, che all’interno del portale della London School of Economics spiega perché dovrebbe essere una priorità europea avviare il processo per dare asilo a chi lo chiede.

Tutti pezzi che chiamano l’Europa all’azione ma ai quali gli europei sembrano aver preventivamente risposto picche, come dimostra l’infografica sul sito di Sky News, incentrata sull’avanzare dei partiti xenofobi in Europa. Una prospettiva inasprita dall’ analisi della Reuters sull’insufficienza di sinistra nella sinistra europea.

Creatività e social network

“Dovremmo scrivere (e far scrivere) di più”. Nello “scrivere” dell’esortazione di Craig Hildebrand-Burke su Momentum non c’è solo l’atto vero e proprio della scrittura. Il senso del pezzo è semmai che stiamo diventando una società che emargina la creatività, spingendo sempre più ai confini della vita e delle relazioni sociali la fantasia e l’arte. Anche perché, a ben vedere, di scrittura ne produciamo tutti in un quantitativo che pare non avere precedenti nella storia. Il merito sembra essere soprattutto del frequentatissimo Web 2.0. Per averne un’idea basta il titolo di questo pezzo di Quartz – “Il 98% dei giovani Americani è su Internet” – che, partendo dalla ricerca del Pew Research Center, analizza i reticenti della Rete specificando “Chi non è online e perché”. E un altro studio che ha avuto molta risonanza è stato quello presentato da Elliot Panek sul blog accademico The Conversation. “Il narcisismo sui social media dice molto di noi”, titola il post – ad esempio, ci dice che i narcisi di mezz’età preferisco Facebook e quelli più giovani Twitter, come ha sintetizzato Slate. Niente di nuovo comunque, come Tom Standage digital editor dell’Economist, ha rivelato nel suo libro Writing on the Wall: Social Media – The First 2,000 Years (di cui ha parlato, tra gli altri, The Guardian) – il che, tornando alla creatività, fa ripensare la posizione di Hildebrand-Burke. Soprattutto a fronte di quanto stanato da Maria Popova, che sul suo seguitissimo blog Brain Pickings dimostra come l’arte o la poesia siano nascoste dietro ogni angolo del Web, persino tra le recensioni di scarpette, detersivi e perfino fili interdentali comprati su Amazon.

Arte e cultura

Steven Spielberg, contro una Hollywood ostaggio dei blockbuster, drogata di sequel, prequel e film “in franchinsing”, prevede l’implosione del mercato, con cinque o sei film a mandare avanti la più grande industria del cinema mondiale e il resto delle creazioni a traino. Ma il futuro che preoccupa il regista è già presente, come rivela lo studio di Anita Elberse della Harvard Business School, che denuncia le falle della teoria della coda lunga, pensata da Chris Anderson nei primi anni della web 2.0 economy: altro che mercati di nicchia a bilanciare grazie alla rete i guadagni di contati successi di massa – l’economia è ancora (e rimarrà) in mano ai blockbusters.

Ma passando dai bits ai mattoni di New York City, emerge quello che il NYT chiama il “paradosso culturale della New York del XXI secolo”, in un commento che prende spunto da un intervento di David Byrne. “Un poco alla volta, le risorse che mantengono la città vibrante vengono eliminate”, scrive il musicista che bolla come“cavolate” i discorsi sugli effetti positivi della crescente diseguaglianza sociale, del crimine e della povertà, sull’arte – e denuncia la “cultura dell’arroganza, dell’ hubris e del winner-take-all”: “New York può cambiare rotta, diventare più inclusiva e finanziariamente egualitaria?… Davvero potrebbe essere un modello di come dar vita a una grande città, economicamente sostenibile e creativamente energetica. Io voglio vivere in quella città.”

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