Siria. “La felicità araba”: storia di una nazione e di una famiglia

Da Reset-Dialogues on Civilizations

“Chiedi a un siriano, anche se lo incontri a Chicago o a Madrid, chiedigli com’è cambiata la sua vita, e comunque la pensi ti dirà che non è felice. Oggi abbiamo paura che la nostra infelicità si trasformi in odio e separi fratello da sorella, moglie da marito, vicini dagli altri vicini, perché la morte, se la si affronta da soli, a volte distrugge”.

Un timore che forse si è già realizzato. La guerra siriana, come tutte le guerre fratricide, si è trasformata già in distruzione, separazione, solitudine. Ma una speranza c’è. È quella che Shady Hamadi, scrittore e attivista per i diritti umani, traccia nel suo “La felicità araba”.

Da poco nelle librerie, l’opera dell’autore italo-siriano è una risposta a quell’ infelicità araba, quasi ineluttabile, eppure non completamente inevitabile di cui parlava già nel 2004 Samir Kassir nel testo omonimo (tradotto da Einaudi nel 2006). L’intellettuale siriano-palestinese, che nel 2005 sarebbe stato ucciso a Beirut da un’autobomba, nel periodo della nuova instabilità libanese, scriveva le“Considérations sur le malheur arabe” chiedendosi “come si è arrivati al marasma odierno” che “sortisce l’effetto di far credere agli arabi di non avere un futuro diverso”, che il futuro sia “una strada ostruita”.
Quell’infelicità, sosteneva sempre Kassir, “è anche nello sguardo degli altri” che ti “impedisce perfino la fuga, sospettoso e condiscendente che sia, ti rimanda alla tua condizione ritenuta ineluttabile”.

Le primavere arabe e la rivoluzione siriana rappresentano per Hamadi la risposta a questa sorta di condanna: “l’umanesimo ha vinto e il bisogno di libertà e di libero arbitrio ha scosso dalle fondamenta un mondo annichilito nel suo vittimismo”.
“Gli arabi si sono già salvati da soli e, in assenza di interferenze, continueranno plausibilmente a percorrere la strada della democrazia diventando i registi delle loro vite”.

La felicità araba per l’autore è, dunque, quella nahda di cui parlava anni prima Kassir, quella rinascita in cui gli arabi hanno la possibilità di “riappropriarsi del proprio futuro”. E di uscire fuori da quello schema che, dall’11 settembre 2001, ha dominato le coscienze collettive delineando l’equazione arabo-musulmano uguale potenziale terrorista.
“Oggi – si legge nel testo – per le strade del mondo, l’arabo assume una diversa connotazione allo sguardo dell’altro: non più terrorista pronto a esportare il proprio islamismo, ma partigiano della libertà”. Libertà sofferta e guadagnata.
E in particolare, parlando della sua Siria, Shady Hamadi afferma, ma forse si augura, che la “felicità araba” può nascere solo dalla sconfitta della dittatura siriana. “La Siria oggi sta superando l’impasse che ha tenuto le catene dell’infelicità ben salde alle braccia e alle gambe degli arabi. Siamo a una svolta epocale”.

In questo senso, il libro di Hamadi è un saggio politico-filosofico sulla condizione del mondo arabo nel bel pieno dei suoi sconvolgimenti e una riflessione sull’essere arabo e musulmano dopo quell’evento epocale che ne ha mutato l’immagine agli occhi del mondo. Una diffidenza che è cresciuta e maturata grazie anche ad un’accurata strumentalizzazione politica, che ha favorito “l’Islam integralista e conservatore”.
Lo stesso percorso studiato ad arte dal regime siriano per screditare la rivoluzione, all’interno e all’esterno del Paese. L’autore lo definisce “spauracchio integralista” che ha indotto a credere che “se i ribelli vinceranno, la Siria non potrà che diventare un nuovo Afghanistan”.

Non mancano però le accuse neanche a quell’Islam militante e politico che, complice la retorica anti-occidentale di molti regimi e molti partiti, ha permesso una reislamizzazione della società che mira a disgregare le realtà multiconfessionali. In questo, di nuovo, la realtà siriana ha qualcosa da insegnare.
“Se, come dice il regime, fosse solo dall’avvento degli Assad che la Siria può vantare la convivialità interreligiosa, come è possibile che tutte le minoranze, persino quella aramaica, siano sopravvissute millenni?”.

È il caso della piccola comunità cristiana di Maaloula, villaggio nei pressi di Damasco i cui abitanti parlano e recitano il Padre Nostro ancora nella lingua di Gesù o, ancora, è l’esempio di Padre Paolo Dall’Oglio, gesuita, che negli anni Ottanta ha rifondato il monastero di Mar Mousa, nel deserto del Mabek, e che in Siria, prima di essere cacciato dal regime, ha vissuto da “Innamorato dell’Islam e credente in Gesù”, come recita il titolo di un suo libro. Precedentemente, sotto il protettorato francese, quando i musulmani venivano discriminati, “al mio bisnonno – spiega Hamadi- fu lasciato uno spazio senza raffigurazioni sui muri in una chiesa cristiana, per pregare”.

Analisi storico-politica e ricordi personali si intrecciano ne “La felicità araba” che, almeno nella sua prima parte, si offre ai lettori come la storia di una famiglia, paradigma di un’intera nazione. Tre uomini, Ibrahim, Mohamed e Shady, e tre generazioni che raccontano la Siria prima degli Assad, durante il regime e nel bel mezzo della rivoluzione.

Nato a Milano nel 1988, Shady è figlio di un’italiana e di un siriano, Mohamed, che nel 1968, a venticinque anni, fu costretto a lasciare il Paese trovando rifugio per qualche tempo in Kuwait, poi in Iraq e infine in Italia. Mohamed era uno dei giovani oppositori del regime di Hafez, più volte arrestato e torturato dal Mukhabarat. Mohamed che lascia la Bayt di Talkalakh, nota come la “casa dell’imperatore”, costruita dal nonno per la sua famiglia, e che non può stare accanto al padre mentre esala l’ultimo respiro.

“La felicità araba” è un montaggio alternato che accosta volti, racconti e tratti degli ultimi cento anni della realtà politica siriana, popolata non solo da nomi, ma da uomini e donne, persone in carne ossa. E impariamo a conoscere anche i giovani protagonisti di questo slancio verso la “felicità”: Hasan Ali Akleh, il Mohamed Bouazizi di Al-Hasakah; Hamza al Khatib di Dar’a, arrestato e ucciso a soli quattordici anni; Ibrahim Qashush, l’Usignolo della rivoluzione, autore di quella canzone contro Assad che lo fece ritrovare morto, nel fiume Oronte, senza il pomo d’Adamo. Incontriamo anche il volto femminile di questa rivoluzione, come quello di Razan Zaithouni, insignita del Premio Sakaroz, e media activist come Rami Jarrah, alias Alezander Page, che insieme a tanti suoi coetanei è rientrato in Siria nel 2011 per servire la causa. Conosciamo, infine, anche un amico: Abo Imad, uno come l’autore, uno che racconta le barzellette e non viene meno all’obbligo dell’ironia e della comicità tipica di tutti gli abitanti di Homs. Sorridere e ridere è un’arma per sfuggire alla tragedia della guerra.

Siamo pronti per la Felicità araba? – chiede a un certo punto Shady Hamadi. La risposta è nelle parole di Abo Imad: “Ci sono stati un sacco di momenti felici, quando questa rivoluzione è cominciata…Quando stavamo vincendo le nostre battaglie. Abbiamo avuto molti bei giorni, dove ho sentito veramente la felicità.”

Vai a www.resetdoc.org

Titolo: La felicità araba. Storia della mia famiglia e della rivoluzione siriana (Prefazione di Dario Fo)

Autore: Shady Hamadi

Editore: Add editore (con il patrocinio di Amnesty International, sezione italiana)

Pagine: 256

Prezzo: 15 €

Anno di pubblicazione: 2013



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