Adua che voleva essere Marilyn Monroe
fra la Somalia e Roma

Il colonialismo italiano e la Somalia. Roma e la sua forza di attrazione. Le violenze del fascismo, le violenze del colonialismo, le violenze di chi sfrutta il corpo delle donne e l’immaginario coloniale che tanto ha speculato sul corpo delle donne nere. Il corpo dei neri picchiati e il corpo di chi è vivo e sopravvissuto agli sbarchi di Lampedusa. La vita su due fronti: l’Italia e la Somalia, ora e nel passato, ora e negli anni Settanta, ora e durante il fascismo – quel passato che l’Italia fa fatica a ricordare e a metabolizzare. Non è un elenco spaiato ma l’insieme degli elementi che disegnano l’ultimo romanzo di Igiaba Scego, Adua (Giunti 2015).

La scrittrice italiana di origine somala racconta la storia di Adua e di Zoppe, figlia e padre, un romanzo a due voci che alterna e mette in scena le vicende di Adua – arrivata adolescente a Roma col sogno, infranto, di fare cinema – e del padre Zoppe, ultimo discendente di una famiglia di indovini, interprete durante il fascismo degli anni Trenta. Adua ormai è adulta, ha visto violare i suoi sogni da bambina e affida le sue confidenze all’elefantino del Bernini che regge l’obelisco in piazza della Minerva a Roma. Il racconto di Adua procede nel presente, quello di Zoppe si riferisce all’epoca fascista e al colonialismo, con la violenza che l’uomo deve subire in prima persona e quella che già vede, in alcune immagini che hanno il valore di visione e premonizione, sarà la violenza dispiegata dagli italiani in Africa. Anche la vita di Adua sarà segnata dalla violenza: la giovane arriva a Roma piena di speranze, col sogno di diventare una star del cinema e di essere come Marilyn Monroe – «Già mi vedevo avvolta in un abito nero Givenchy come Audrey Hepburn, pronta a spiccare il mio personale volo verso il successo. Ero piaciuta agli italiani. Mi avrebbero fatto fare un film. Mi avrebbero resa immortale» – ma quello che troverà è solo un film a luci rosse, la violenza psicologica e fisica di chi vuole sfruttare il suo corpo di donna giovane bella e nera e farci i soldi. Adua racconta tutto questo da adulta provata dalla vita. Accanto a lei c’è un giovane marito che lei chiama “Titanic”, un ragazzo sopravvissuto agli sbarchi di Lampedusa e sposato per dargli un tetto e una casa. Titanic e i giovani come lui chiamano le donne della diaspora Vecchia Lira. E il rapporto fra Vecchia Lira e Titanic è a volte affettuoso, a volte scostante e duro come le loro vite. Titanic sta per andarsene. Cosa farà Adua, quale sarà il suo futuro? E cosa ci svela il racconto del padre Zoppe che riporta agli anni del fascismo?

Sono due ritratti di persone che cercano se stesse, la libertà, il riscatto. Attratte dal miraggio dell’Italia, protagonista in tandem con la Somalia della storia e dei luoghi in cui il romanzo si dipana – da una parte Roma dall’altra la cittadina somala di Magalo. Nel racconto di Igiaba Scego «si intrecciano tre momenti storici: il colonialismo italiano, la Somalia degli anni ’70, e la nostra attualità che vede il Mediterraneo trasformato in una tomba a cielo aperto per i migranti», racconta la stessa autrice nella nota storica a fine romanzo. La storia fa da cornice al racconto di due vite segnate dal dolore e dalla violenza e dal peso che quella stessa storia avrà sul loro vissuto. Zoppe lavora come interprete e traduttore durante il fascismo ma questo non lo salva dallo sfruttamento e dalla violenza anche quando si trova a Roma – «Per strada correva sempre. Voleva essere scambiato per un’illusione ottica, non per un negro». Adua da ragazzina sognava l’Italia, sognava il cinema, voleva essere come Marilyn Monroe. «Nessuno ci aveva mai raccontato che il colonialismo era il male. Anche chi conosceva la verità ha taciuto. Mio padre, per esempio, ha taciuto. Biascicava frasi, parole così vaghe che non spiegavano, non raccontavano. Ero una ragazzina, non pensavo alle faccende della politica. Io volevo essere come Norma Jean e basta. Del resto me ne fregavo. Volevo le luci, il trucco, i premi, i tappeti rossi, i baci appassionati. Volevo sognare, ballare, volare. Volevo scappare. L’Italia era ovunque nella mia vita. L’Italia erano i baci sulla bocca, la mano nella mano, l’abbraccio appassionato. L’Italia era la libertà. E io speravo tanto che potesse diventare il mio futuro». In realtà l’Italia che Adua incontra la sfrutterà approfittando dei suoi sogni di celluloide e della sua ingenuità di ragazzina. Una vita segnata dal dolore e difficile come lo è quella di Titanic, sopravvissuto alle onde del Mediterraneo, alle violenze e allo spaesamento di chi rimane e deve ricostruire i cocci della sua esistenza.

È una dura vita quella che Adua racconta, non meno di quella che ha vissuto suo padre, non meno di quella che il giovane Titanic ha sperimentato sulla sua pelle. La capacità di Igiaba Scego è quella di rendere questa durezza anche attraverso il linguaggio: asciutto, aspro, duro, essenziale. Nell’ultimo romanzo della scrittrice tornano alcune costanti della sua opera: il passato coloniale italiano col quale l’Italia da sempre fatica a fare i conti; l’immaginario coloniale; il legame fra Somalia e Italia e l’affetto che emana verso entrambe; la dura realtà che si è imposta e tuttora s’impone nei confronti delle donne e del loro corpo.

Di un romanzo non si dovrebbe mai raccontare troppo, perché questo ha bisogno di scavare piano nell’animo di chi legge. Questo romanzo è tutto da leggere per le vite che racconta e per lo sfondo storico, che ha il valore di un protagonista a tutti gli effetti – un protagonista, fra fascismo, colonialismo, migrazioni presenti, di cui molti non vorrebbero (più) sentir parlare.

Titolo: Adua

Autore: Igiaba Scego

Editore: Giunti

Pagine: 192

Prezzo: 13 €

Anno di pubblicazione: 2015



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