La terza via del secolarismo?

Il compito che le pagine di questo dossier presentano come necessario è quello di «ripensare il secolarismo», se vogliamo usare la formula corrente in inglese, oppure «ripensare la laicità» se vogliamo usare la formula «continentale» corrente in Francia (e anche nella nostra penisola, come in quella anatolica). Perché occorre ripensare dei confini che pensavamo così ben tracciati? Le ragioni che rendono indispensabile farlo sono molte: la globalizzazione, le immigrazioni, il pluralismo multietnico e multireligioso delle nostre città, l’11 settembre che ha portato in scena il «terrorismo religioso» e, ultimo arrivato ma assai importante, il cambiamento politico nel mondo arabo, che presenta il volto, complicante, di una «democrazia religiosa», con i partiti islamici che vincono le elezioni e con una Turchia, dove l’avvicinamento all’Europa ha coinciso con la crisi del regime kemalista-laicista e l’avanzata di una ispirazione religiosa musulmana, all’insegna proprio di una riduzione del «muro» di contenimento della fede maggioritaria in quel paese.

Il lavoro di ripensamento è già iniziato negli anni scorsi con l’annuncio di una società e di idee «post-secolari» (termine introdotto nella discussione filosofica da Jürgen Habermas), che si fanno strada nonostante la sordità di molta cultura religiosa e di molta cultura laica. C’è chi pensa, di qua e di là del famoso «muro di separazione» come piaceva chiamarlo a uno dei suoi fondatori, Thomas Jefferson, che la stessa separazione sia una soluzione definitiva e non bisognosa di alcun aggiustamento. Una volta tirata la linea dove costruire il muro, che divide ciò che è politico da ciò che è religioso, i giochi sono fatti, un po’ come il Muro di Berlino divideva con chiarezza una dittatura comunista da uno stato democratico. Scopriamo invece che le righe non sono così diritte e che i confini sono sempre più spesso confusi. Che fare?

Il lavoro da fare è difficile perché le varie posizioni in campo danno per scontati assunti che scontati non sono circa quel che la laicità è nella sua essenza. Lasciando da parte i vari significati della parola, che hanno pure corso ordinario, (laicità come non credenza, laicità come non appartenenza al clero, ecc.) e fermandoci a quello per noi (e anche per la Corte costituzionale italiana) qui più significativo, ovvero laicità come «principio supremo» e come carattere delle istituzioni statali separate dalla sfera religiosa e rese neutrali e non interventiste nei confronti delle diverse confessioni, bisogna dire che esso ben riflette la storia di uno Stato e l’emergere dell’ordinamento liberale e democratico nazionale da un conflitto con la Chiesa, regolato con un Concordato nel 1929, il quale è stato poi inserito nella Costituzione repubblicana del 1947, revisionato nel 1984 e tuttora oggetto di contestazioni da parte di minoranze laiche. Sulla «neutralità» effettiva dello stato italiano molto ci sarebbe da obiettare, data la natura pattizia dei suoi rapporti con la Chiesa, dato che vi sono effettivamente squilibri a vantaggio della religione maggioritaria (dal finanziamento attraverso la generosissima ripartizione dell’8 per mille all’organizzazione dell’ora di religione cattolica a carico dello Stato), ma un pieno compimento del regime concordatario in un contesto plurale potrebbe equilibrare i rapporti moltiplicando i patti ed estendendoli a tutte le confessioni: processo in corso ma mai portato a termine.

La discussione che ci viene ora imposta dai fatti nasce dalla emersione sempre più vistosa e consapevole di forti minoranze religiose in Europa, ma anche dall’affacciarsi sulla scena di partiti di ispirazione islamica in posizione preminente in Turchia e nei paesi arabi del dopo-primavera. Il testo che qui pubblichiamo di Mohammed Khatami, l’ex presidente iraniano, inviato a Reset-Dialogues, illustra tra le condizioni per uno sviluppo del dialogo tra Est e Ovest dopo la primavera araba, la necessità che l’occidente accetti una idea della democrazia che non si identifichi totalmente con il secolarismo, alla lettera «che non sia parte integrante del secolarismo» (e cioè della laicità).

Khatami è un esponente religioso dell’opposizione al regime di Teheran e quando parla di secolarismo si riferisce evidentemente non al principio di separazione in sé, ma alla forma e alla sostanza cui questa separazione ha dato luogo in occidente, dove lo sviluppo dei diritti soggettivi individuali ha prodotto una forma di secolarismo, che agli occhi di chi appartiene a un’altra cultura, iraniana, araba, o anche indiana, non è semplicemente una forma di «neutralizzazione» delle istituzioni pubbliche nei confronti delle religioni – e cioè la non confessionalità dello Stato –, ma di fatto qualche cosa di più: una forma di vita, una concezione diversa della famiglia, del pudore, della tradizione, del corpo, dell’onore.

Un liberale non può e non deve rinunciare alla libertà individuale di rifiutare l’imposizione di un modello di vita buona da parte di una ideologia o concezione qualsivoglia, ma un liberale riflessivo e non etnocentrico non può neppure pretendere che si considerino lo stile di vita di una società occidentale contemporanea – il tipo di famiglia e di divorzio, il trattamento del corpo femminile nei media, l’ordinario commercio di sesso, l’elevata indifferenza per la miseria, la frammentazione delle relazioni di comunità e tante altre cose – come qualche cosa di puramente «neutrale» dal punto di vista della sostanza umana e dalla cultura sostanziosa di cui è fatta la nostra vita.

È vero che tutto questo è il frutto della elevata libertà individuale, alla quale le società occidentali non hanno alcuna voglia di rinunciare. Non ha intenzione di rinunciarvi neppure la Turchia di Erdogan, se è vero quel che ha detto il primo ministro e leader del partito di maggioranza AKP, quando si è recato in Egitto prima delle elezioni: «Io sono un islamico non laico», ha esordito, «ma sono primo ministro di uno stato laico e dico: spero che ci sarà uno stato secolare in Egitto; non bisogna diffidare della laicità; l’Egitto crescerà nella democrazia e chi sarà chiamato ad elaborare la Costituzione deve capire che deve rispettare tutte le religioni e tenersi alla stessa distanza dagli adepti di tutte le religioni, perché tutta la società possa vivere in sicurezza» (si veda l’articolo su Resetdoc, di Nicola Mirenzi). Impeccabile anche nel riferirsi alla parola, in francese, sia pure deformandola con l’accento turco, laïzité.
Che cosa potrà mai dunque essere una «democrazia religiosa», come quella che si affaccia nell’ideologia dei partiti islamici che vincono le elezioni in Egitto, Tunisia, Marocco e forse presto altrove? Da una parte una democrazia liberale confessionale non è concepibile, dal momento che un carattere delle democrazia liberale è la libertà religiosa necessariamente plurale, senza discriminazioni nei confronti di qualunque credenza, compresa la libertà dei non credenti di professare idee atee senza subirne conseguenze di alcun genere. Dall’altra una società in cui decenni di affermazione dei diritti individuali soggettivi abbia eroso le tradizioni e modificato radicalmente la famiglia, il matrimonio, le credenze, mostra inevitabilmente un volto tanto trasformato da far sì che il secolarismo appaia ad altre culture come una «ideologia comprensiva» non il frutto della pura applicazione del «muro di separazione».

È questa la distanza culturale e psicologica, molto grande, che oggi separa il mondo arabo, nelle sue aspirazioni democratiche, dalle società europee, con una ulteriore complicazione storica, che ha introdotto una dinamica confessionale nella svolta politica: la svolta prodotta dalle rivolte è stata condotta nel nome della libertà da minoranze che non avevano una precisa ideologia né un programma politico, ma l’opposizione alle dittature è stata condotta per decenni, in Tunisia, in Egitto e in Libia, da organizzazioni e leader confessionali, musulmani, il che proietta una giustificata ipoteca sul futuro politico di questi paesi.
Se rimane dunque vero che alcuni caratteri di una democrazia sono indiscutibili, qualunque sia la storia e la cultura nella quale essa si trovi concretamente ad essere coniugata (la libertà di opporsi al governo in carica, di organizzarsi politicamente per sostituirlo, di pubblicare stampa di opposizione senza rischiare la vita, la libertà delle minoranze di professare culti diversi da quelli maggioritari e di far valere i propri diritti ecc. ) è anche vero che le forme che il secolarismo, ovvero la laicità, può assumere sono molteplici. Se ora ci domandiamo se è immaginabile che la Tunisia o l’Egitto assumano un regime di laicità, del tipo di quella francese, è evidente che la risposta sarà negativa. Certe limitazioni e proibizioni per il velo o il burqa o per i simboli religiosi «vistosi» nelle scuole pubbliche (velo o crocifisso) sono discutibili anche in suolo francese, e sono impensabili tanto in paesi a maggioranza musulmana quanto in paesi con una forte tradizione di pluralismo culturale (come il Canada, gli Stati Uniti o la Gran Bretagna). In presenza di una così forte varietà di «laicità» in occidente e in presenza di nuove domande dal mondo arabo, è necessario un forte ripensamento da parte occidentale, delle categorie con le quali ordinariamente affrontiamo questi problemi.

E anche i più accaniti difensori della tradizione laica devono adattarsi a veder messa in discussione la assolutezza delle loro convinzioni. Nel campo delle scienze politiche le scuole del «ripensamento» non sono più marginali e non riguardano minoranze confessionali in circa di rivincita, ma stanno diventano mainstream del pensiero liberale pluralista. La tendenza è bene indicata dall’opera collettiva, pubblicata da Craig Calhoun (neo-direttore della London School of Economics), Mark Juergensmeyer (UC Santa Barbara) e Jonathan Van Antwerpen (New York University), Rethinking Secularism, (Oxford Un.Press, 2011).

Uno dei temi dominanti di questo lavoro è rappresentato dal contributo di uno studioso indiano Rajeev Barghava, (in questo dossier il suoi profilo e la sua intervista), che raggruppa i tipi principali di laicità occidentale in due modelli, quello americano e quello francese: nel primo la laicità è concepita come la pura separazione tra Stato e religione, nel secondo è intesa come una separazione «a senso unico» della religione dallo Stato, per cui quest’ultimo deve essere libero di interferire nella sfera religiosa, limitandola, contenendola, allontanandola dalla sfera pubblica. Ora nessuno di questi due modelli è applicabile con speranze di successo nei paesi arabi. Una laicità di contenimento era quella praticata dalle dittature secolari e dai poteri coloniali. Barghava propone perciò, senza rinunciare alla necessità dei «minimi vitali» di una forma secolare, di utilizzare una diversa categoria di pensiero, invece della «separazione» la «distanza»: una distanza con principi, principled distance, che dia allo Stato il potere di interferire «negativamente» con le istituzioni religiose nel momento in cui queste ultime violano i diritti fondamentali dei cittadini, o qualora la religione dominante opprima i gruppi minoritari. Questo significa che lo Stato possa e debba finanziare sia le scuole confessionali musulmane sia quelle non musulmane, per esempio in Egitto quelle copte. Imparzialità dunque e distanza dalle pratiche lesive dei diritti di cittadinanza e della libertà di religione.

In questa area non schematica di intrecci tra dimensione religiosa e poteri politici, può essere concepibile una democrazia, in un contesto arabo, che istituzionalizzi anche un riferimento nella Costituzione o nelle leggi ai principi islamici, ma affermi le garanzie per le minoranze e preservi una distanza di azione dello Stato nei confronti delle pratiche religiose lesive della dignità umana e dei diritti della persona, proprio come in India l’azione pubblica, sia a livello federale sia a livello statale, con la Costituzione e con apposite leggi ha rimosso le pratiche hindu che discriminavano la casta degli intoccabili impedendo loro l’accesso ai templi.

Sullo stesso terreno, quello della rivendicazione di una idea di laicità che rifugga dal presentarsi come ideologia sostantiva e si renda compatibile con una cultura diversa da quella dei paesi occidentali Radwan Masmoudi, un intellettuale tra i protagonisti della svolta democratica tunisina, vicino all’area del partito islamico EnNahda in un’altra intervista parla della difficile ma inevitabile ricerca di un equilibrio tra libertà di espressione e valori culturali e religiosi. Sarà un cammino difficile quello che dovrà percorrersi tra rischi di censura, minacce di gruppi estremisti, e libertà effettiva per la cultura, per la stampa, per gli artisti. Ma non c’è altra strada che questo cammino difficile, nel quale le minoranze liberali e laiche avranno molto da dire, per impedire che le concessioni alla cultura prevalente e alla tradizione si trasformino in oppressione della maggioranza islamica e in nuove forme di dittatura, di segno questa volta confessionale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *