Tra illusione e realtà, un film racconta l’integrazione indiana

M.K. Raghavendra intervistato da Maria Grazia Falà

Un testo filmico sfaccettato, a più mani. E anche l’interpretazione dei personaggi sfaccettata, a più mani, cosicché non c’è una sola verità. Ancora, l’illusione di un’India che verrà ma che in realtà non esiste, dove hindu, musulmani e cristiani potranno convivere pacificamente. Infine, un’opera dove reali sono i personaggi, ma dove il contesto è irreale, come se la realtà dovesse essere indorata, quasi data a dosi omeopatiche. Queste, in sintesi, le conclusioni a cui arrivano i tre coautori, W. Elison, C. L. Novetzke e A. Rotman di Amar, Akbar, Anthony. Bollywood, Brotherhood, and the Nation.

ResetDoc parla di questo libro con M. K. Raghavendra, che al film ha dedicato un capitolo del suo 50 Indian Film Classics (Noida, India, HarperCollins, 2009).
Ma prima occorre esporre la trama, ricca e complessa, piena di digressioni, di Amar, Akbar, Anthony (regia, Manmohan Desai, 1977). Un uomo, Kishanlal, va in prigione per salvare il suo padrone, Robert, che aveva investito una persona, con la promessa che la sua famiglia avrebbe ricevuto il doppio del suo salario durante la sua assenza. Ma Robert non fa niente di tutto questo e, quando Kishanlal esce di galera, trova i tre figli affamati e la moglie tubercolotica. Adirato, va da Robert e questo lo umilia. Fuori di sé, prende una macchina di Robert dove è nascosta una cassa d’oro, torna a casa e trova un biglietto dove Bharati, la moglie, gli comunica di volersi suicidare per non essere un peso per la famiglia. Allora parte con i bambini per ritrovarla. Inseguito dagli scagnozzi di Robert, lascia i tre figlioletti in una piazza sotto la statua di Gandhi e scappa via. Dopo una rocambolesca fuga, dove la macchina prende fuoco, ritorna ma non ritroverà più i bambini. Uno, il più piccolo, sarà adottato da un musulmano, Haider Ali, prendendo il nome di Akbar, il più grande dall’ispettore di polizia Khanna (si chiamerà Amar) e il mezzano da un prete cristiano, che gli darà il nome di Anthony. Intanto Bharati, salvata proprio da Haider Ali, perde la vista e apprende che tutta la sua famiglia è morta. Tutta la vicenda ruoterà sul ricongiungimento, ventidue anni dopo, dei tre fratelli che finalmente potranno abbracciare i loro genitori biologici (a quel punto Bharati riacquisterà la vista). E, alla fine, una bella girata in macchina concluderà la storia, con i tre fratelli e le loro fidanzate, naturalmente una islamica, una hindu e una cristiana.

ReseDoc ha deciso di parlare con M. K. Raghavendra perché c’è una fitta rete di rimandi, di interpretazioni – contrastanti e no – tra il testo preso in esame e il suo.
Elison, Novetzke e Rotman vedono i quattro personaggi principali del film, Amar, Akbar, Anthony e Bharati, in modi diversi, in modo tale che non c’è solo una verità. Così, nel capitolo dedicato ad Amar, lui è considerato il personaggio principale, e così avviene per gli altri tre. “Non conosco il libro, dichiara Raghavendra, ma da quanto detto deduco che la storia di ciascun personaggio è vista come una rappresentazione soggettiva. Ciascuno ha la sua verità. Ma non posso accettare questo, poiché il cinema indiano non ha niente di corrispondente a un punto di vista. È come se tutto fosse visto da un occhio onnisciente. Secondo me il cinema indiano non può avere un Rashomon che insiste sulla soggettività dello spettatore – perché l’occhio della macchina da presa in India vede ogni cosa. Non ci sono verità parziali a Bollywood. C’è una sola verità.”

Sempre secondo gli autori, Amar viene visto come una sorta di hindu protestante secondo la famosa formula di Max Weber. Infatti, egli dona il sangue alla madre, ferita in un incidente stradale, e ancora a lui sconosciuta, in quanto rappresentante dello Stato. Inoltre offre la sua casa a una ragazza, Lakshmi, (e a sua nonna) salvandola da una vita di ladrocinio, a cui l’avevano costretta il fratellastro Ranjeet e la matrigna, e poi la sposa, in questo modo offrendole però, per così dire, un’altra forma di prigionia.
Poi, nella scena finale, quando i tre fratelli si ritrovano insieme per salvare Jenny e Lakshmi, Amar è travestito da suonatore d’orchestra, e i suoi fratelli, travestiti rispettivamente da sarto musulmano e prete cattolico, danzano al suono della sua musica, e quindi sono a lui sottomessi.

AAA non è incentrato intorno a un musulmano, a un cristiano, e a un hindu, ma intorno a un musulmano, a un cristiano, e a un ufficiale di polizia, risponde Raghavendra. La mia interpretazione del film è che esso fa l’allegoria della riconciliazione dello Stato (rappresentato dall’ufficiale di polizia) con le classi emarginate. Lakshmi (una criminale) che sposa il poliziotto è una figura ripresa in altri film (Sholay, Zanjeer, “Catene”, di Prakash Mehra, 1973), nei quali un ufficiale di polizia arruola un criminale per combattere un nemico più grande. Questa è fondamentalmente un’allegoria del governo che cerca di ridefinire la legalità attraverso la nozione dell’“ordinamento giudiziario socialmente impegnato.” Tutti questi sono temi portanti del periodo di Indira Gandhi. Non ha senso che le minoranze si assoggettino a un hindu, ma ha senso che si assoggettino allo Stato rappresentato da un ufficiale di polizia.”

Akbar, con le sue canzoni Urdu, fa una parodia del vecchio ordine sociale islamico, nonché dei Muslim social, film indiani degli anni Sessanta i cui protagonisti sono islamici, e il cui ambito è circoscritto non solo alla religione, ma anche alla classe sociale, al genere sessuale, alla geografia e alla storia. Nondimeno, sempre Akbar descrive una realtà che non è vera, come se attraverso il velo della sua innamorata o quello delle antiche tradizioni islamiche ci sia solo inganno. Ma anche nella società indiana, e a Bombay, dove il film è ambientato, ogni cosa è ingannatrice, e solo una cosa è importante: il sangue, con i suoi conseguenti fratellanza, famiglia, unione.
“L’essere musulmano nel cinema hindi (per es. nei Muslim social), prosegue Raghavendra, è in qualche modo una categoria barocca nella quale la consuetudine sociale è esagerata come modo di enfatizzare l’identità religiosa, sebbene la fede stessa non giochi alcun ruolo nella narrazione. L’induismo (a differenza dell’Islam) è una religione in cui la fede non è importante, ma lo sono le consuetudini sociali (e l’appartenenza) (a causa della formazione del forte legame di casta/jati); il Muslim social perciò “induizza” l’Islam, in un certo senso. Esso trasforma “l’essere musulmano” in un attributo tipico della jati e perciò mostra la formazione di forti legami in un modo non possibile tra i reali musulmani, poiché essi provengono da differenti classi/gruppi sociali che non possono essere riuniti come famiglia.”

“Ma non penso, conclude Raghavendra, che AAA faccia una parodia dei Muslim social: esso semplicemente sta reintroducendo gli stessi motivi in un tono adatto ad esso.”
Amitabh Bachchan gioca un ruolo preponderante come Anthony, che è il leader carismatico del film. Lui è l’unico personaggio capace di essere un cristiano senza essere ciò che il sociologo e psichiatra Ashis Nandy, in un libro del 1983, definì come “il nemico intimo” della società indiana, ovvero, non l’essere cristiano, ma l’essere cristiano in quanto colonizzatore. Sempre secondo Elison, Novetzke e Rotman, Anthony mette alla berlina la società cristiana: lui è un contrabbandiere di liquori, e ciò che governa il suo quartiere, Anthonyville, è lui stesso, non il Padre che lo ha allevato come un figlio o istituzioni cattoliche filantropiche.
“Concordo, controbatte Raghavendra, sul fatto che “cristiano” di solito indica colonizzatore, ma non è sempre così. Vorrei citare Jaal (“La trappola”, diretto da Guru Dutt, 1952) e Bobby (“Bobby”, diretto da Raj Kapoor nel 1973) come film in cui i cristiani del luogo sono tratteggiati senza riferimento agli inglesi. Il loro ritratto è estremamente caricaturale e ciò vale anche per AAA. Il cristiano in Jaal è un criminale, ma tutti nel film (inclusa la brava gente) sono cristiani; in Bobby i cristiani amano scherzare e consumano bevande alcoliche. La religione non è problematizzata in Bobby quando ha a che fare con una storia d’amore interreligiosa, sebbene la classe lo è.”

Bharati, o Maa, è la madre cattiva, il villain, nonostante il fatto che impersoni Mother India, la dea venerata in India a partire dal 1977. Essa può essere considerata come il potere femminile del film che sovrasta anche le sue controparti maschili (per esempio, Amar, che costituisce lo Stato come insieme astratto di principi).
“Non concordo con quanto affermato, dice Raghavendra. Bharati è devota e un cobra viene da lei a salvarla contro l’effettivo villain quando lei sta pregando. Nessuno che è devoto può essere cattivo in un film popolare hindi.”
Alla fine, un verso di una canzone, Anhoni ko honi kar de (“C’mon, let’s make the impossible possible.”) Nella scena finale, i tre fratelli, riuniti per salvare due delle loro innamorate, Jenny e Lakshmi, cantano questa canzone e, secondo gli studiosi che hanno scritto il libro, si rivolgono agli spettatori del film, in una sorta di mascherata: è realmente vero che hindu, musulmani e cristiani si riconoscono l’un l’altro come veri fratelli? “Let the impossible become possibile.”
“Amar, conclude Raghavendra, non è “hindu” nel modo in cui gli altri due appartengono alla propria religione. Una volta che lo si vede come persona che fa l’allegoria del potere statuale, il significato cambia.”

Titolo: Amar, Akbar, Anthony. Bollywood, Brotherhood and the Nation

Autore: W. Elison, C. L. Novetzke, A. Rotman

Editore: Harvard University Press

Pagine: 344

Prezzo: 40,50 euro €

Anno di pubblicazione: 2016



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