Velo, elogio del pragmatismo

La legge che impedisce di portare il velo a scuola (2004) e quella sul velo integrale nello spazio pubblico (2011) hanno fornito lo spunto per uno dei passaggi più accesi del duello televisivo tra Nicolas Sarkozy e François Hollande, il 2 maggio scorso, alla vigilia delle elezioni presidenziali francesi.  Ma è stato anche uno dei momenti meno chiari del faccia-a-faccia, dal momento che entrambi i candidati, nel corso degli anni, hanno sostenuto posizioni tutt’altro che fedeli a se stesse. Se nel 2003 Hollande era a favore di una legge che impedisse il velo a scuola, Sarkozy era contrario. Eppure questi ha potuto rimproverare a Hollande di aver votato poi solo la risoluzione, e non la legge, sulla proibizione del velo integrale. Mentre Hollande poteva rimproverare a Sarkozy di avere sostenuto la legge sul foulard a scuola, dopo essersi dichiarato appunto invece a suo tempo contrario.  Incoerenze imputabili solo all’ambiguità politica dei due? In realtà la questione del velo sta impegnando l’Europa intera in una laboriosa riflessione sui propri principi. Sul numero 1/2012 dei “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica” (il Mulino), curato da Roberto Mazzola, è apparsa un’ampia carrellata di interventi sul tema. A firmarli un gruppo di studiosi internazionali: Silvio Ferrari, Roberta Aluffi Beck-Peccoz, Letizia Mancini, Alessandro Ferrari, Anne Fornerod, Mark Hill, Adriaan Overbeeke, Augustin Motilla, Jeffrey Vrielink, Eva Brems, Saila Ouald-Chaib, Lisbet Christoffersen, Jörn Thielmann, Kathrin Vorholzer, Ralph Grillo e Prakash Shah.  Reset ne offre alcuni ai suoi lettori, insieme con le linee guida uscite dal workshop organizzato nel 2011 dal progetto europeo “Religare” . A essi aggiunge la riflessione di Martha Nussbaum uscita sulla rivista di settembre-ottobre 2010. Nelle prossime settimane presenterà i “Quaderni” con una mattinata di studi.
(Redazione Reset)

 

1.  Se mi è consentito iniziare questo scritto con una nota personale, vorrei subito chiarire che non apprezzo l’uso di burqa, niqab e di altri indumenti che impediscano di vedere il volto di una persona; però ritengo che non sia possibile proibirli senza violare i principi che stanno alla base del costituzionalismo liberale.

Non apprezzo il burqa o il niqab perché rendono oggettivamente più difficile la comunicazione interpersonale, che non è soltanto una questione di parole o di gesti, ma anche di espressioni. Una parola o un gesto è normalmente accompagnato da una espressione del volto: una piega della bocca, un aggrottare delle ciglia, il formarsi di una ruga sulla fronte. Una parola o un gesto senza volto è una forma di comunicazione più povera, che si presta più facilmente ad equivoci ed incomprensioni.  E’ anche  una comunicazione asimmetrica che mette la persona a volto scoperto  in una posizione di svantaggio: lo sa bene qualsiasi giocatore di poker, che non si siederebbe mai allo stesso tavolo con una persona di cui non potesse leggere l’espressione del volto.

2.   Tuttavia non credo che  l’intralcio ad una comunicazione aperta e diretta  sia sufficiente per proibire l’uso del velo integrale se non in situazioni dove vedere il volto di una persona è essenziale. La comunicazione ostacolata anche se si indossa una sciarpa ed un paio di grandi occhiali scuri: tuttavia in nessun paese al mondo esistono leggi che richiedono di togliersi sciarpa e occhiali scuri quando si parla con una persona. Invece in alcuni di essi vi sono leggi che, nella stessa situazione, impongono di togliersi il burqa o il niqab. E’ allora lecito supporre che dietro a quest’ultime leggi vi siano altre ragioni e in particolare la volontà di trasmettere un messaggio di condanna di una religione e di una cultura che sono considerate arretrate a confronto di altre ritenute più rispettose della dignità della persona umana, dei diritti delle donne, dell’uguaglianza senza distinzioni di sesso. Questa sensazione è rafforzata dal carattere ideologico che il dibattito ha rapidamente assunto in Europa, quasi che questo modo di abbigliarsi fosse –sempre ed in ogni caso- un segno di sottomissione del sesso femminile, un pericolo per  l’ordine pubblico, un affronto per  la parità di genere da condannare senza appello oppure, al contrario,  una espressione di fede religiosa, un segno di autonomia personale, una manifestazione di libertà di espressione che va tutelata  senza eccezioni.

3.     Il velo integrale in realtà può essere molte di queste cose insieme ed è quindi necessario imbarcarsi in un lungo e faticoso lavoro di distinzioni che consenta di adottare soltanto quelle restrizioni che sono indispensabili in una società democratica per assicurare una fruizione ordinata e aperta a tutti della sfera pubblica. Mi pare evidente che esistono situazioni in cui vedere il volto di una persona è necessario (nel caso di controllo dei documenti di identità per esempio), attività che è pericoloso svolgere con il volto coperto (guidare un’automobile per fare un altro esempio), casi in cui apparire in pubblico con il burqa o il niqab può creare allarme sociale. In tali frangenti è legittimo proibire di indossare questi indumenti in base ad un esame concreto delle difficoltà che il loro uso può provocare. Ma in queste ipotesi l’oggetto della valutazione non è il velo integrale,  bensì i problemi a cui può dar luogo apparire in pubblico con il volto coperto. Si tratta di una valutazione pragmatica e condotta caso per caso, che consente di adottare misure proporzionate ai problemi pratici creati dall’uso del burqa o del niqab e di rispettare fin dove possibile la libertà di religione e di espressione delle donne che intendono indossarlo.

4.   In conclusione ritengo che, al di fuori di casi specifici e ben delimitati, il diritto penale non sia lo strumento migliore per affrontare i problemi sollevati dalle donne che vogliano indossare il burqa o il niqab. Il diritto penale è l’extrema ratio a cui si ricorre quando non è possibile proteggere in altro modo un bene fondamentale dell’individuo o della collettività. Anche se il velo integrale rende meno aperta e trasparente la comunicazione inter-personale, non mi pare che ricorrano gli estremi per invocare la forza della legge.  In questa situazione una società autenticamente liberale fa uso di altri strumenti -l’educazione, il dibattito, la persuasione- diretti ad incoraggiare all’interno della comunità musulmana una discussione aperta sull’opportunità che le donne si coprano il volto quando entrano nello spazio pubblico.

 

5.  Questo approccio pragmatico e attento alla diversità di ciascun caso particolare non è stato adottato da tutti i paesi europei. Ciascuno di essi, infatti, ha seguito strade diverse per regolare la questione del velo integrale.

La prima e più nota è quella delle  norme che vietano di circolare in pubblico con il volto coperto. E’ la strada seguita dalla Francia con la legge dell’11 ottobre  2010 e dal Belgio l’anno seguente. In questi casi la proibizione è contenuta in un provvedimento dello Stato e si estende a tutto lo spazio pubblico. L’ampiezza del divieto segna una escalation significativa nell’applicazione del principio di laicità in questi due paesi. In precedenza esso valeva all’interno dello spazio delle istituzioni. Con la legge sul velo integrale la proibizione investe tutti i luoghi pubblici incluse le piazze e le strade. La giustificazione di un provvedimento così ampio sta nel fatto, ricordato dal ministro guardasigilli durante il dibattito parlamentare, che “il velo integrale non rispetta né la libertà, nè la dignità, né l’uguaglianza”: di conseguenza esso deve venire proibito in tutto lo spazio pubblico. Ma questa spiegazione sembra andare al di là del segno (se il burqa ed il niqab non rispettano questi diritti fondamentali dovrebbero essere proibiti anche nei luoghi di culto e nello spazio privato) e tradisce l’intento di estendere il principio di laicità dalla sfera dello Stato a quella della società e della politica.

6.   All’estremo opposto si colloca la Gran Bretagna, dove il ministro per l’immigrazione ha qualificato come “un-British” ogni provvedimento volto a proibire burqa o niqab. In questo paese non vi sono  provvedimenti legislativi o amministrativi che proibiscano il burqa e il niqab a livello nazionale o locale e non si trovano neppure direttive di organizzazioni professionali che intervengano in questa materia. Quando è stato sollevato il problema dei giurati, avvocati e testimoni che volessero comparire in tribunale con il volto coperto, il Judicial Studies  Board ha lasciato ogni decisione al potere discrezionale di ciascun giudice. Anche la giurisprudenza è estremamente scarsa e si riduce in sostanza ad una sentenza dell’Employment Tribunal secondo cui è legittimo il licenziamento di un’insegnante che voleva indossare un niqab quando nella classe era presente un altro insegnante di sesso maschile. Un elemento (non certo l’unico) che contribuisce a spiegare una differenza così radicale con la Francia è la diversa importanza del principio di laicità dello Stato.

7.   Una terza strada fa perno sul diritto locale.  In questo caso lo Stato si astiene dal proibire l’uso del velo integrale su tutto il territorio nazionale ma il divieto è introdotto dai sindaci o da altre autorità locali con provvedimenti di tipo amministrativo.  Così è accaduto in Spagna, dove è  proibito entrare negli edifici pubblici di Lerida, Barcellona ed altri Comuni  con il volto coperto. La giustificazione di questa strategia è che il burqa/niqab deve essere vietato soltanto dove esso crea un effettivo allarme sociale. Ma l’esame dei singoli casi mostra che la proibizione non dipende dal verificarsi di episodi che abbiano realmente turbato la pace e l’ordine pubblico di una comunità particolare bensì dall’esistenza di una maggioranza politica convinta che, a prescindere dalla situazione locale,  il velo integrale sia contrario alla sicurezza o alla dignità ed uguaglianza dei cittadini.

8.   Una strategia più convincente è stata seguita in Danimarca. Anche in questo paese non vi è alcuna legge che proibisca di indossare il velo integrale e, a differenza della Spagna, non esistono neppure provvedimenti amministrativi locali  che vietino di portare questo indumento. Vi sono invece sentenze di tribunali, documenti di organismi professionali e direttive governative  che forniscono guidelines per affrontare i casi più controversi. Si è in tal modo stabilito che tutte le persone che lavorano nei tribunali danesi debbano avere il volto scoperto, in  modo da essere riconoscibili dal pubblico; si è deciso che le donne che indossano il burqa o il niqab possano usare i mezzi di trasporto pubblici ma non possano utilizzare tessere di abbonamento che richiedono l’identificazione del titolare; si è precisato che scuole ed università possono (ma non sono obbligate a) proibire il velo integrale poiché questo indumento ostacola la comunicazione non verbale tra studenti e professori. In questi ed in altri casi si è seguito un approccio di tipo pragmatico e funzionale. Il velo integrale in quanto tale non è stato giudicato un indumento che viola diritti fondamentali della persona umana, bensì un tipo di abbigliamento che, in alcune situazioni concrete, può creare problemi al corretto funzionamento delle istituzioni e dei servizi pubblici.

9. Queste differenti strategie dei paesi europei seguono un modello che non è nuovo ma replica, con poche varianti, quello adottato nell’affrontare la questione delle “sette” o (con espressione migliore anche se non priva di ambiguità) dei “nuovi” movimenti religiosi.

I termini della questione sono noti. A partire dagli anni ’70 si sono moltiplicati in Europa movimenti religiosi “nuovi”, non in senso assoluto ma perché essi non avevano mai avuto una significativa presenza in questa parte del mondo.   Per ragioni differenti questi movimenti hanno suscitato un grande allarme sociale e di conseguenza i mass media ed una parte consistente dell’opinione pubblica e delle forze politiche hanno domandato a gran voce provvedimenti che li ponessero fuori legge.   E’ interessante notare come gli Stati che allora hanno deciso di legiferare contro i “nuovi” movimenti religiosi siano gli stessi che ora hanno legiferato contro il velo integrale e gli Stati che qualche anno or sono hanno evitato di intervenire con proprie leggi siano gli stessi che oggi rifiutano di bandire il burqa e il niqab. La Francia ed il Belgio hanno pubblicato liste di organizzazioni “settarie” e leggi che miravano a combatterle. Il governo inglese, al contrario, si è astenuto dal prendere provvedimenti di qualsiasi tipo.

10.   L’analogia tra quanto è accaduto a proposito delle “sette” e quanto sta accadendo a proposito del velo integrale è interessante perché alcuni elementi che sono centrali nel secondo dibattito –l’islam e i diritti delle donne, in particolare- erano totalmente assenti nel primo. Ciononostante, gli Stati europei hanno reagito contro il burqa e il niqab, dove la questione islamica e quella femminile sono determinanti, con strumenti e modalità sorprendentemente simili a quelli impiegati contro i “nuovi” movimenti religiosi. Di conseguenza l’importanza di questi elementi esce ridimensionata: la politica aggressiva della Francia e quella tollerante della Gran Bretagna non possono essere spiegate soltanto con riferimento a motivazioni religiose, etniche o di gender.

Su questo punto è necessario essere più precisi. E’ evidente a qualsiasi osservatore che etnia, religione e gender sono componenti centrali nell’affaire del velo integrale, così come le tematiche del plagio e dello sfruttamento economico lo erano state nell’affaire dei “nuovi” movimenti religiosi. Ma questi elementi giocano ad un livello relativamente superficiale, cioè nell’individuazione dello specifico capro espiatorio che di volta in volta viene evocato per esorcizzare le paure di una società europea delusa e preoccupata.  Il trait d’union tra “sette” e velo integrale, in grado  di spiegare la somiglianza dei meccanismi di reazione scattati in entrambi i casi, si colloca invece ad un livello più profondo, nella paura dell’ “altro” che si è diffusa nei paesi europei. La storia dell’Europa ha mostrato in più occasioni che –specie in momenti difficili come quello che ora sta attraversando- è facile costruire uno stereotipo attraverso cui l’ “altro” non è più percepito per quello che realmente è ma è visto soltanto attraverso le lenti delle paure o dei desideri che egli suscita: in altre parole si vede l’ “altro” come si teme che sia o come si vorrebbe che fosse. La donna coperta dal velo incarna perfettamente questo stereotipo, evocando allo stesso tempo i fantasmi dell’oscurantismo religioso, dell’arretratezza culturale e del fanatismo politico; a sua volta il seguace della “setta”  richiamava gli spettri dell’irrazionalità della religione, del potere assoluto del leader carismatico e dell’annientamento della libertà di autodeterminazione degli adepti. In modi diversi la donna velata e il membro della “setta”  vengono percepiti come una minaccia a modelli di intendere il ruolo della religione, della donna, della politica e della libertà individuale che erano dati per consolidati nella società europea.

11.   Di fronte a questa minaccia ciascuno Stato reagisce con l’arsenale giuridico che gli è familiare. L’invocazione del principio di laicità giustifica il ricorso alla legge penale in Francia, l’appello alla regola della tolleranza spiega l’inattività legislativa in Gran Bretagna. A giudizio di gran parte degli studiosi questa differenza affonda le sue radici nella diversa tradizione politica e giuridica dei due paesi, con il paradossale esito che la libertà religiosa è meglio garantita dove vi è una Chiesa ufficiale (established by law) che dove tutte le religioni sono uguali davanti alla legge.

Venti anni or sono l’Europa sembrava sul punto di essere invasa dai seguaci dei “nuovi” movimenti religiosi; oggi teme di essere invasa da donne che indossano il burqa o il niqab. La prima invasione non c’è stata e tutto fa pensare che non vi sarà neppure la seconda. L’esperienza compiuta con i “nuovi” movimenti religiosi ha mostrato che una politica di intelligente tolleranza è efficace. Il passato ci insegna dunque che proibizioni di carattere generale sono poco utili e talvolta persino controproducenti: un approccio pragmatico, ostile ad una legge che bandisca il velo integrale da tutto lo spazio pubblico ma aperto alla possibilità di divieti in situazioni specifiche e ben determinate, sembra essere preferibile tanto dal punto di vista dell’opportunità politica quanto da quello del rispetto dei principi di libertà di religione e di espressione.

 

  1. Mi chiedo perché si tende a rispettare il diritto di espressione e libertà della religione musulmana nel suo aspetto più retrivo e ci si scandalizzi di fronte allo stesso diritto dei cristiani di esporre un importante simbolo religioso nello spazio pubblico. Direi che la libertà di espressione è importante, ma va dosata con buon senso e senza strumentalizzazioni.

  2. trovo giusto vietarlo in europa in quanto non fa parte dei nostri consumi conferma una brutta forma di ontrollo sessuale maschilista nei confronti delle donne dovuta a un’interpretazione religiosa e causa ipoavitaminosi D. L’essere democratici e liberali lo occuperei su altri fronti ben piu’ importanti di accettare questi fantasmi a cui e’ spesso imposta questa triste copertura!!!

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