Appiah: grande lezione di pluralismo
Anche morale e onore cambiano

Paese che vai usanze che trovi, e talvolta si salvi chi può. Sfidare a duello un gentiluomo inglese, spezzettare le ossa dei nostri piedi e comprimerli dentro fasciature per diventare ragazze da marito, oppure dotarsi di uno stuolo di schiavi per le proprie piantagioni, o infine doversi sposare con l’uomo che ci ha stuprate in ossequio al codice d’onore. Tutto questo era la morale fino a ieri, ma per fortuna che tutto scorre e le mode cambiano, spiega Kwame Anthony Appiah ne Il codice d’onore. Il volume ricostruisce, con un esame sociologico comparato, vari esempi di etichetta tratti da diversi codici culturali operanti in Inghilterra, Cina, America e Italia. Per chiedersi perché a un certo punto una tradizione cade in disgrazia. E rispondersi che molto spesso si evolve non perché sia sopravvenuta qualche evidenza razionale, ma perché abbiamo cambiato gusti, e si sono imposti nuovi e più forti codici d’onore. Il docente di Princeton (che scrive con una prosa cristallina e ha il gran pregio di evitare la pompa scolastica) dimostra così il legame a doppio filo tra morale e storia: ciò che ieri era “in”, nell’immaginario sociale odierno può tramutarsi in qualcosa di arretrato e financo riprovevole.

A sgretolare le brutte usanze, sia i bacchettonismi sia i progressismi servono a poco. Contro ogni retorica, già Edmund Burke e, ancor prima, Thomas Hobbes non esitavano a descrivere dignità e onore come il lucido con cui la gerarchia lustra se stessa. A fine Ottocento, una Cina che, da impero antiquato e ingessato di cerimoniosità quale era, voleva farsi stato moderno e rispettabile internazionalmente, abbandonò l’usanza della fasciatura dei piedi: questi fin dalla tenera età dovevano (non) crescere stipati in un bendaggio dall’effetto deformante per almeno tre anni. I piedi così inarcati venivano tenuti poi, giorno e notte per l’intera vita, dentro scarpine rigide adatte a sorreggere il peso della donna. Il cosiddetto Lotus era una pratica consentita solo ai ceti abbienti, perché inabilitava la donna al lavoro per meglio tenerla confinata ai suoi orizzonti domiciliari e ai suoi doveri matrimoniali. Dunque un certificato di qualità della buona estrazione sociale della fanciulla.

A favorire la rivoluzione morale in questo caso furono i missionari, i letterati riformisti e l’élite delle donne straniere residenti in Cina, che furono il cavallo di Troia delle idee occidentali. Idee che fanno breccia tra gli strati sociali più alti della società cinese quando toccano l’argomentazione fondamentale dell’onore nazionale da difendere. E dunque questa dolorosissima pratica è stata abolita non per porre fine, come diritto umano basico avrebbe voluto, a un millenario strazio, non per obbedire, come osservanza della legge avrebbe imposto, ai decreti imperiali che la vietavano, ma per salvare, come amor di patria comandava, la svergognata Faccia Nazionale, messa alla berlina dai visitatori occidentali, che fotografavano divertiti quella buffa fissa dei micropiedini, quella folcloristica barbarie.

Anche il duello in Inghilterra era illegale, gli uomini di scienza versavano fiumi d’inchiostro per censurarne l’idiozia, un David Hume in modalità indignados nel 1742 inserisce una stoccata contro il codice d’onore nel suo saggio Of the Rise and Progress of the Arts and Sciences, stigmatizzandone la trombonaggine, «roba da depravati e spendaccioni». Ma i lord inglesi se ne infischiavano delle prediche, non esitando a ostentare quello che era uno status symbol e un vezzo dandy. Solo quando il vento cambia, il duello s’involgarisce, prendendo piede tra più coatti ranghi sociali, la moda è dichiarata scaduta.

E così, beati i maschi d’Occidente nati dopo il XIX secolo, ché se la loro donzella viene oltraggiata non si rischia più l’alzataccia all’alba per improvvisarsi pistoleros (coi rischi del caso). Regolamenti di conti di tale sconveniente dispendiosità persistono solo in forme più arruffate e similbestiali, vedi la rissa in discoteca, pratica che, d’altra parte, è vituperata da qualsiasi ragazzo di buone maniere. Ma beate sono anche le donzelle italiote nate dopo il 1981, anno in cui è stato riformato il nostro codice penale che fin’allora riconosceva il delitto d’onore, e così non solo avevamo le fanciulle sedotte e abbandonate, magari anche violentate, che dovevano anche digerire un matrimonio riparatore che metteva a tacere i vicini di casa e amnistiava ogni familiare figuraccia (e sanzione penale), ma avevamo anche mogli e fidanzate ammazzate come galline per vere (o presunte) relazioni extraconiugali.

Orgogli e pavoneggiamenti di tal fatta hanno, per fortuna, trovato la loro Sant’Elena, oggi onore e reputazione si misurano altrove, e in modi meno sanguinolenti, in termini di follower, di ospitate catodiche o di illustri frequentazioni mondane. E se il proprio ego subisce una mortale offesa, l’ingiuriato si difende a colpi di querele, la burocrazia di tribunale lava l’onta meno poeticamente ma più efficacemente, e così si passa dalla pistola sguainata agli assegni, dai secondi ai legali, dall’onore all’onorario. In tempi democratici, poi, sbrodolare sul proprio rango è terribilmente out, per non parlare della dignità, che non si lesina a nessuno, è orizzontale e aggratis, ognuno può guardarsi allo specchio senza vergogna, basta essere human beings. E però, anche se il pavimento è comune, indubitabilmente restano pareti dove le arrampicate di status sono ancora ammesse, e gli addobbi appesi e sfoggiati, e quindi largo a narcisismi, amor propri, autocelebrazioni, lauree ad honorem, medagliette e menzioni speciali varie.

C’è poco formalismo kantiano in tutto questo, il retto agire come fine in sé incespica nel pantano dei secondi fini. C’è molto Hegel invece, in particolare c’è la celeberrima dialettica servo-padrone, la figura del filosofo tedesco esplorata nella Fenomenologia dello spirito: il riconoscimento della propria umanità passa per una lotta irriducibile con l’altro, un confronto-scontro tra reciproci desideri di essere riconosciuti dal mondo esterno. E il travagliato rapporto con l’alterità schiude prese in considerazione via via più vaste, facilitando progressivamente l’imporsi della dimensione cosmopolitica che già i cinici della Grecia antica, progenitori dl pensiero global, indicavano come la scala appropriata per il modus vivendi da preferirsi.

Chiarito che a misurare il nostro tasso d’onorabilità è il metro altrui, assodato che l’etica riveste la spinta a farsi onore soltanto occasionalmente, ci troviamo però di fronte all’attuale campo minato del conflitto tra culture. In quest’ottica, infatti, l’onore dipende dal riconoscimento degli standard presupposti da una tradizione, standard che sono plurali e che non è detto siano armonicamente assortiti. Inoltre, qualche volta il modello è rappresentato dalla buona azione, qualche volta no. Eppure, immunizzando i valori da ogni criticismo, non ci vuol molto a scivolare dal multiculturalismo all’«anything goes». Si tratta di temi delicati, già diffusamente affrontati da Appiah, ad esempio nel suo Cosmopolitanism, e che il professore di Princeton cinge tenendo presente la doppia inclinazione umana: l’afflato universalizzante dei propri credi da una parte, le istanze del radicamento dall’altra.

Il pensatore ghanese argina il rischio «relativismo storico» avanzando la tesi dell’esistenza di alcuni puntelli che eternamente, atavicamente, reggono lo sviluppo dei nostri costumi. Su queste strutture bisogna hegelianamente lavorare, con l’astuzia di istituzioni razionali, affinché si arrivi all’affermazione di una pluralità di codici d’onore che siano però compatibili con la moralità. Ragionamento che è «meno esigente», e più realistico, perché parte dalla considerazione dei meccanismi psicologici legati all’onore che hanno permesso ai gruppi d’evolversi e strutturarsi. Ma entrambi i sentimenti – morale e onore – sono necessari per il progresso delle società come l’acqua lo è all’azionarsi del mulino, come illustrato, in coda al volume, dagli esempi di missioni onorevoli di due personaggi reali che, senza paradigmi di riferimento ma carburate solo dal senso dell’onore, hanno sfidato in solitudine gli standard correnti comportandosi in modo inestimabile.

Duelli, fasciature ai piedi, schiavismo: gli abiti cambiano, ma l’istinto naturale di rimanere al top resta saldo nel tempo, perché «ciascuno di quei mutamenti è stato parte di una più lunga e ampia rivoluzione nei sentimenti morali, mirata a ridimensionare il ruolo della classe, della razza e del genere nel modellare la gerarchia». Certo, la molla della stima è poco edificante, risale all’età delle caverne e agli istinti dell’uomo predatore. In breve, vogliamo essere onorevoli perché abbiamo fame di cibo, sesso e potere. Così, per aggiornare i nostri habitus, a noi neocavernicoli è consigliato di riorganizzare l’offensiva, abbassare il tiro e far leva su tale istinto. È la proposta molto concreta, e per questo feconda, di Appiah: «L’onore non è moralità: tuttavia, i meccanismi psicologici che mette in moto possono essere indiscutibilmente messi al servizio dei successi umani».

Titolo: Il codice d'onore. Come cambia la morale

Autore: Kwame Anthony Appiah

Editore: Raffaello Cortina

Pagine: XIX-235

Prezzo: 24 €

Anno di pubblicazione: 2012



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