Tra realismo e idealismo, la lezione americana

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Con questo dossier, Reset inaugura il nuovo corso on line. E continua il discorso che abbiamo interrotto poco tempo fa. «Ci vediamo di là», abbiamo scritto sull’ultima copertina. Ed eccoci qui. Cominciamo con un tema filosofico che ci rimanda a molte pagine belle che avevamo lasciato negli archivi. E che ora ritroverete qui, un po’ per volta. Rieccoci in un dialogo che continua e che vogliamo allargare, con questo più agile strumento. Per ora del tutto gratuito. Seguiteci, scriveteci. Registratevi nella newsletter se volete ricevere più informazioni su quel che faremo.
Il direttore

Il vantaggio delle discussioni filosofiche, accademiche ma anche di quelle meritoriamente giornalistiche, intorno al realismo (se la realtà esterna, là fuori, esista indipendentemente da noi soggetti che cerchiamo di conoscerla) è quello di restituirci immagine e sostanza di una filosofia che non resta confinata alle discussioni tra i professionisti, ma ci riguarda, quando funziona, potenzialmente tutti. L’ultima ondata l’ha provocata Maurizio Ferraris con il suo Manifesto di un nuovo realismo (Laterza) cui è seguito anche un convegno internazionale all’Università Bonn, al quale hanno partecipato Hilary Putnam, Akeel Bilgrami, John Searle (di questi ultimi due pubblichiamo in questo dossier un contributo, tratto dal loro intervento, altri seguiranno). Avevano avuto lo stesso effetto i precedenti annunci di «estinzione del postmoderno», apparsi sulla rivista inglese Prospect, di cui «Reset» si è già occupata negli anni scorsi. Alla dichiarazioni di morte del «pensiero debole» (nonostante la buona salute dei suoi celebri sostenitori, Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo) si sono nel tempo accompagnate (prima, durante e dopo) numerose dichiarazioni di morte della metafisica, di ogni genere di fondazionismo e di fondamento, di ogni teoria del rispecchiamento della realtà nel pensiero, tanto che sarebbe difficile tenere l’elenco dei «necrologi», da Wittgenstein in avanti.

Basterà ricordare che una raccolta di scritti degli anni Ottanta si intitolava After Philosophy e si apriva con un introduzione di Richard Rorty, «The End of Philosophy»; seguivano le firme di Lyotard, Derrida, Davidson, Foucault e via cannoneggiando le postazioni dei realisti. La verità è che nessuno di questi assalti finali alle schiere avverse è stato finale e che la discussione appare più che mai vitale, dal momento che vivacissime sono tuttora le file di filosofi che alimentano questa discussione, da entrambe le parti.

Nel tempo abbiamo però appreso qualche cosa che cerco sommariamente di riassumere: a) che nelle dispute filosofiche tra realismo e idealismo, più o meno trascendentale, sono sempre meno convincenti coloro che si fanno avanti con ambizioni conclusive rispetto a chi, più prudente, cerca di presentare la propria posizione accogliendo le più evidenti ragioni della parte avversa e tenendo conto delle sue obiezioni, b) che i tentativi di individuare un argomento decisivo nei risvolti politici della posizione dell’avversario, idealista o realista, non vanno quasi mai a segno in maniera efficace, c) che la conversazione filosofica che nel mondo attuale si sente di più il bisogno di incrementare sarà quella che attivi risorse per la apertura mentale sugli altri mondi, per la tolleranza, per attrezzare la convivenza con forti differenze culturali, in una parola per il pluralismo.
Il primo dei due insegnamenti implica una conseguenza «di parte»: le filosofie più disponibili ad accettare la inesauribilità della discussione e anzi a cogliere come parte della propria visione del sapere umano il principio che, per definizione, nessuno si ritroverà mai tra le mani la risposta finale sono evidentemente da preferire rispetto alle altre.

Il secondo consiste nell’adattarsi all’idea che una posizione filosofica non sarà di per sé portatrice di progetti politici autoritari o democratici per il fatto di essere più o meno incline verso il realismo o verso il postmodernismo. Le cronache filosofiche e storiche sono piene di usi e abusi terrificanti tanto degli amici dei demolitori dell’Essere e di Dio quanto dei supporters delle metafisiche cristiane. C’è bisogno di citare stermini nazisti e roghi di eretici? genocidi e cacce alle streghe non sono conseguenze di cattive educazioni filosofiche o religiose ma, si sa, dipendono dalla migliore o peggiore fioritura di condizioni di civiltà capaci di ingentilire i costumi.

Il grande inquisitore Bernardo Gui credeva nell’esistenza di Dio e del creato, con fermezza di realista, non più e non meno del liberale Luigi Sturzo, e d’altra parte ben si sa degli omaggi nazisti a grandi detrattori della metafisica. Non anticipo il finale, ma non posso fare a meno di citare un filosofo che ci è caro, secondo il quale non c’è argomento teorico che possa fermare i terroristi islamisti più di quanto possa fare una solida fioritura di borghesie illuminate, nei paesi musulmani, che affrontino il cambiamento di pensiero che le borghesie cristiane hanno affrontato tra il Seicento e l’Ottocento. Al punto b) ho aggiunto un «quasi» perché a quella esenzione di colpa della filosofia va aggiunta una riserva quando l’ideologia, la teologia, la dottrina diventano istituzione totale, incapace di tollerare ogni tipo di altro o deviante. E non c’è dubbio che alcune metafisiche si prestino a diventare potere oppressivo, più della filosofia liberale di Rawls o del realismo di Ferraris. Tuttavia resta vero che non c’è, a ben vedere, preferenza filosofica che non possa finire in bocca a un dittatore sanguinario. Dunque non incoraggiamo imputazioni politiche al realismo o all’idealismo, stiamo ai fatti e continuiamo la conversazione filosofica con argomenti in re.

Nel corso di questa conversazione (terzo insegnamento) sono da incoraggiare le prospettive più favorevoli ad accogliere il pluralismo delle culture umane in un’epoca che costringe, in misura senza precedenti, alla integrazione e alla globalizzazione. Anche questa predisposizione sociale, politica, psicologica non discenderà dalla maggiore o minore convinzione in campo epistemologico, circa la indipendenza della realtà naturale dalla mente umana, o circa lo statuto ontologico degli oggetti, ma certo avrà a che fare con una molteplicità di aspetti della concezione filosofica generale del nostro stare nel mondo.

Una brillante ricostruzione della storia epistemologica degli ultimi cento anni (o poco più) ci offre una visione del problema della fuga dalla «ossessione cartesiana» del dualismo soggetto-oggetto. È quella offerta da Richard Bernstein, The Pragmatic Turn (Polity, 2011), con uno sguardo d’insieme ai conflitti tra realisti e idealisti, che vede nel pensiero dei fondatori del pragmatismo (Peirce e James) l’inizio di un ciclo parallelo alla critica del cartesianesimo di Wittgenstein e Heidegger, ma capace di durare più a lungo di questi, di sostenere con continuità una prospettiva che collega gli iniziatori di quella corrente di pensiero con i lavori migliori della filosofia analitica (Quine, Davidson, Sellars) e di conquistare una attenzione globale che ha influenzato la filosofia europea e specialmente quella tedesca del dopoguerra (Apel, Habermas, Wellmer, Honneth e Joas), fino a vedere, con Richard Rorty, l’affermarsi di una predominanza dei temi pragmatisti nella filosofia contemporanea.

Un cambio di vento di lunga durata si sarebbe così pienamente compiuto. Gli interventi di Searle e Bilgrami sono qui del resto una conferma di questo vento prevalente. E l’impronta pluralista che caratterizza il pragmatismo americano, coevo alle grandi immigrazioni dell’inizio del Novecento, rafforza la percezione della sua presa sui bisogni del nostro tempo. Il pluralismo è per James «la forma permanente del mondo» che il pragmatista concepisce attraverso l’empirismo radicale che caratterizza la sua epistemologia, pluralismo dei punti di vista che caratterizzano il processo della conoscenza e anche pluralismo dello stesso universo (A Pluralistic Universe è del 1909), la cui «realtà» è quella con cui abbiamo una diretta esperienza di connessioni, relazioni e transizioni all’interno di un continuo flusso di esperienza.

Un flusso determinato da processi di creazione, immaginazione, selezione che rifiuta il dualismo tra coscienza e contenuto, vedendo nella conoscenza un processo non di sottrazione e di separazione, ma di addizione. La «via media» tra atomismo degli empiristi naturalisti e l’universo in blocco dei monisti idealisti, attraverso molteplici elaborazioni sarebbe arrivata al suo, pur sempre incompiuto, approdo, molti decenni dopo nell’«umanesimo profondo» di Rorty, lasciando però lungo il percorso importanti risultati della riflessione morale e politica, come il pluralismo etico (dello stesso James, arricchito poi dalla prospettiva della democrazia radicale di Dewey) e – di grande, estremo interesse per l’Europa di oggi – il «pluralismo culturale» di Horace M.Kallen, cui si deve il conio di questo concetto, da cui scaturirà un’idea della cittadinanza americana che include e rispetta le differenze di origine (gli americani con il trattino) e una immagine utopistica della storia, agli antipodi del «clash» come «symphony of civilizations».

Quanto all’umanesimo di Rorty e alla sua utopia liberale approfondiremo vari aspetti della sua ricchissima personalità filosofica, di cui ci sono molte tracce in passati numeri di Reset (ne offriremo diversi esempi); è bene comunque annotare come la sua prospettiva filosofica in rapporto al problema della verità, della natura della realtà, dell’oggettività e dell’etica, sia pienamente da ascrivere al corso di lunga durata del pragmatismo americano per coglierne il significato, molto più che etichettandolo semplicisticamente come postmodernista. Quanto al suo umanismo, Bernstein coglie felicemente i suoi passaggi più efficaci: «Non c’è nulla a cui ci possiamo affidare se non noi stessi e i nostri consimili esseri umani. Non c’è autorità esterna alla quale ci possiamo appellare, comunque la pensiamo, come Dio, come Verità, o come Realtà» (Bernstein, cit. pag 211).

Scriveva Rorty poco prima di morire nel 2007: «Quando guardo alla filosofia contemporanea, il grande spartiacque è tra i rappresentazionisti, la gente che crede che ci sia una intrinseca natura della realtà non umana che gli umani hanno il dovere di cogliere, e gli antirappresentazionisti». «Io penso» diceva Rorty che «sia sulla giusta strada» chi dice che «il Pragmatismo… è in realtà semplicemente la applicazione dell’Umanismo alla teoria della conoscenza»… «gli esseri umani hanno responsabilità soltanto l’uno verso l’altro» e questo «comporta di smetterla con il rappresentazionismo e il realismo» (Rorty, Philosophical Papers, vol 4, Cambridge Un. Press, Cambridge, pag 134, citato in Bernstein, cit. pag 211). Dunque come si capisce, non c’è manifesto che tenga, la questione non finisce qui. E continua.

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