Quando Adriano Olivetti sognava comunità senza partiti

Non stupisce che di questi tempi ricompaia con successo nelle librerie Democrazia senza partiti di Adriano Olivetti, un protagonista dell’industria, del design e della cultura italiana degli anni Cinquanta, che fondò, tra le altre cose, la rivista e il movimento di Comunità, con il quale riuscì a essere eletto, unico, in Parlamento. L’ispirazione liberal-sociale dell’imprenditore di Ivrea contrastava l’egemonia della Dc a destra e del Pci a sinistra, con un’idea di autogoverno basato su piccole comunità, e collocava al centro della vita pubblica la capacità critica della persona-cittadino, non le grandi organizzazioni di parte.

Gli scritti di Olivetti si scagliavano con energia contro quelli che erano in verità esempi robusti del «partito organizzativo di massa», una forma politica nata nell’ottocento con il socialismo tedesco. Olivetti riscopriva le riserve sui partiti politici di Rosmini, Gioberti, di Minghetti e di Piero Gobetti, che in tempi diversi avevano denunciato la tendenza di queste entità politiche a favorire gli amici, a ingerirsi nella vita pubblica, ad opprimere gli avversari, a condizionare la giustizia. Ma Comunità pubblicava anche, con evidente soddisfazione, i taglienti contributi di Simone Weil, la filosofa pacifista e mistica, morta a soli 34 anni, come Appunti per la soppressione dei partiti politici, in cui la mentalità prevalente dell’epoca veniva torturata quasi sadicamente: i partiti anglosassoni – scriveva la Weil – contengono un elemento giocoso nella competizione che ne rivela l’origine aristocratica, mentre nei partiti europei è tutto terribilmente serio, il che ne rivela l’origine plebea; con i giacobini si inaugura la gloriosa tradizione per cui la formula vincente è «un partito al potere tutti gli altri in prigione»; i partiti sono «macchine di passione collettiva» che opprimono il pensiero individuale e perpetuano se stesse. Con loro trionfa la menzogna, «una lebbra che si può superare solo con la loro soppressione».

Olivetti aveva davanti il Parteienstaat, lo «stato dei partiti», di quelle floride organizzazioni che hanno attraversato, con le loro sezioni, federazioni, scuole, direzioni centrali e segreterie, gran parte del secolo scorso. Se adottiamo una visione più realistica, nelle società del Novecento, quelle che Ortega y Gasset vedeva letteralmente «riempirsi di masse umane», di milioni di individui che sarebbero stati «viziati» dal benessere della crescita, dobbiamo riconoscere, come fa oggi la scienza politica, che quei partiti hanno svolto una funzione pedagogica, di elaborazione della «domanda politica», di integrazione nelle istituzioni, di assorbimento dei conflitti.

La democrazia rappresentativa finora non ne ha potuto fare a meno. Certo dobbiamo accogliere le ragioni di Roberto Michels, il sociologo tedesco dei partiti, secondo il quale – lui socialdemocratico – la complessità della partecipazione organizzata di tanta gente impone una tendenza inevitabilmente oligarchica alla struttura, determina la professionalizzazione dei ruoli dirigenti, la loro inamovibilità, e finisce per consentire la manipolazione della base. E quando il peggio può accadere, accade. Arrivano i politici che vivono non «per» ma «della» politica (Max Weber).

Le critiche di genere liberale, come quelle che piacevano a Olivetti, difendono l’apporto critico e deliberativo di ciascun individuo. In certo senso difendono il principio della purezza della «volontà generale», nella prospettiva di Rousseau, per il quale la mente di tutti i cittadini dovrebbe essere preservata da ogni influenza partigiana. Utopia che riassume l’idea di sovranità dell’autore del Contratto sociale.

Ma oggi la presenza dei partiti non appare ingombrante per le stesse ragioni: sono diventati più piccoli e più deboli, non hanno più niente delle potenti organizzazioni ideologiche che elaboravano linguaggi e visioni del mondo, che imponevano con successo interminabili discussioni sulle formule politiche, la «programmazione democratica», il «compromesso storico» o la «terza fase»; non sono più pilotati da oligarchie ben strutturate, ma sono diventati «partiti personali», aggregati cangianti, dai nomi incerti.

La loro patologia non produce oppressione ideale, ma una tendenza invasiva della società: la lottizzazione, il finanziamento pubblico smisurato, la corruzione, la sfrontatezza con cui hanno aggirato, in Italia, l’esito plebiscitario (90%) di un referendum, nel ‘93, che abrogava le provvidenze statali, reintroducendole come «rimborsi». Si sono allargati fino a giustificare il concetto di «partitocrazia», anche se non si tratta più degli immani Parteien, con una ideologia di massa, che li legittimava, ma di organizzazioni dalla guida incerta, al punto che si parla di «partitocrazia senza partiti». Ora sono più detestati che amati e alimentano in permanenza la fornace dell’antipolitica.

«Nessuna fiducia a un governo dei partiti» sostiene il M5S. Nella stessa riunione un deputato grillino: «Demoliamo il nostro ego per metterlo al servizio del movimento». Spirito di sacrificio. Ma che altro è se non disciplina di partito e sottomissione ai capi? Quella battuta sarebbe piaciuta a un bolscevico. E anche Simone Weil ci avrebbe visto tracce della «lebbra» di cui sopra. Qui c’è aria di una contraddizione in via di esplosione. Così come nella proiezione utopistica del governo di Gaia, 2054, il trionfo della Rete nei video animati di Casaleggio: una saggezza unificata mondiale che «risolve problemi» e non conosce dissensi. Un mondo in cui «partiti politici, ideologie e religioni spariscono». Dalla preistoria alla storia, avrebbe aggiunto il vecchio Marx. Ma di tali «armonie», sappiamo, è piena la storia del Novecento.

Titolo: Democrazia senza partiti

Autore: Adriano Olivetti

Editore: Edizioni di Comunità

Pagine: 80

Prezzo: 6 €

Anno di pubblicazione: 2013



  1. Ottima recensione e ottimo collegamento con la realtà politica attuale. Avendo poco tempo a disposizione, copio qui parte di una mia mail recentemnte inviata ad un amico:

    Caro xxxx,
    qualche settimana fa ti avevo segnalato una citazione di A. Olivetti nell’editoriale della rivista on-line di Grillo, ora vedo questo post (http://www.beppegrillo.it/2013/03/passaparola_-_adriano_olivetti_e_la_democrazia_senza_partiti_-_laura_olivetti_/).

    Rinnovo l’espressione dei miei timori a riguardo di Beppe Grillo. In fondo, mi sembra che questo signore abbia un concetto di democrazia molto, molto diverso da quello coltivato da Adriano Olivetti, direi persino opposto. Anche se mette in avanti solo la faccia pulita e solare di questo concetto, spesso a questo signore e ai suoi fan scappa un’espressione, un lapsus, un errore, dove si scorge il lato oscuro e meno pulito.
    Guarda per esempio il video di Laura Olivetti nel post in questione, il testo che si legge sull’immagine prima del lancio del video: “Adriano Olivetti e la “Democrazia senza politica | senza partiti”. Ecco, credo che sia un lapsus che si possa correggere in due secondi, di poco conto in fondo, ma che sia in qualche modo l’espressione del lato oscuro di cui sopra. Temo infatti che il signor Grillo voglia una democrazia dove non ci sia più politica, ossia gestione della cosa pubblica da parte dei cittadini, che voglia la fine della politica e non potenziare il fine della politica, che voglia distruggere i mezzi malmessi (la rappresentanza politica) senza sostituirli con altri migliori. Temo cioè che non abbia alcuna intenzione di creare “un equilibrio per cui sarà la società e non i partiti a creare lo Stato” tramite un’integrazione organica tra società e Stato, cioè tramite istituti rappresentativi decentrati e vicini alle persone, alla società, alla comunità, come giustamente proponeva il nostro Olivetti, ma che voglia un equilibrio per cui siano definitivamente gli individui a fare lo Stato (tramite internet e un sistema di comunicazione attivissimo). Quali individui poi (quelli connessi o quelli che orchestrano il tutto?) non si capisce ancora.

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