Da Berlusconi alle larghe intese, le note dell’Arcidiavolo

Chissà quali annotazioni puntute, sarcastiche o irriverenti scriverebbe o potrebbe scrivere nel suo annuale editoriale di fine novembre lo storico “arcidiavolo” Mario Isnenghi sulla rivista Belfagor, già “rassegna di varia umanità”, a proposito degli eventi offerti dalla cronaca politica e culturale di questo strano 2013? Adesso che la rivista, dopo 66 anni di onorata attività non c’è più, che l’ultimo editoriale è stato pubblicato il novembre dell’anno scorso e da pochi mesi è uscita per i tipi Donzelli la raccolta di tutti gli editoriali pubblicati negli ultimi diciannove anni – a partire dal 1994, l’anno fatidico da cui ha inizio l’ascesa di un uomo e di una certa politica e anche il declino di un intero Paese – viene proprio da chiederselo.

Non che la rivista fosse a larga tiratura e si presidiassero le edicole in occasione della sua uscita, anzi – appena duemila copie, di cui milletrecento spedite in abbonamento ad altrettanti lettori e cultori di cultura critica e laica, decisamente anticonformista – ma era assai apprezzata all’estero e molto rinomata in ambito accademico.

Ma cosa vergherebbe oggi Isnenghi sul governo delle larghe intese, sulla crisi e la guerra del Pd, la sentenza della Cassazione su Berlusconi solo per citare i principali avvenimenti di questi otto mesi dell’anno? E magari, anche, su certe uscite e stravaganze di Papa Bergoglio? Perché poi Isnenghi – storico del giornalismo e della contemporaneità, professore emerito della veneziana Ca’ Foscari, da poco in pensione – oltreché dalle fonti accreditate, dalle pagine giornali ha sempre attinto a man bassa.

Materia e strumenti che conosce alla perfezione in tutte le dimensioni, forme e sfaccettature: nazionali, regionali e locali – specie in ambito Veneto –, di destra, di sinistra, cattoliche e di parrocchia, conoscendone altrettanto approfonditamente i direttori e le firme, alle cui testate dedica una attenta e quotidiana lettura – oltreché libri e saggi – da svariati anni. Meglio, a partire dalle indagini sulla prima Guerra Mondiale, passando per il fascismo fino ai giorni nostri. E, prima ancora di tutto ciò, a partire da Garibaldi. È dai giornali che lo storico filtra prima di tutto la realtà, in particolare per queste «noterelle e schermaglie» su Belfagor, che lui stesso definisce come «un minestrone di spunti, non so quanto saporito».

Diario di un arcidiavolo «nell’Italia della democrazia liquida» (1994-2013) è pertanto una raccolta puntuale di annotazioni e curiosità tratte dal quotidiano e dalla lettura quotidiana e quasi maniacale dei quotidiani su cui metter a fuoco una lente d’ingrandimento, che finisce con l’essere una densa carrellata lungo un quasi ventennio a prevalente “egemonia berlusconiana”, che ha scalzato quella di impronta gramsciana e di sinistra che ha permeato la società dal secondo dopoguerra fino al giorno della “discesa in campo” dell’Uomo di Arcore appunto. Oggi l’egemonia della sinistra, con la quale «puoi tirare sino a fine mese» al massimo, «è – scrive Isnenghi – un prét-à-porter, un capetto pubblicistico che puoi indossare o spendere in ogni circostanza. Se ci vuoi arrivare, ci arrivi, da qualunque punto di partenza, e con qualunque percorso. (…) Vacuità per vacuità, aggiungiamo anche questa: davvero, tutto fa brodo». Ecco quel che è restato dalla vecchia cara “egemonia rossa”… Mala tempora currunt sembra dire lo storico che guardando a ieri legge l’oggi e proietta il suo occhio lungo sul domani.

Dedicato ad un’altra penna graffiante del giornalismo italiano, quel Luigi Pintor che ha fondato nel 1971 il manifesto “quotidiano comunista”, di cui Isnenghi è stato un autorevole collaboratore e firma culturale, con particolare assiduità nei primi dieci anni di quest’avventura editoriale, il volume passa in rassegna quello che si può tranquillamente definire il declino politico e culturale di un Paese, che passa anche attraverso una certa piega presa dalla stampa italiana, iniziata proprio con la nascita de la Repubblica, nel 1976.

E di un genere di giornalismo “addizionato”, che fu poi definito di “panna montata”. Cioè di quella particolare tecnica che serve per gonfiare le notizie, pompare gli argomenti, sostenere le tesi per poi declinare le conclusioni a proprio uso e consumo. Un genere che ha contaminato uomini e mezzi, alla cui scuola si sono nutrite ormai intere generazioni di giornalisti in una continua gara a superarsi l’un l’altro per eccellere nel genere, coinvolgendo perciò nella caduta di stile anche il Corriere e La Stampa, tutti impegnati da una certa data in poi (metà-fine Ottanta – inizi anni Novanta) a riempire pagine su pagine di fatti, notizie e anche analisi «per far lievitare il nulla» dentro un pressoché vuoto pneumatico di notizie di base e dove il virtuale prevale sul reale. Già, la realtà virtuale. «L’altra è sparita, non gliene frega niente a nessuno» commenta il Nostro.

Così è finita che «i telegiornali hanno dato l’esempio dello svaccamento più completo, mettendo in mostra per giorni – (il caso di cui qui si parla è quello della morte di Lady D. nel 1997, in cui l’Unità chiede scusa alla principessa in prima pagina, «ma anche il manifesto le sue quattro pagine le ha fatte e ora le paga con qualche lettera costernata ai lettori» dopo aver spedito addirittura un’inviata alle nozze londinesi del 1981 – la peggior mercanzia ventotto minuti su trenta, qualunque cosa accadesse altrove nel mondo». Già, «da troppo tempo Repubblica ha trascinato Corriere e Stampa nella grande pasticceria della panna montata e ora i vecchioni vi sguazzano peggio di Susanna».

Anche se la raccolta degli editoriali non è soprattutto questo, diciamo che questo è però il fil rouge che lega diciannove anni di riflessioni in cui l’Isnenghi-Arcidiavolo, incaricato dalla rivista Belfagor di annotare gli eventi anno per anno per ben diciannove anni di fila, non ne ha risparmiate a nessuno. Specie alla generazione degli “ex di sinistra” che hanno completato il salto della quaglia, in molti casi passando su opposte sponde. Da Lotta Continua, dall’Unità, dal gruppo situazionista degli Uccelli o da Potere operaio, da il manifesto, passando magari a Il Giornale house organ di casa Berlusconi, Il Foglio, Corriere, Stampa, Libero oppure al Tg1 e poi al confindustriale Il Sole o anche chi direttamente a Mediaset. C’è in questa traversata tutta la realtà di una sinistra che s’è spostata progressivamente a destra e che s’è annodata intorno al collo la cravatta stile regimental per “realismo” o per “opportunità”.

Isnenghi non lo dice esplicitamente, ma se lo chiede a modo suo: «Chi non è stato del manifesto dei giornalisti d’oggi? (…) Ci si può consolare pensando che, alla fine, doveva essere, tecnicamente, una buona scuola. Ma non dovevano cambiare il mondo?» O peggio: «La mistica della paga da metalmeccanico è difficile reggerla per tutta la vita: arrivano i figli, le tempie ingrigiscono, non hai più – magari – il dono della fede; e poi, sei bravo davvero, hai imparato il mestiere, ti vogliono altrove».

Ma la critica dell’Arcidiavolo belfagoriano è a trecentossenta gradi, spazia, mette dentro i Liguori, i Mieli, i Ferrara, Mughini («quando era altro da quello che è»), Telese, Sofri eccetera…, un’intera classe dirigente e culturale nazionale “migrante”, per dire: «Li ho lasciati appena ieri – giusto trenta o quarant’anni fa – all’Ugi, in Potere operaio, al manifesto, minimo minimo nel Pci o socialisti lombardiani, ed eccoli ministri o ex-ministri o aspiranti ministri con la destra, o inesorabili distruttori di miti che sputano su se stessi com’erano, o giullari con la giacchetta rossa in trasmissioni di cicaleccio parasportivo… Boh». E ancora: «Non riesco a farci la bocca a questi socialisti finiti a destra (e che destra!). C’è di peggio, naturalmente, basta sfogliare Il Giornale o Il Foglio, luogo d’asilo di spostati e raminghi d’ogni sorta. Ma la malinconia più perplessa coglie a conteggiare la diaspora degli ex-giovani redattori del manifesto: salvo la Padania, con rispetto parlando, e forse Il Secolo d’Italia, vedi i loro nomi disseminati ovunque. (…) Per leggere quelli del manifesto, i lettori normali attendano che siano passati alla Stampa, al Corriere della Sera, a Repubblica, al Tg1. Magari non a Europa, che non arriva a farsi leggere, anche se basta per mandarti in tv».

Già, ma poi ci trovi anche Montanelli, Feltri e Vespa e poi persino la polemica sulla scalata di faccendieri, affaristi e forse dello stesso Berlusconi alla proprietà del Corriere «che ringiovanisce Mieli. Quanto tempo era che non gli accadeva di essere attaccato da destra?».

E un po’ ti consoli. E pensi sempre o ancora al manifesto. A quanto è stato bello finché è durata l’avventura prima che si consumasse (a ciascuno il suo tempo di consunzione). A quanto fosse libero, persino troppo per esser vero. Talmente libero che la troppa libertà alla fine è diventata un ostacolo nel gioco dei veti incrociati. A quanto non ci si è riusciti a trasformare quel giornale (anche) in un’impresa capace di essere autonoma e in grado di stare sul mercato e tenere tutti insieme e a dar lavoro a vecchi e nuovi. Alle anime storiche come alle nuove sensibilità e alle diverse esigenze.

Ma forse, come lascia trasparire o intendere lo stesso Arcidiavolo, non è poi solo la storia di un giornale. È il percorso della sinistra, bellezza! «Umano, non bello».

Dopo sessantasei anni e quattrocentodue numeri anche Belfagor ha chiuso i battenti. Ora la sua storia, i saggi, gli editoriali è tutta online. Dove dovremo inseguire d’ora in poi l’Arcidiavolo per poter continuare a leggere le sue annotazioni? Intanto resta questa raccolta di editoriali che, insieme a Giornali e giornalisti sempre dello stesso autore, uscito nel 1975 per i tipi dell’editore Savelli, completa un quadro sull’editoria nostrana di più di mezzo secolo.

Titolo: Diario di un arcidiavolo

Autore: Mario Isnenghi

Editore: Donzelli

Pagine: 220

Prezzo: 20,50 €

Anno di pubblicazione: 2013



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