Carlo Levi e Giovanni Russo, storia di un’amicizia

E’ un bellissimo libro questo che Giovanni Russo ha dedicato all’amico Carlo Levi, ed è tale per un incrocio di ragioni. Primo, perché gli anni che vi fanno la parte del leone sono quelli dell’amicizia tra i due e quindi si tratta di un libro non solo saggistico, ma caldo.

In una delle fotografie che arricchiscono il testo, tra un Levi bambino in gonnellina come usava allora anche per i maschi, uno tra i “suoi” contadini ad Aliano (la Gagliano di Cristo si è fermato a Eboli) , un Levi azionista nel 1947 con Salvemini e Antonicelli e uno giornalista in India nel 1956 accanto a Nerhu, c’è un Levi in impermeabile chiaro, l’atteggiamento olimpico, quarantatreenne in piazza XVIII agosto a Potenza accanto – appunto – a un appena ventenne Giovanni Russo in doppiopetto, con l’aria a forza adulta che i giovanissimi avevano allora. La scoperta dei giovani come coorte anagrafica e commerciale era ancora di là da venire.

E’ il 1945. Il legame tra i due – con le visite quotidiane di Russo a Villa Strohl-Fern, a Roma, dove Levi viveva nel suo disordinato e alacre studio – durerà fino alla morte del pittore-scrittore, che avverrà a gennaio 1975. E di nuovo, ecco una fotografia che arriva da un mondo scomparso: qui è l’ultima e vi appare un Carlo Levi in poltrona, con la compagna Linuccia Saba – figlia di Umberto – accanto sul bracciolo, un plaid sulle ginocchia e gli occhiali neri che segnalano la sopravvenuta cecità, a seguito di un intervento alla retina.

Sono i mesi in cui, nel suo buio, Levi grazie a un elaborato sistema ha scritto lettera per lettera dentro i riquadri di una rete il testo che poi apparirà come Quaderno a cancelli, e sono i mesi in cui, sempre in quel buio, ha disegnato a memoria il paesaggio di sassi e di terra del Cristo, dove era approdato al confino nel 1934. E qui il sapore di un mondo perso deriva da quel che di ragionevolmente stoico c’è, nell’immagine di un uomo già eccezionale per solare vitalità, che nella terza età, seduto in poltrona, accetta di mostrare la propria cecità. L’età è l’età e porta i suoi guai: non c’era ancora il mito dell’eterna giovinezza.

Il libro, che raccoglie una serie di scritti evidentemente apparsi su giornali e riviste, o d’occasione, tratta con vicinanza la complessa vicenda artistica, giornalistica e politica di Levi nel trentennio in cui durò il sodalizio con Russo. Ma il “prima” preme: perché quel biennio in Lucania, tra il 1934 e il 1936, aveva segnato, per il più anziano, una sorta di seconda nascita. Torinese, di famiglia ebrea impegnata (suo zio Claudio Treves era tra i leader del Psi) laureato in medicina, allievo in pittura di Casorati e Modigliani, a Parigi vicino ai fauves, già nel 1924 con due sue opere alla Biennale, compagno di strada di Gobetti, fondatore di Giustizia e Libertà, era lì al confino. E quella seconda nascita era avvenuta complice un altro buio, ”in questa terra oscura e senza redenzione, dove il male non è morale ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose”, scriveva, la terra dove “Cristo non è disceso” perché “Cristo si è fermato a Eboli”.

Un’agnizione che avrebbe contagiato altri. Russo legge il libro appena appare nel 1945: “Aprii gli occhi su un mondo in cui ero vissuto senza vedere, che mi aveva circondato dall’infanzia senza che mi accorgessi dei suoi valori; era il mondo in cui affondavano le radici migliori della società lucana, era il mondo contadino” racconta. “C’era una distinzione molto netta allora tra i borghesi, anche intellettuali, e i contadini. Il Cristo, pur vivendo io in Lucania, fu una rivelazione. Fu la scoperta della realtà, non un messaggio mitologico o politico, come poi è diventato. Molte delle mie vicende personali, dei miei interessi, della mia esperienza di vita, sono dovuti a questo incontro con il Cristo”.

E qui siamo nell’altro motivo meno eccentrico del fascino di questo libro: la ricostruzione cioè del dibattito intellettuale e politico sul Meridione, alla vigilia della fine del fascismo, nel dopoguerra delle grandi speranze e alla nascita dell’egemonia democristiana. Attraverso la figura di un Levi azionista che accetta infine, nel 1963, l’avventura di essere eletto senatore come indipendente nelle liste del Pci. Col suo classico esito: due legislature, poi la nomenklatura lo espelle… Eppure, scrive Russo, Levi era stato il solo “a stabilire un rapporto tra noi e questo mondo antico”: con quel buio cioè in cui si era inoltrato in quel biennio, quel mondo antistatalista e quell’universo atemporale, quel Sud che ancora, settant’anni dopo, osserva Russo chiede di essere interrogato.

Carlo Levi segreto è un libro che pratica una religione civile. Tutt’altro che inattuale: semmai – lì dove evoca lo spettro della Lega – ci fa capire quale bisogno di una fede così avremmo oggi. E’ un libro bello per un ultimo motivo: fa venire in mente certe pagine che Raffaele La Capria ha scritto sull’amico Goffredo Parise. Perché anche questa è la storia di un’amicizia maschile raccontata con affettività e dolcezza, così come, sembra, in Italia solo delle penne meridionali riescono a fare.

Titolo: Carlo Levi segreto

Autore: Giovanni Russo

Editore: Dalai

Pagine: 151

Prezzo: 16,50 €

Anno di pubblicazione: 2011



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