Nel segreto dell’urna. Oggi il primo voto per il Quirinale.

Il Corriere della Sera. “Intesa su Marini, ma il Pd è spaccato. Proposta di Bersani, sì di Berlusconi. Renzi: votarlo è un dispetto per il Paese. Da oggi si decide per il Quirinale. Sel si dissocia, solo metà dei Democratici a favore. Scelta civica divisa. M5S punta su Rodotà”. A centro pagina: “Identificato l’attentatore della maratona di Boston”, “lettera al veleno a Obama”.

 

La Repubblica: “Bersani candida Marini, si spacca il Pd. Intesa con Berlusconi sul Quirinale. Renzi: non lo votiamo, meglio Rodotà. Grillo: si suicidano. Assemblea di fuoco dei parlamentari democratici: 222 con il segretario, 90 contro. Anche Vendola si sfila. Il leader Pdl: è la soluzione migliore. Oggi i primi due scrutini”. A centro pagina: “Lettera al veleno per Obama, bocciata la legge anti-armi”.

 

La Stampa: “Marini presidente, intesa a rischio”. “La proposta Bersani spacca il Pd, solo 222 sì su 424. Renzi: non lo votiamo, lo vedete con Obama? Vendola: se passa adddio coalizione. Sel potrebbe convergere con i grillini sul nome di Rodotà”. A centro pagina: “Il sospetto di Boston ripreso in un video”.

 

Il Giornale: “Marini presidente. Accordo Bersani-Berlusconi, ma Renzi &C spaccano il Pd: elezioni a rischio. Grillo punta su Rodotà”.

 

L’Unità: “Bersani: sì a Marini. Scontro nel Pd”. A centro pagina: “Renzi contro: è il peggio, noi non lo voteremo”.

 

Libero: “Bersani marinato. Il segretario trova l’intesa con Berlusconi per spedire sul Colle l’ex sindacalista, ma mezzo partito si ribella e l’alleato Vendola si sfila. E il voto di oggi rischia di essere la sua Caporetto”.

 

Il Fatto quotidiano: “B&B, inciucio sul Colle. Marini, rivolta nel Pd”. A centro pagina: “Rodotà, l’offerta di Grillo, ma Bersani la butta via”.

 

Quirinale

 

Secondo Giuliano Ferrara, che firma l’editoriale in prima pagina sul Foglio, Marini è “una specie di anti Prodi con spinte caratteriali anche forti ma non risentite o vendicaive. E’ un po’ una pecetta, non ha uno standing internazionale persuasivo, non è la cura da cavallo che a molti sembra necesaria, ma è anche un tipo dignitoso, low profile, che non solleva tremende obiezioni se non negli ambienti che tentano la scalata al Colle in nome di confusi progetti di palingenesi valoriale e di folli prospettive di assalto al primato e alla serietà della politica, cavalcando una tigre demagogica spesso del tutto irragionevole e guidata solo dall’istinto di uccidere l’Arcinemico”.

In una analisi su La Stampa Federico Geremicca spiega che a fronte di 672 voti necessari, Marini dispone sulla carta di 739 voti. Ma sulla carta, appunto. Il margine di vantaggio è esiguo: una settantina di voti scarsi. E considerato che i renziani, parte dei giovani turchi, i prodiani e perfino molti veltroniani potrebbero non votare per Marini, si vede bene come la partita sia ad altissimo rischio per il candidato presidente e per l’intero stato maggiore del Pd. Del resto, sottolinea Geremicca, se ne èavuta una avvisaglia già ieri sera, nel voto con cui i grandi elettori del Partito democratico hanno dato il via libera a Marini: solo 222 i sì, 90 i no, molti assenti e molti astenuti.

La Repubblica scrive che mancavano all’appello 160 parlamentari, e commenta che sono sufficienti a far saltare l’intesa, quando oggi si comincerà a votare: “Tra astenuti, contrari e assenti il segretario perde il controllo dei gruppi parlamentari”. Il quotidiano scrive che Bersani aveva lavorato tutto il giorno sul nome di Sergio Mattarella, ma non ce l’ha fatta, ha gettato la spugna, Berlusconi ha posto il veto. Ed è spuntato Marini”. La portavoce di Prodi, Sandra Zampa, dice: “E’ un suicidio. Neanche assistito”. Il quotidiano descrive una “drammatica assemblea assediata dai militanti”, visto che fuori dal cinema in cui si riunivano i grandi elettori del Pd i manifestanti gridavano “traditori”.

Sulla prima pagina de La Repubblica Massimo Giannini boccia quello adottato da Bersani come “il metodo sbagliato”: se nel merito, Marini merita il massimo rispetto, nel metodo Bersani aveva di fronte a sé una strada maestra, che non ha imboccato. Spiega Giannini che il segretario Pd “da vincitore virtuale delle elezioni, aveva il diritto-dovere di fare un nome degno, di sicura sensibilità istituzionale e costituzionale, individuato preferibilmente al di fuori della nomenklatura di partito”. Invece Bersani, “con una sorprendente rinuncia all’esercizio della leadership, ha inopinatamente consegnato la decisione finale nelel mani di Berlusconi, sottoponendogli non un nome ma una rosa, così il Cavaliere ha potuto scegliere la soluzione più vantaggiosa, lucrando una golden share sul settennato impropria e immeritata rispetto ai numeri e ai rapporti di forza tra i due poli”. A Marini Massimo Giannini riconosce sicuramente competenza, ma sottolinea che “in tutta onestà” non si può affermare che rappresenti il “cambiamento”. Più avanti scrive: “La candidatura di Stefano Rodotà, inventata ad arte dall’ex comico (Grillo) apriva e forse aprirebbe ancora un terreno nuovo (e non banalmente ‘nuovista’ in stile Milena Gabanelli) che il Pd avrebbe potuto utilmente esplorare. O ‘appropriandosi per tempo di quello stesso candidato’, che è un fior di costituzionalista ed è stato a suo tempo presidente del Pds, o proponendo un candidato simile, come ad esempio Sabino Cassese, a sua volta simbolo di quel rinnovamento sul quale si fondano le istanze della società civile e di una larghissima fetta dell’elettorato della sinistra, riformista o radicale che sia”.

 

Secondo L’Unità “il partito di Prodi scalda i motori”, perché – se Marini non dovesse farcela stamattina alla prima votazione – i sostenitori dell’ex premier si rimetterebbero in moto. “Renzi non ha mai fatto mistero delle sue preferenze per Prodi, e ieri la sua fedelissima Simona Bonafè ricordava che ‘moltissimi di noi hanno iniziato a fare politica negli anni novanta, proprio nei Comitati Prodi e nell’Ulivo”.

 

Sullo stesso quotidiano si raccontano le tensioni alla riunione Pd di ieri sera al Teatro Capranica a Roma. All’annuncio di Bersani, mentre Renzi su La 7 dice che “Marini è il candidato del secolo scorso, e che votarlo ‘è come fare un dispetto alla gente’”, Sandra Zampa, prodiana, twitta: “Non voterò mai Franco Marini. E’ l’uomo che ha distrutto il governo ulivista, il governo più amato degli ultimi venti anni”. Rosy Bindi, che secondo il quotidiano ha sperato che il nome a sorpresa fosse Prodi, commenta: “Se Marini fosse il presidente delle larghe intese, non sarebbe il mio Presidente”.

 

In Tv Renzi ha invitato i suoi a non fare “i franchi tiratori”, ma a dichiarare apertamente che non voteranno il candidato del Pd. Nichi Vendola ha rinviato a questa mattina la riunione con i suoi per decidere cosa fare, ma l’orientamento è seguire più l’opinione pubblica e la base che le indicazioni di Bersani: votare Rodotà, proprio come Grillo, come farebbero i renziani, Civati, Puppato, “e a questo punto vai a capire quanti altri”. IL Corriere della Sera, dando conto dello “strappo di Renzi”, ne riferisce ancora le parole, pronunciate ieri a La 7 sulla candidatura Marini: “E’ uno schiaffo agli elettori, e un dispetto al Paese. Meglio Bonino, Prodi, Amato e Rodotà di Marini. La verità è che Bersani ha come primo interesse quello di sistemarsi a Palazzo Chigi e fa tutto in questa funzione”.

La Stampa parte dai numeri certi nelle votazioni che iniziano oggi (le prime tre richiedono la maggioranza dei due terzi): il no della truppa di Matteo Renzi vale 51 voti, quello di Nichi Vendola altri 47, la Lega ha annunciato che alle prime tre votazioni voterà la sua Manuela Del Lago e quindi sono altre 39 schede in meno. Non voteranno per Marini i grillini (164 voti). Nel Pd contrati i prodiani (almeno 3), i veltroniani (una decina), i parlamentari vicini a Pippo Civati e un pezzo dei ‘giovani turchi. Non voteranno per Marini Debora Serracchiani e Marianna Madia, Bruno Tabacci, Walter Tocci e Walter Verini, il candidato sindaco di Roma Ignazio Marini. Neanche il presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta voterà per Marini. In dubbio il voto del ‘dalemiano’ Matteo Orfini. Ci si interroga poi sul comportamento dei vendoliani: voteranno compatti per Rodotà o, in ossequio all’alleanza, si allineerà con i desiderata della Cgil di Susanna Camusso e voterà obtorto collo per Marini? Poi ci sono i mal di pancia nel centrodestra: quelli dei parlamentari di Fratelli d’Italia (9 tra Camera e Senato) e dell’ala più dura del Pdl. Questa mattina si riuniranno poi i montiani, e alcune defezioni sono già sicure, come quella di Edoardo Nesi (“Io Marini non lo voto”). Forti dubbi del ‘montezemoliano’ Andrea Romano (“Votare Marini? Che almeno sia Valeria…ho molte perplessità su una scelta non abbastanza innovativa”).

 

Su La Repubblica il direttore di Reset Giancarlo Bosetti sottolinea come la paralisi seguita alle elezioni sia la diretta conseguenza di scelte degli elettori che si sono lasciati conquistare da leadership indecise, pigre, illusioniste ed evasive: e gli illusionismi sono stati presenti in tutti e tre i settori dello schieramento politico, centrosinistra, centrodestra e 5Stelle. “Le tre minoranze, vincenti/perdenti, hanno variamente eluso il problema delle riforme radicali (dolorose, ma cariche di futuro migliore) che sono necessarie per portarci strutturalmente fuori dalla recessione”, scrive Bosetti, evidenziando come gli italiani non vogliano cambiare, “o meglio vorrebbero, ma senza pagarne il prezzo”. Fortunatamente, al momento opportuno, qualcuno ha provveduto a rimettere in circolazione il “principio di realtà”: è stato il Quirinale, una istituzione “che non a caso è nelle mani di un Presidente che non viene votato direttamente dal popolo sovrano, ma è il frutto di una elezione di secondo grado”. Il principio di realtà, “nonostante le debolezze del sistema politico, ha avuto sul Colle il suo presidio. Ora che il Parlamento deve eleggere il nuovo inquilino, approfittiamo della imperdibile occasione di una elezione secondo grado”.

Stefano Menichini, direttore di Europa, racconta che fin dal pomeriggio di ieri, quando è diffuso il nome di Franco Marini, “la rete è impazzita di rabbia” perché in maggioranza avrebbero preferito candidati più popolari, da Bonino a Rodotà: “A costo di andare contro vento, occorre ricordare che la Costituzione, non prevedendo l’elezione diretta del capo dello stato, ha escluso che la simpatia popolare dovesse essere un fatto decisivo per l’elezione del rappresentante della unità nazionale”. Menichini si sofferma anche sul ruolo di Renzi e sul rischio che il Pd si divida: Renzi è alla sua prima, vera, grande prova, scrive Menichini, e sottolinea che “più che votare o non votare Marini, più che accarezzare la tentazione di cavalcare lo scontento, gli converrà garantirsi rispetto al pericolo che lo teme di più: che una soluzione Marini sia una formula per allontanare le elezioni e, nel tempo, farlo fuori dalla competizione per la leadership. Sarebbe ingiusto scaricare questo sospetto su Marini, nonostante le ruggini tra i due: chi sale al Quirinale si trasforma, non può fare scelte partigiane in favore di chi lo ha eletto. Matteo Renzi ha tutto lo spazio, il tempo e la forza per far valere in ogni caso il diritto a giocarsi la prossima partita contro Berlusconi.

 

Sullo stesso quotidiano, segnaliamo una analisi di Mauro Buonocore ed Alessandro Lanni dedicata alle “quirinarie” del Movimento 5 Stelle: sarà un caso – si chiedono – che i primi due arrivati, ovvero Milena Gabanelli e Gino Strada, hanno preferito rinunciare alla candidatura? Non sarà che un meccanismo di democrazia diretta come quello del M5S non aiuta a scegliere il meglio e l’adeguato? Il rischio è quello di confondere la tecnica con il fine, come se l’obiettivo non fosse quello di produrre scelte migliori, in quanto riflettute e condivise, ma di esibire la partecipazione come una buona pratica a prescindere dai risultati: di democrazia deliberativa, nei tentativi a 5 Stelle, non se ne vede nemmeno l’ombra”. Perché “democrazia deliberativa” e “democrazia diretta” non sono sinonimi. Non si tratta di aprire semplicemente il microfono o mandare una mail, nella democrazia deliberativa “il focus è sul processo e non sul risultato”.

“Deliberation è in lingua inglese il momento della discussione che precede la decisione”.

 

Internazionale

 

La Repubblica scrive che, a poche ore dall’attentato di Boston, un’altra offenisva terroristica era in corso, e puntava in alto: al presidente Usa in persona. Per la prima volta Obama è stato oggetto di una minaccia così diretta: l’attentato viaggiava in una lettera che racchiudeva ricina, proteina che può provocare la morte a dosi anche minime. Secondo Fox News, un messaggio accompagnava la lettera: “Veder un torto e non denunciarlo vuol dire diventare un complice silenzioso della sua continuazione. Io sono KC e approvo questo messaggio”. Il testo accompagnava tanto la lettera ad Obama che quella al senatore repubblicano del Mississipi Roger Wicker. E il quotidiano ricorda che Wicker era uno dei senatori repubblicani accusati di aver ‘Tradito’ la potente lobby delle armi, la National Rifle Association. I voto è stato coraggioso, ma inutile, perché è sfumata la maggioranza bipartisan che avrebbe dovuto far passare la legge che introduce i controlli sulle vendite di armi. L’Fbi ieri, però, non ha voluto stabilire un collegamento tra l’attentato di Boston e il terrore che viaggia per posta. Su La Stampa: “Armi, il Senato vota contro. Il Presidente: vergognoso”. Scrive l’inviato a New York che è una sconfitta cocente per Obama il voto con cui ieri sera il Senato ha bloccato tutte le iniziative per bloccare il commercio di armi in America, ed è una conferma per la lobby dei produttori, la National Rifle Association, e un segno di impotenza per chi vuole approvare misure di buonsenso. Il commento di Obama: “un giorno vergognoso per Washington”. La misura più significativa di una intesa bipartisan era un emendamento proposto dal senatore Dem della West Virginia, Joe Manchin, e dal collega Rep della Pennsylvania, Pat Toomey, che aveva lo scopo di aumentare i “background check”, ovvero i controlli dei precedenti penali sulle persone che vogliono acquistare armi. Neanche questo emendament è riuscito a raccogliere la maggioranza necessaria di 60 voti. Il testo ha ottenuto 54 sì e 46 no, compresi quelli di 4 senatori Dem. Obama ha accusato: “La lobby delle armi e i suoi alleati hanno mentito”, eppure tanto i Rep quanto i Dem “hanno ceduto alla pressione di una minoranza che parla a voce molto alta. Non esiste un argomento coerente per spiegare perché hanno approvato queste misure. E’ solo politica”. Nella galleria del Senato erano presenti anche i genitori di alcuni bimbi uccisi a Newtown. Dopo il voto negativo, Patricia Maisch, che nel 2011 a Tucson aveva disarmato l’uomo che aveva sparato alla deputata Gabrielle Giffords, si è alzata in piedi e ha gridato: “Vergognatevi”. E la Gifford, su Twitter: “Il Senato ha ignorato la volontà del popolo”.

 

E poi

 

Alle pagine R2 de La Repubblica i lettori troveranno una intervista al politologo francese Gilles Kepel, del quale in questi giorni Gallimard pubblica un libro dal titolo “Passion arabe”.

E’ la sua esperienza nei Paesi toccati dalle Primavere. Dice che “le rivoluzioni arabe non sono ancora finite”, e i loro protagonisti non hanno ancora pronunciato l’ultima parola. Le società civili cominciano a farsi sentire contro l’intransigenza degli islamisti. Oggi si balla ovunque l’Harlem Shake per ridicolizzare i barbuti. In Egitto e in Tunisia i Fratelli Musulmani hanno creduto, sbagliando, che l’ordine morale avrebbe appagato le rivendicazioni sociali dei rivoluzionari. C’è poi il paradosso dei salafiti, che si rivolgono ai delusi, promettendo una utopia radicale e un nuovo ordine sociale. Senza dire che sono loro stessi devoti a quegli ulema stipendiati dalle monarchie del Golfo, le quali difendono l’immobilismo più totale”.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *