Collera e luce. La Siria di abuna Paolo
dopo due anni di silenzio

“Scrivere un testamento, quando il rischio di morte è eccezionalmente grande, è senza dubbio un estremo lusso. La grande maggioranza dei miei compatrioti siriani uccisi dagli Scud di fabbricazione russa, o da barili di esplosivo di fabbricazione casalinga, dilaniati dai bombardamenti di artiglieria o dai tiri dei cecchini, massacrati a pugnalate, o spirati sotto le torture, non hanno avuto questo privilegio. Può darsi che non avrò l’onore di fare parte della loro schiera, e questo testamento ha il valore di una semplice testimonianza del mio stato d’animo.
Cosa mi ha spinto ad andare a mettermi in pericolo nella regione d’Oriente? Il fatto che la rivoluzione per la libertà e la dignità è stata trascinata nel fango di una guerra civile. Per ragioni che hanno a che fare con l’impegno della mia vita, questa guerra civile non solo costituisce una minaccia per le condizioni di vita dei cristiani orientali, ma è una guerra civile che lacera la mia anima.”

Padre Paolo dall’Oglio è stato rapito a Raqqa il 29 luglio 2013. Ci era arrivato per negoziare con lo Stato Islamico il rilascio di alcuni sequestrati. Pochi mesi prima era uscito il suo ultimo libro, Collera e luce, un prete nella rivoluzione siriana, tradotto in italiano e pubblicato da Emi, Editrice Missionaria Italiana. Un testamento, ma anche un racconto personale e collettivo di una vocazione al dialogo interreligioso, e di un amore incondizionato per la Siria. Un testo che riletto oggi, a due anni da un sequestro senza notizie sulla situazione di abuna Paolo, resta completamente attuale quando non addirittura profetico.

Il racconto comincia dalle esperienze giovanili, con il noviziato dai gesuiti, la militanza nel movimento delle comunità di base dei cristiani per il socialismo, la comprensione della centralità della questione palestinese pur senza mettere in dubbio la legittimità del ritorno degli ebrei in Israele. Fino al primo incontro col Medio Oriente, nel 1975, in un viaggio a piedi da Betlemme a Gerusalemme che trent’anni dopo descriverà così:

nel corso di quel viaggio la solidarietà araba si è impressa nella mia anima: assolutamente non contro gli ebrei, ma a favore del ristabilimento della giustizia e senza mai negare il peso della tragedia del popolo di Israele.

Sono quelli gli anni della guerra civile in Libano, e il dibattito è aperto anche in Italia, dove padre Paolo rientra per continuare il noviziato. Due anni dopo, è il 1977, si trasferisce a Beirut a studiare l’arabo. Nell’estate del 1980 sarà a Gerusalemme a studiare l’ebraico, e avrà modo di conoscere più da vicino anche la società israeliana. È allora che comincia a prendere spazio l’idea del dialogo fra religioni, come forma di accettazione delle differenze e convivenza.

Durante quel periodo vi erano stati gravi scontri alla frontiera nord. Israele era penetrato in territorio libanese e il mio sentimento di solidarietà faceva si che io mi sentissi aggredito insieme agli arabi… mi domandavo quanto di quello spazio sacro sarebbe stato occupato dall’una o dall’altra comunità, prima di diventare uno spazio di riconoscimento reciproco e di fraternità .

Nell’inverno 1980/81 arriva a Damasco dove viene ammesso a frequentare da uditore i corsi di Diritto musulmano. Ed è dalle aule dell’ateneo che comincia a capire come funziona la società, e il regime di Asad padre, con tutti i suoi delicati equilibri di potere, e le tensioni apparentemente confessionali.

All’epoca il regime di Hafez al-Asad tentava di integrare il clan alawita del presidente nel mosaico musulmano del paese. Il leader religioso sciita libanese Musa Al Sadr aveva emesso un parere legale, una fatwa, secondo cui gli alawiti potevano ormai essere considerati parte della comunità sciita. Contestualmente tra i cristiani di Damasco vi era una forte tendenza nazionalista e laica, che sposava l’idea dello stato baathista quale garante delle minoranze nel quadro del secolarismo arabo.

Il 1982 è l’anno che cambierà per sempre la vita di padre Dall’Oglio, quando d’estate scopre il monastero di Mar Musa, all’epoca in rovina, che si trova a nord di Damasco. Lì decide di fermarsi, per rimetterlo in piedi e fondare la comunità al-Khalil, improntata sul dialogo islamo-cristiano. In quello stesso anno è avvenuto il massacro di Hama, in cui più di 35mila persone sono morte durante un assedio andato avanti per 27 giorni, in risposta all’insurrezione dei Fratelli Musulmani contro il regime. L’evento mette in crisi padre Paolo, e la sua decisione di restare in Siria, dovendo fare richiesta di soggiorno a un governo responsabile dell’uccisione di decine di migliaia di persone, del suo stesso popolo.

A che titolo e in vista di quale missione avevo chiesto un permesso di residenza in Siria a quello stesso regime che esercitava sul suo popolo una dittatura feroce? E perché aveva accettato la mia richiesta?…da parte della Siria la manovra era evidente: tentare di captare una qualche approvazione dell’Occidente, mediante l’amicizia con i cristiani proprio nel momento in cui il ruolo siriano in Libano era compromesso. Accordare un permesso di residenza ad alcuni missionari è dal punto di vista della propaganda, il modo migliore di diffondere il messaggio di una Siria plurale, rispettosa della libertà religiosa e laica.

È l’inizio del 2013 quando il libro viene completato. Sono già trascorsi due anni dall’inizio della rivoluzione siriana, e il paese è già sprofondato nel caos, conta oltre 100 mila vittime e 5 milioni di rifugiati.
Lo Stato Islamico è già comparso nella galassia dell’islamismo radicale, quella che per abuna è conseguenza di tanti fattori, e che seppure inaccettabile nelle evoluzioni estremiste e violente, è il prodotto della storia del paese, e ne è di fatto una componente. Dunque cosa fare, dialogare anche con l’islamismo radicale o estrometterlo da qualsiasi tentativo di trattativa, mediazione, accordo? In nome di quale definizione di terrorista?

L’islam violento con le sue rivoltanti contraddizioni testimonia l’incapacità di sopportare un mondo corrotto dalla menzogna, l’interesse, lo sfruttamento delle persone, l’espropriazione di altri popoli. Bisognerà pure trovare un modo di parlarsi. Non fosse altro che perché l’islam violento è diventato molteplice, efficace, capace di autofinanziarsi e di coordinare azioni sulla base di una solidarietà universale. Si tratta di un problema soprattutto per l’islam stesso.

Ho visto la bruttura dell’assassinio e ho toccato con mano il rischio del crimine terrorista e del radicalismo armato. E tuttavia, sento un amore universale, al di là di ogni appartenenza.

Padre Paolo incontra, e lo racconta nel libro, due islamisti radicali che potrebbero essere oggi due membri dello Stato Islamico. Si trova faccia a faccia con loro per intercedere in un caso di rapimento, e chiedere la liberazione di un uomo. La sua profonda conoscenza del Corano e il rispetto per gli esseri umani tutti lo aiuteranno anche in questa prova, e la persona sarà rilasciata il giorno seguente.
Il suo punto di vista non è quello di uno straniero trasferitosi in Siria, ma quello di un siriano, di un uomo, prima che cristiano o musulmano, totalmente immerso nel processo di non ritorno della rivoluzione siriana. Per questo si esporrà in più occasioni, anche mediaticamente, per denunciare quello che vede e sente, comprese le odiose pratiche di tortura del regime, senza mai perdere il rispetto per ogni essere umano, in quanto persona.

I combattenti di Jabat al-Nosra e Ahrar al-Sham si divertono a chiedermi se ho paura di loro, i terroristi. Un giovane egiziano mi confida che fa parte di una lista di cinquecento volontari per attacchi suicidi. Non ha l’aria di un folle… e non è mosso tanto dall’odio, quanto dallo spirito di sacrificio. Sono circondato da giovani ai quali è facile affezionarsi, ma di cui percepisco chiaramente la rischiosa deriva verso la quale potrebbero scivolare.

Consapevole che la deriva islamista può rappresentare una minaccia definitiva per le comunità cristiane orientali, che più volte descrive come in perenne esodo dal proprio paese, denuncia anche le responsabilità del regime che non ha voluto gestire una rivoluzione pacifica per paura di perdere un potere tenuto in piedi con la forza. E che di fatto ha provocato una reazione armata. Come pure è consapevole che lo stesso regime, già in grado di manovrare a distanza e usare l’area sunnita estremista in Libano e in Iraq fra il 2003 e il 2011, abbia potuto avere qualche responsabilità nei primi attacchi suicidi di Damasco all’inizio della rivoluzione, favorendo poi l’emergere di nuovi gruppi radicali sempre più in grado di autofinanziarsi, ricevere proventi dall’estero e infiltrare una forma di islamismo radicale tra le fila dell’opposizione.

Padre Paolo denuncia l’abbandono dei siriani da parte degli americani, e degli europei “che si sono nascosti dietro ai veti di Russia e Cina”, caduti tutti in una spirale di disinteresse dove l’invocata azione nonviolenta diventa giustificazione all’assenza di sostegno internazionale. Prende ad esempio diversi casi di uomini e donne che hanno conosciuto il carcere, e poi l’esilio, oppure la morte in cella di un familiare. Parla della prigione di Palmira, luogo di torture e abusi prima che perla del patrimonio archeologico universale messo a rischio dallo Stato Islamico.

Abbiamo ascoltato una testimonianza da parte di una persona che aveva vissuto dieci anni nella prigione di Palmira, uno degli inferni più spaventosi mai creati, il simbolo del terrore di tutto il paese. In quell’orrore senza fine sono incarcerati gli oppositori politici, i Fratelli Musulmani ma anche, per farla funzionare, dei giovani soldati disertori. Ne ho conosciuto diversi che avevano scontato 13 mesi di detenzione per non essersi presentati alla chiamata del servizio militare, oppure per non essere rientrati da un permesso. La disperazione e lo squilibrio psicologico raggiungono un livello tale che i giovani disertano pur sapendo perfettamente che saranno spediti a Palmira. Là vengono immediatamente picchiati, torturati, per distruggere qualsivoglia velleità di resistenza.

Una delle riflessioni contenute in queste pagine riguarda le comunità cristiane, ricche di una pluralità di punti di vista e non necessariamente e in modo compatto pro Asad. Se è vero che molti sono rimasti con il governo, per paura di qualcosa di ancora più terribile, ci sono cristiani che fin dall’inizio si sono dedicati alla lotta pacifica per la democrazia in Siria. Che hanno sempre vissuto con gli arabi, o con i curdi, e ora sono stati travolti dalla guerra civile. Ci sono cristiani che sono passati dal sostegno alle forze governative all’opposizione, e che hanno trasformato questa presa di coscienza in solidarietà. Altri infine sono stati costretti ad andarsene dal loro paese.

La stesura definitiva del libro avviene quando padre Paolo è già stato espulso dalla Siria, per le sue posizioni considerate troppo vicine alla rivoluzione, secondo il governo di Damasco. Uscito dal paese, va a vivere a Sulaymaniya, nel Kurdistan iracheno, nel monastero fondato nel 2012 da Padre Jens che oggi ospita anche tante famiglie di sfollati cristiani d’Iraq. Subito dopo riparte, rientra nella sua Siria. A fine luglio 2013 decide di andare a Raqqa per negoziare un’altra liberazione di ostaggi, pare rapiti dallo Stato Islamico, perché “la liberazione delle persone rapite è l’inizio per trovare una soluzione alla guerra e portare a termine la thawra, la rivoluzione”.

Titolo: Collera e luce: un prete nella rivoluzione siriana

Autore: Paolo Dall'Oglio

Editore: Editrice Missionaria Italiana

Pagine: 208

Prezzo: 12,90 €

Anno di pubblicazione: 2013



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