Perché WhatsApp e Facebook non uccidono la realtà

Perché non riusciamo a staccarci un attimo da Facebook, perché non possiamo non rispondere ai commenti lasciati in bacheca dall’amico internettiano semisconosciuto, perché preferiamo ricevere il cip di Twitter e socializzare via tastiera piuttosto che fare due chiacchiere sul pianerottolo col vicino di casa appena rientrato dall’Australia? Perché? Il filosofo-sociologo-patafisico francese Jean Baudrillard, padre del pensiero postmoderno, ha una risposta ai nostri assillanti quesiti.

Se noi nativi digitali invece di uscire a mangiare una pizza col nostro fidanzato gli mandiamo l’emoticon a forma di pizza su WhatsApp (la chat sugli smart-telefonini) e siamo contenti così, se accettiamo di buon grado che la e-sigaretta possa emettere una lucina verde al posto del vecchio fumo nocivo, se possiamo camminare per strada con telefonino in mano, tablet nell’altra e cuffie nelle orecchie senza sentirci completamente fuori di testa, è perché viviamo nell’«iperrealtà»: termine difficile, che significa «la realtà dissolta nel concetto», ossia una cosa ancora più difficile. In parole misere è colpa dei massmedia (TV, cellulare, computer, Facebook, Twitter, Linkedin, Tumblr, Google+), che si sono tutti coalizzati contro mamma, papà, marito, moglie, fratelli, nonne, zii, cugini e amici. Per farne cosa? Iperrealizzarli. Che tradotto dal postmodernese significa semplicemente farli secchi.

Al loro posto, link su misura per i nostri gusti, playlist personalizzate, amici virtuali che condividono gli stessi hashtag. Che ci succede? Il termine tecnico è «rapimento mediatico», e quando siamo abbagliati dal gelido schermo dell’iPad è già troppo tardi, non siamo più di questa terra, siamo sociopatici del web.

La questione, neanche a dirlo, è complicata. Baudrillard pochi mesi prima di morire, nel 2007, cercava risposte, e come spesso accade coi filosofi, trovava nuove domande. Una su tutte: Perché non è già tutto scomparso? Interrogativo che manda il tilt il suo teorema del delitto perfetto della realtà a opera dei media, e che è diventato il titolo del suo testamento filosofico ora uscito per Castelvecchi. In breve: noi umani viziati non abbiamo mai accettato in modo pacifico lo status quo, abbiamo così cercato di cambiarlo in base ai nostri desideri, desideri che però, nell’era della riproducibilità tecnica e delle esperienze artificializzate, non sono più farina innata, ma uscita dal sacco altrui, prodotta dalle pubblicità e dalle varie induzioni commerciali.

E così la storia umana è stata tutto un fiorire di conati, negazioni, criticità, contraddizioni, finché oggi, a cammino compiuto, si scopre che la «realtà aumentata» è una realtà diminuita, perché virtualità e connessioni internet hanno spazzato via i nostri corpi, i nostri tête-à-tête, le nostre passeggiate serali in cerca di un gelataio aperto, fino al punto che diventa strano realizzare che tra tanti simulacri invadenti ancora qualcosa ci sia, bizzarro che il sole continui a sorgere e il telefono a squillare e nostra madre a urlare dalla cucina. Curioso, dal momento che «grazie al dispiegarsi di una tecnologia senza limiti, l’uomo è in grado di giungere alla fine delle proprie possibilità, e lì stesso scompare, lasciando spazio a un mondo artificiale che lo espelle».

È un’inquietudine che ridesta gli incubi alla Huxley, legata alla spinta vecchia come il mondo all’annientamento d’ogni confine, rintracciabile nella scienze, nelle arti, nelle tecnologie à la carte. Forse ingiustificata come inquietudine, perché è quel perturbante che ci appartiene. Il Galileo che nel 1610 proclama di aver finalmente «abolito il cielo» non è dissimile da Mark Zuckerberg che fa stampare sui biglietti da visita «I’m the CEO, Bitch!» così cancellando il suo passato da smanettone incompreso.

Al posto del vecchio mondo disordinato e angusto, il mondo nuovo, pulito, desiderato, glamour, modellizzato in base ai desiderata, creato ad hoc dai nostri clic, talmente perfetto e «pienamente operativo» che un bel giorno «non avrà più bisogno della nostra rappresentazione», gli armadi si aggiorneranno in base alle stagioni e ai tweet di Anna Wintour, i würstel si riprodurranno automaticamente nel nostro frigo e i link interessanti si cliccheranno da soli. E magari tra vent’anni avremo anche il potere di eliminare tutto quello che non ci piace, il traffico, le zanzare, la sindrome premestruale e i film di Sorrentino, basterà segnalarli come spam e spariranno per sempre dal nostro microcosmo webbizzato. E così resteranno solo le cose belle, gli incontri autentici, i fiumi azzurri e le colline, e le praterie dove andremo a raccogliere margherite e giocare a calcetto. Anzi no, per quello ormai c’è Soccer iCon.

Titolo: Perché non è già tutto scomparso?

Autore: Jean Baudrillard

Editore: Castelvecchi

Pagine: 64

Prezzo: 7,50 €

Anno di pubblicazione: 2013



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