Quei pochi che (non) hanno fatto l’Italia

«Io, anche in una società più decente di questa, mi troverò sempre con una minoranza di persone». La rivendicazione che lo “splendido quarantenne” Nanni Moretti rivolge in Caro diario a un giovanissimo e perplesso Giulio Base al volante di una Mercedes cabrio sarebbe stata una chiusa finale azzeccata per lo stimolante viaggio che il politologo Massimiliano Panarari e lo storico Franco Motta compiono attraverso la storia delle minoranze che (non) hanno fatto l’Italia. Moretti ne fa da trent’anni una cifra, un tratto distintivo e d’orgoglio: sono diverso, sono in minoranza e mi sta bene così, in fondo. Nei secoli, raccontano Panarari e Motta, in molti in Italia sono stati marginali senza volerlo e senza poter partecipare alla costruzione dell’identità nazionale.

Elogio delle minoranze (Marsilio) è un libro “rammaricato”. C’è l’amarezza di star tirando fuori una storia che inizia con la lotta contro la Riforma luterana e l’eresia italiana del XVI secolo e prosegue fino alla fine del millennio e oltre. Una vicenda costituita, col senno dell’oggi, di occasioni mancate da un paese che non è riuscito a diventare normale perché in nome di culture dominanti ha messo all’angolo minoranze virtuose che avrebbero saputo contribuire in maniera decisiva alla modernizzazione.

Verrebbe da dire che i due autori ricompongono (dividendosi la scrittura dei capitoli) quasi una storia controfattuale della nostra identità culturale, politica e civica: cosa sarebbe potuta essere l’Italia se molte delle grandi minoranze fossero divenute élite e fossero riuscite a plasmare almeno un po’ della nostra cultura?

Già, perché una cosa è essere minoranza e una è essere élite; una cosa è stare ai margini della storia e l’altra è farne parte e a volte condurre anche la danza. Benché spesso – lo scrivono fin da principio i due autori – minoranze ed élite siano sinonimi, in un punto divergono: avercela fatta o meno. E le straordinarie avventure intellettuali ripercorse nel libro sono la fotografia di alcuni sentieri interrotti della storia italiana.

Il rivoluzionario è un pazzo visionario finché non riesce ad affermare – se ci riesce – le proprie idee. E l’Italia della prima metà del Seicento è uno dei teatri su cui si svolge lo scontro tra due idee di mondo, di sapere e di uomo. Nei granducati italiani nei decenni del secolo d’oro della scienza assistiamo si assiste all’esplosione della novità ma all’altrettanto rapida reazione di un sistema di culturale e di potere vecchio e in difficoltà.

La stella del pisano Galileo Galilei tramonta presto e la patria dei novatores, dei nuovi scienziati della natura, divengono le corti europee di Francia, Inghilterra o del Nord Europa e non San Pietro. «Se ancora oggi in Italia – scrive Motta – il dibattito pubblico sulle ricadute etiche della scienza, dalla nascita alla morte, è costretto all’inderogabile presenza del magistero ecclesiastico lo si deve anche agli esiti della lotta delle idee che fu combattuta in quel tornante epocale della modernità».

Panarari e Motta hanno un giudizio di fondo sugli elementi che hanno contribuito a far diventare questo paese quello che è oggi. È chiaro che per i due autori spesso ha vinto la parte che non meritava di imporsi, ovvero quella parte che non ha permesso all’Italia di trasformarsi in un paese più civile, meno conflittuale e più aperto.

Tra gli sconfitti meno noti della storia ottocentesca italiana c’è l’arcipelago di intellettuali, medici e scienziati igienisti che intuirono quanto un costume diverso nella cura del corpo avrebbe reso più solido il nascente corpo unitario dello Stato e della società italiani. La modernizzazione non ha fatto breccia nel sistema sanitario che nasceva sul finire XIX secolo e nei primi anni del XX e quello degli “igienisti” rimane dunque un case study poco noto ma molto istruttivo.

Stessa marginalizzazione ebbero i giacobini italiani, che a cavallo tra Sette e Ottocento avrebbero voluto importare in Italia lo spirito rivoluzionario ed egalitario di Parigi. Furono bollati da Benedetto Croce come «grandi idealisti e cattivi politici» e Antonio Gramsci definì «fenomeno tutto borghese» il triennio di insurrezioni di fine Settecento.

Nei capitoli conclusivi di questa storia dell’intellighenzia marginale era impossibile che rimanessero escluse alcune delle nicchie più significative dell’altra Italia politica: il socialismo riformista, il liberalismo e l’azionismo. E qui Panarari ha buon gioco nel mostrare quanto queste esperienze politiche del Novecento avrebbero potuto e non son riuscite a fare per la cultura e l’identità italiane. «Una minoranza di intellettuali lucidissimi e “scomodi”, sempre e comunque, questi esponenti di una forma “di lotta e di governo” del liberalismo che, a ben guardare, si batteva per convertirci finalmente in un paese normale». I fratelli Rosselli e Piero Gobetti insieme a tutti coloro che prima, durante e dopo il ventennio fascista hanno sostenuto la necessità di un “elitismo democratico” che prendesse su di sé la responsabilità di portare a «compimento compiti civici indifferibili» come la lotta contro il regime e l’educazione delle masse popolari.

Ultima tappa di questa storia dell’Italia che ha perso è quella in cui il conflitto tra le idee viene meno e il ruolo delle élite è definitivamente annullato. È quella che conosciamo meglio perché è quella più vicina a noi, l’epoca della neotv e del suo dominio “sottoculturale” (azzeccato aggettivo di un altro libro di Panarari) che sostituisce il ruolo pedagogico che un tempo era in mano alle minoranze illuminate.

È in pieno trentennio berlusconiano che la coppia essenziale della democrazia liberale composta da élite e cittadini perde consistenza a favore del binomio populista leader e popolo. La via maestra per salvare la malandata democrazia italiana non sarà il «postmoderno populismo digitale» à la Beppe Grillo che vorrebbe abolire la distinzione tra rappresentati e rappresentati per un’indefinita democrazia elettronica.

Così, concludono Panarari e Motta, l’unico antidoto efficace al dominio dei pochi, rischio sempre prossimo per le democrazie, è «il coinvolgimento degli individui nella vita pubblica e il recupero di élites testimoniali, oneste e competenti, portatrici di un progetto di pedagogia civile».

 

Titolo: Elogio delle minoranze

Autore: Massimiliano Panarari e Franco Motta

Editore: Marsilio

Pagine: 221

Prezzo: 16 €

Anno di pubblicazione: 2012



Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *