A Oriente del Califfo.
Un volume sullo Stato Islamico in Asia

È di recente uscito per Rosenberg&Sellier il volume “A Oriente del Califfo. A est di Raqqa”. A cura di Emanuele Giordana e con la collaborazione dell’associazione di giornalisti indipendenti, esperti di politica internazionale, Lettera 22 di cui Giordana è stato cofondatore, il libro propone un’analisi di come il progetto dello Stato islamico si sia diffuso e si stia sviluppando al di là del mondo arabo, in quel territorio che si espande dall’Asia centrale alla Cina, passando per la Russia, l’Afghanistan, l’India, l’arcipelago indonesiano, Myanmar e le Filippine. Un’area che conta una presenza musulmana significativa e di gran lunga più numerosa di quella a cui si pensa nei confini più ristretti del mondo arabo-islamico. Eppure di tutta la zona che si estende a Oriente del Califfo non si sa molto se non conoscenze disordinate, talvolta molto confuse. Questo volume, grazie ai contributi di dieci giornalisti – Paolo Affatato, Giuliano Battiston, Guido Corradi, Tiziana Guerrisi, Matteo Miavaldi, Massimo Morello, Andrea Pira, Ilaria Maria Sala, Lucia Sgueglia e lo stesso Emanuele Giordana – passa in rassegna i diversi paesi mettendo in evidenza le specificità delle vicende e dei cambiamenti politici e sociali di ogni contesto ma anche facendo emergere gli elementi comuni su cui fa perno il Califfato islamico quando guarda a est.

Di seguito vi proponiamo – per gentile concessione dell’editore e del curatore – un estratto del libro, precisamente la postfazione.

La prova del Califfo. Guardando al futuro dalla parte dei musulmani asiatici

di Ilaria Maria Sala

Mentre scriviamo queste righe, San Pietroburgo è ancora sotto l’impressione e il dolore dell’attentato alla metropolitana del 3 aprile 2017, che ha provocato almeno quattordici morti e più di sessanta feriti. Probabile autore dello scempio, secondo quanto detto inizialmente dalle autorità russe, è un giovane kirghiso di 23 anni, morto nell’esplosione. Anche se al momento di scrivere l’attacco non è ancora stato rivendicato da nessun gruppo politico o religioso, quanto avvenuto dimostra l’urgenza del testo che presentiamo, e la terribile attualità di una tensione che si è affermata nella quasi interezza della aree del continente Euroasiatico, così come delle isole che lo circondano. Prima ancora che si sappia con certezza la matrice che ha ispirato l’attentato, possiamo dunque richiamare l’attenzione sulla costante già descritta in questo testo: ovvero, quanto la seduzione di violenze giusti cate dal richiamo ideologico lanciato da al-Baghdadi si sovrapponga sempre a tensioni molto precedenti alla formazione dello Stato Islamico – e che hanno a che vedere con un ampio ventaglio di questioni che non lo riguardano direttamente. Locali, e internazionali.

Una volta di più, infatti, quello che abbiamo cercato di analizzare in questo lavoro dimostra no a che punto sotto il mantello del “terrorismo religioso” o ancor più del “terrorismo islamico” molto di quanto occupa la cronaca internazionale sia stato scatenato da una rivolta che, inizialmente almeno, di religioso o islamico aveva ben poco – ma che viene sapientemente incanalata in questa direzione dalle capacità comunicative, manipolatorie e intimidatorie di Raqqa. Le differenze che sono state affrontate con chiarezza e precisione negli interventi contenuti in questo volume non coprono gli elementi comuni, ed è dunque opportuno soffermarsi su entrambi questi aspetti per sondare quali possano essere gli sviluppi che ci attendono: quali sono le comunanze, quali le differenze?

Una signi cativa parte della seduzione che lo Stato Islamico esercita sulle frange maggiormente alienate delle popolazioni dei paesi che abbiamo affrontato nelle pagine precedenti va a rispondere a una profonda crisi identitaria, che quasi inevitabilmente squarcia l’apparente armonia delle nazioni che cercano la soluzione di ogni male in una forte centralizzazione politica e culturale. È il caso della Russia, in parte dell’Asia Centrale, ma ancor più, della Cina e del Myanmar: paesi che hanno deciso, ormai da decenni, che la miglior medicina è quella più drastica, una repressione dura, sorda a ogni dialogo e senza quartiere, che dovrebbe avere il compito di rimuovere con la paura ogni tentazione di ribellione violenta. Se decidessimo di osservare la situazione in campo solo partendo dal presente, non si tratterebbe di una strategia condannabile in toto e a priori. L’esempio cinese, invece, mostra più di altri quanto del disastro attuale sia da ricercare nel passato recente, e sia stato ciecamente favorito dalle politiche di Pechino nei confronti dello Xinjiang. Regione autonoma solo sulla carta, che dal momento della sua conquista da parte delle truppe dell’Esercito di Liberazione del Popolo nel 1949 non ha più avuto modo di determinare il suo futuro. Terra chiave di frontiera, luogo di passaggio per commercio, idee, loso e e religioni (non dimentichiamo che sia il buddismo come l’islam sono entrati in Cina per queste vie) per tutta la sua storia secolare, abituata a una convivenza multietnica che vedeva gli uiguri maggioritari, sì, ma in mezzo a russi, cinesi, tagichi, kirghisi, kazachi, uzbechi, “pachistani” ante litteram, hui, xibo, salar e svariati altri, si ritrova oggi minoranza reale davanti a una massiccia presenza cinese, condotta nelle terre del Turkestan orientale con la forza prima, e con le lusinghe dopo. Se in epoca maoista infatti i cinesi delle pianure venivano condotti a colonizzare il Xinjiang con treni appositi, oggi chi voglia recarvisi può contare su un trattamento di favore per quanto riguarda l’assegnazione delle terre e nanziamenti. Un ribaltamento demogra co che ha studiato alla scuola di Stalin, e delle sue politiche di spostamento massiccio della popolazione, che ancora non smette di creare danni.

Nel caso cinese il timore di sparire, di diventare irrilevanti nella propria terra, di essere obliterati come cultura e come popolazione ha senz’altro spinto i più violenti verso l’estremismo – portando decine di giovani uomini a unirsi ai foreign ghter sia in Asia Centrale sia in Siria. Ben più numerosi, invece, sono quelli che hanno contribuito all’incremento del sospetto e della discriminazione nei confronti degli uiguri rendendosi colpevoli delle decine di attacchi all’arma bianca che si sono veri cati su suolo cinese negli ultimi venti anni. A fare da corollario a questa lenta tragedia, che ogni esperto aveva predetto, vi è sempre l’estrema esiguità di informazioni che vengono diffuse, dato il controllo totale che Pechino detiene sui mezzi di informazione. La reazione del governo, del resto, ha voluto declinarsi solo nei termini della repressione, il che rende ancor più inviso il tentativo di pochi – intellettuali, giornalisti e dissidenti – di fornire versioni alternative o se non altro più complete, dei fatti. Non a caso, le voci moderate sono state tutte messe agli arresti, costrette alla clandestinità o all’esilio. Prima fra tutte, va ricordata quella del professore di economia Ilham Tohti, condannato all’ergastolo per “attività separatiste” dopo aver cercato in tutti i modi paci ci e inclusivi di spronare un dialogo che rendesse possibile una convivenza nel mutuo rispetto fra cinesi e uiguri. E va ricordato anche come il Premio Nobel per la pace Liu Xiaobo, uno dei coautori della Carta 08 che chiedeva riforme politiche, aveva inserito in questo testo così moderato eppure così inviso alle autorità cinesi un appello a una reale apertura verso l’autonomia dei gruppi culturali ed etnici non-maggioritari nel Paese. Ma questo audace tentativo di incoraggiare il dialogo è valso a Liu una condanna a undici anni di detenzione che sta scontando nella prigione di Jinzhou, nel Liaoning.

Sotto Xi Jinping, presidente cinese ma prima di tutto segretario generale del Partito comunista, la repressione si è fatta capillare e invadente, e se quanto avvenuto no a oggi serve da guida, gli attacchi all’arma bianca, o peggio, dif cilmente smetteranno: per chi pensa di aver perduto tutto, come abbiamo visto in diversi passaggi di questo volume, la folle prospettiva di perdere la vita morendo da martire ha un appeal dal quale è dif cile distogliere. Una tragedia, i cui meccanismi sono ormai divenuti rigidi e duri, rendendo ogni marcia indietro ogni giorno più ardua.

Se l’India sembra essere una specie di oasi in cui un vaccino antiestremismo è riuscito a mantenere i quasi 200 milioni di musulmani indiani impassibili davanti alle seduzioni di un movimento armato e violento e che si rifà al Califfato, il progredire per ora inarrestabile dell’estremismo hindu, e la “zafferanizzazione” della politica nell’era di Modi lasciano temere che l’usuale innescarsi di causa ed effetto porti a un rinnovarsi delle tensioni anche nel Subcontinente indiano – considerando quanto queste non siano mai del tutto sopite nel Kashmir conteso, e quanto l’impunità con cui i crimini sempre più selvaggi degli estremisti hindu ai danni dei musulmani indiani stia creando profonda alienazione fra chi osserva impotente.

L’equazione, infatti, non è lineare: non è perché i rohingya, abbandonati dal mondo intero, sono costretti a scappare dai pogrom portati avanti dal fondamentalismo buddista in Myanmar che l’intera popolazione dell’Arakan sia ora materiale per le la del Califfato. Ma nella mentalità malata dei leader di questo movimento, ogni offesa a un “confratello” o “consorella” è ottimo materiale da propaganda – che abbiamo visto con quanta maestria sia padroneggiata da chi crede nel Califfo, che sia online o meno.

In altri contesti, in particolare nel Sudest asiatico, quello a cui assistiamo potrebbe, paradossalmente, offrire maggiori prospettive di risoluzione paci ca, se – e non è chiedere poco – gli espedienti politici elettorali del momento potessero lasciare spazio a pause di ri essione più tranquille. Davanti all’avanzare dei movimenti fondamentalisti islamici, infatti, molti politici malesi e indonesiani si sono preoccupati maggiormente di sottolineare le proprie credenziali religiose che non quelle democratiche, lasciando intendere ai partiti islamisti che premere sulla leva del timore di non essere un “buon musulmano” dava maggiori frutti che non il rispettare i principi inclusivi e democratici delle rispettive nazioni. Ma nelle democrazie, per quanto fragili, abbiamo visto che il rischio di derive violente o seduzioni inarrestabili, seppur presente è però del tutto inferiore: una lezione che tanto la Malaysia che l’Indonesia, che la stessa India e le filippine, sembrano tener presente, anche nei momenti in cui, dal di fuori, sarebbe facile lasciarsi andare a giusti cate inquietudini.

Il futuro, dunque, è tutto determinato dalla capacità dei singoli stati di far fronte alle emergenze interne senza invocare il terrorismo islamico come unica fonte di problemi, e di saper affrontare quelle che vengono dall’esterno con il sangue freddo e la capacità strategica che la situazione richiede. In questo, il mondo intero può contare su un alleato involontario: la brutalità dello Stato Islamico. La sua repellente mancanza di umanità è talmente forte da respingere anche i militanti islamici più devoti. Un’opportunità che sarebbe follia non cogliere.

A oriente del Califfo. A est di Raqqa: il progetto dello Stato Islamico per la conquista dei musulmani non arabi

A cura di Emanuele Giordana
Con la collaborazione di Lettera22

Con i contributi di Paolo Affatato, Giuliano Battiston, Guido Corradi, Tiziana Guerrisi, Matteo Miavaldi, Massimo Morello, Andrea Pira, Ilaria Maria Sala, Lucia Sgueglia

quarta oriente del califfo

Titolo: A oriente del Califfo. A est di Raqqa: il progetto dello Stato Islamico per la conquista dei musulmani non arabi

Autore: a cura di Emanuele Giordana, con la collaborazione di Lettera22

Editore: Rosenberg&Sellier

Pagine: 188

Prezzo: 15 €

Anno di pubblicazione: 2017



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