Palestina, i Diari dell’occupazione. Intervista con Raja Shehadeh

Da Reset-Dialogues on Civilizations

L’attesa, lunga, estenuante e umiliante, e a volte anche inutile, ai check point; percorsi in auto attraverso città deturpate, divise da barriere di protezione e da passaggi alternativi; panorami sfigurati dal muro, quella barriera difensiva voluta da Israele che ha finito per rinchiudere gli stessi cittadini israeliani in un ghetto e di impedire loro di conoscere e capire chi c’è veramente dall’altra parte della barricata. E poi la terra: non solo la Terra Promessa, l’Eretz Yisrael, ma quella che assorbe la fatica e il sudore, che raccoglie le storie di genitori e nonni e per cui s’intentano cause con poca speranza di vittorie, come fa Sabri Garaib appellandosi alla Corte Suprema israeliana per “tenersi aggrappato alla sua terra” e per tenerla al riparo dagli espropri fatti per costruire il nuovo insediamento di Givon Hahadasha.
Ma non ci sono solo testimonianze amare in Diari dell’Occupazione (Castelvecchi), l’ultimo libro di Raja Shehadeh, avvocato e attivista palestinese, fondatore dell’organizzazione per i diritti umani Al Haq, assieme ad altri avvocati nel 1979. Sono 186 pagine, arrivate a noi nella traduzione in italiano lo scorso aprile, fatte di racconti quotidiani, dalla fine del 2009 alla fine del 2011, poco dopo la richiesta per il riconoscimento della Palestina come stato osservatore presentata da Abu Mazen alle Nazioni Unite, che descrivono la realtà della Cisgiordania oggi, ma anche quella della Palestina del mandato britannico, di prima del 1948. Quella Palestina in cui i palestinesi “organizzavano festival di musica popolare”, come il Nabi Rubin Festival di Jaffa, il Nabi Musa alla periferia di Gerico e il Sirna Mariam al Monte degli Ulivi, a Gerusalemme, prima che venissero proibiti; quei tempi in cui, scrive Shehadeh, “era pura follia la speranza di mia madre che avrebbe voluto vedere la fine dell’occupazione prima di morire”.
A distanza di due anni dalla pubblicazione in inglese di “Occupation Diaries”, Raja Shehadeh spiega a “Reset” la situazione della sua terra oggi, dopo anni di battaglie legali condotte da Al Haq, all’indomani della visita di Papa Francesco in Terra Santa e di un nuovo accordo fra Fatah e Hamas, mentre i negoziati con Israele sembrano essersi nuovamente arenati, prima ancora di ricominciare.

Nella postfazione di Diari dell’Occupazione si parla della morte Sabri Garaib (uno dei palestinesi seguiti dall’associazione al Haq) come della fine di un’epoca in cui era ancora possibile sperare nella legge per salvare la terra palestinese. Questa speranza è tramontata?
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Nel primo libro che ho pubblicato nel 1982, intitolato The Third Way (“La terza via”, ndr), ho scritto che Sumoud (una parola araba che indica la fermezza, la perseveranza nel restare aggrappati alla terra) è stata la lotta più importante per i palestinesi sotto occupazione. Una lotta che ha avuto ragione di fronte a tutti i tentativi dei governi israeliani, nel corso degli anni, di condurre i palestinesi fuori dai Territori Occupati. Se non fosse stato per questo Israele avrebbe vinto. Ma il Sumoud non è solo una forma di lotta passiva, essa ha sfidato Israele sulla base della legge, ogni volta che è stato possibile, e Sabri è stato un campione di questo tipo di lotta. Nel corso del tempo Israele ha continuato a mutare le norme, arbitrariamente, per rendere più complicato vincere le dispute legali sulla terra, fino anche a rinnegare le sue stesse leggi per ottenere quelle terre che appartengono a singoli palestinesi, anche in base al diritto israeliano. Quindi sì, la morte di Sabri segna la fine di un’epoca, cioè di una specifica forma di lotta, ma nel frattempo ne sono sorte altre, ugualmente pacifiche, come il BDS (sigla che sta per Boycotts Divestment and Sanctions).

Quindi, è ancora utile una forma di resistenza?

Assolutamente sì. Per quanto Israele provi a insistere con la sua interpretazione del diritto internazionale e sulle sue posizioni religiose e morali che permettono ai suoi cittadini di occupare la terra degli altri, resta sempre parte della comunità internazionale e dell’Europa, cui aspira far parte, ed è responsabile di fronte ad essa delle sua azioni (nel libro si cita, a riguardo, l’attacco a Freedom Flottilla, il 31 maggio 2010, ndr). Così come accadde con il Sud Africa durante l’apartheid, che divenne uno Stato-paria e subì l’isolamento di gran parte del mondo, lo stesso accadrà con Israele. E, andando avanti con il paragone, anche in Sud Africa è stata la gente a guidare la lotta per il cambiamento; i governi arrivano sempre dopo.

A proposito di governi e di politica ad alti livelli, come giudica l’accordo tra Anp e Hamas? E il nuovo stallo nei negoziati tra Israele e Anp?

Si tratta di un accordo della massima importanza. Finché i palestinesi sono stati divisi è stato inconcepibile che potessero negoziare con Israele da una posizione di una certa forza ed è stato impensabile che qualunque risultato si ottenesse potesse essere attuato. Questo è certamente un duro colpo anche la strategia israeliana di lungo termine del “divide et impera”.

Come è stato accolto tra i palestinesi il recente viaggio in Terra Santa di Papa Francesco?
In una terra dove la religione è così abusata e così sfruttata per giustificare l’occupazione della terra di altri, ascoltare e essere testimoni di una preghiera sincera di giustizia e pace è stata un’ondata di energia. A differenza dei Papi precedenti Papa Francesco sembra essere veramente toccato dalle ingiustizie e sembra avere una buona comprensione del conflitto qui da noi e voler fare qualcosa. Ha fornito anche una grande sostegno alla posizione palestinese dei due popoli, due stati.

Diari dell’occupazione descrive un periodo compreso tra il 2009 e il 2011, inclusa la dichiarazione di Abu Mazen all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: che cosa è cambiato da allora ad oggi?

Nessun cambiamento fondamentale si è verificato, al di là di qualche novità come il riconoscimento di uno Stato palestinese dalle Nazioni Unite che ormai è un dato di fatto, così come l’adesione della Palestina a molte convenzioni Onu. Resta però la discrepanza, sempre più ampia, tra la posizione di Israele, che afferma che i territori palestinesi occupati appartengono a Israele perché “Dio l’ha detto”, e la posizione del resto del mondo che li ritiene, invece, Territori Occupati, la cui statualità palestinese dovrebbe divenire una realtà piena.

Ma la cosa più importante di tutte è che, seppure i negoziati con il Segretario di Stato americano non hanno portato alcun risultato concreto, sono riusciti a confermare quello che tutti noi sapevamo, e di cui tante volte ho scritto, e cioè che Israele non vuole negoziare con i palestinesi. Vuole la loro piena resa.

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Titolo: Diari dell'occupazione

Autore: Raja Shehadeh (traduttore: Claudia De Martino)

Editore: Castelvecchi

Pagine: 186

Prezzo: 18,50 €

Anno di pubblicazione: 2014



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