Usa, se la middle class si spaventa

“Nobama!”, i cappellini a stelle strisce, i capelli grigi dei partecipanti. Le decine di migliaia di partecipanti alla Taxpayer March del 12 settembre 2009 a Washington furono una novità per la politica Usa. Un colpo, che col senno di poi, si sarebbe rivelato decisivo per le sorti del paese, della politica, dell’equilibrio tra repubblicani e democratici e all’interno degli stessi partiti. In quella giornata di fine estate, si affermava un nuovo marchio politico, Tea Party, che avrebbe determinato e determina ancora nel bene e nel male le sorti del primo cittadino afro-americano alla Casa Bianca.
Il movimento, la rete di mille piazze sparse per gli Stati Uniti, delle mille finestre sul web, ha reinventato una mitica identità americana delle origini contrapponendola al “tradimento” obamiano. Ispirato alla storica ribellione contro dei coloni contro l’Inghilterra nel 1773, il Tea Party rispecchia per molti versi il mix tra media e politica, tra populismo e partecipazione, tra tv e web, che è segno distintivo della politica Usa contemporanea.
Tea Party. La rivolta populista e la destra americana (I libri di Reset – Marsilio, 2012) è il titolo di un libro appena uscito che prova a fare chiarezza su un fenomeno che potrebbe decidere tanto il candidato repubblicano destinato a sfidare Obama quanto l’esito delle elezioni presidenziali del prossimo novembre. L’hanno scritto uno storico di Torino, Giovanni Borgognone, e un giornalista di base negli Usa, Martino Mazzonis.

Innanzitutto cos’è, o meglio, chi sono. Le indagini sui Tea Party realizzate in questi anni descrivono un movimento composto da una maggioranza di maschi bianchi, istruiti, benestanti e over 50. Vale a dire, tenendo fede al futuro prossimo descritto dalla demografia, una minoranza impaurita che diventerà sempre di più tale negli Usa dove la composizione sociale si sta rimescolando, come d’altronde in molte parti dell’occidente. Paura per la scomparsa o la marginalizzazione di un ruolo sociale, ecco dove nasce la rabbia Tea Party.

La crisi economica del 2008 e l’elezione di uno straordinario outsidercome Barack Obama hanno di certo fatto da detonatore per l’esplosione Tea Party, ma la bomba era pronta da anni e collocata proprio lì, nel cuore degli Usa, nella middle class. La classe media americana, scrivono gli autori, non è solo una classe economica, è piuttosto uno state of mind, una condizione esistenziale e psicologica per decine di milioni di persone, in parte vittime delle crisi e in parte atterriti dall’idea di precipitare, e circondati da un paese che non corrisponde più a quello dove sono cresciuti

Il declino della middle class va cercato indietro nel tempo. Esso ha inizio – scrivono Borgognone e Mazzonis senza temere il paradosso – il 20 gennaio 1981 quando Ronald Reagan fa il suo ingresso alla Casa Bianca e comincia una lunga stagione di redditi fermi e di indebitamento dei cittadini. Una lunga stagione che si è protratta fino a oggi: solo un anno fa ogni americano doveva restituire a banche o creditori circa 47mila dollari. È tra i superstiti della bolla della lunga mareggiata neoliberista che nasce il risentimento delle foglie di tè conservatore.
Ma chi è il leader dei Tea Party? Alle primarie 2010 e per le elezioni di Midterm i teapartiers hanno scelto di volta in volta, a secondo degli stili e della convenienza, ma un vero leader nazionale della protesta non esiste e forse non può esistere. Una realtà come quella dei conservatori indignati, un arcipelago senza centro, fa difficoltà a riconoscersi intorno a un capo, non può e non vuole che nessuno metta il cappello sopra le sue proteste. Annoso e antico problema per ogni movimento a qualsiasi latitudine.

Contrari all’apparato repubblicano, a quelli che definiscono i “Rino” (iRepublican in name only), di volta in volta hanno trovato qualche personalità con cui flirtare. La stella di due donne, Sarah Palin prima e Michele Bachmann poi, sembra tramontata. Il passo dalla protesta alla sintesi politica e alla rappresentanza non si è mai concretizzato fino in fondo e il Tea Party è rimasto in mezzo al guado. Eppure, fin dall’inizio della tenzone Romney, Gingrich, Santorum (e prima Perry e Cain) hanno disperatamente cercato di mobilitare quella forza e di prendere quei voti.
«Con Mitt Romney il Tea Party ha trovato il premio finale, un candidato coerente con l’agenda del movimento, ma in grado di ingannare gli esperti e gli elettori moderati per raggiungere la Casa Bianca nel momento in cui il Tea Party ha perso appeal» spiegava Theda Skocpol qualche giorno fa sulWashington Post. Il multilateralismo e il declinismo, uniti all’elitismo sul quale da decenni ormai i candidati del Gop cercano di schiacciare l’avversario democratico, sarebbero le macchie di Barack Obama visto da destra. Romney ormai batte su questo – lo ricordava Ian Buruma qualche giorno fa sul Corriere della sera – il tasto dell’orgoglio americano caro anche ai teapartiers. Ora sarà interessante vedere come, dopo la tripletta in Minnesota, Missouri e Colorado, Rick Santorum si posizionerà rispetto al movimento.

Grassroots o astroturf? Un movimento nato dal basso e sul web, dicono in molti. No, lanciato da pochi ricchissimi e alimentato dalla foxificationdella tv americana, ribattono altri. Comprendere quale sia il medium che ha permesso al Tea Party di affermarsi significa anche mettere a fuoco la trasformazione in corso nella politica Usa (e un discorso analogo potrebbe fare per l’Italia).
Difficile mettere in dubbio che il Tea Party sia un movimento prevalentemente web based. Oggi il profilo su Facebook dei Tea Party Patriots conta più di 850mila fan, al quale si devono aggiungere decine di altre pagine locali che mobilitano milioni di militanti online, quello ufficiale del Partito repubblicano solo 274mila. Come ha notato Dan Tapscott, autore del best seller Wikinomics, «la grande sfida del Tea Party sta nel fatto che gli anziani utilizzano Internet in modo più efficace di quanto fa il presidente». Altro che digital divide generazionale, se per Obama si era mobilitato un popolo di giovani, ora molte pantere grigie smanettano sul web meglio dei ragazzini.

A differenza di quanto accadeva in passato per altri movimenti politici online, il modello organizzativo dei Tea Party è di fatto open source. Le migliaia di militanti non fanno riferimento a grandi hub in rete, piuttosto sono un movimento 2.0, che preferisce mobilitarsi su singole issueattraverso i social network piuttosto che accedere da un portale comune.

Tuttavia, malgrado questa estrema novità tecnologica, è chiaro anche che molti dei temi cardine della protesta anti-governativa sono il risultato di massicce campagne di alcuni programmi tv e radio (il New Yorker ha definito l’anchorman Glenn Beck un founding father del movimento). Borgognone e Mazzonis compilano una galleria di ritratti di figure mediatiche impegnate nella costruzione del movimento in chiave anti-Obama ma, sottolineano, il movimento è entrambe le cose: grassroots, di base, e astroturf, ovvero un tappeto erboso artificiale. Forse non è importante decidere se per i Tea Party conti più il modello a rete o la verticalità broadcasting. Una coesistenza è possibile e ne abbiamo esempi anche vicino a noi.

Si pensi, per esempio, alla disseminazione territoriale e sulla rete coniugata con istanze populistiche alto-basso di Beppe Grillo e del Movimento 5 Stelle. Ci si potrebbe chiedere in conclusione e alla luce del libro di Borgognone e Mazzonis se da noi sarà possibile per la destra importare un modello sui generis come quello dei Tea Party. Difficile a dirsi oggi. Un tentativo è stato abbozzato da Berlusconi nell’ottobre del 2010. Ma al di là della poca convinzione del capo stesso, la paradossale situazione in cui un capo del governo lancia un movimento dal basso e per natura d’opposizione l’ha fatto abortire quasi subito.
Altra strategia s’intravede ora all’orizzonte nella nuova stagione politica, quella in cui giornali berlusconiani sparano ad alzo zero contro Europa, euro e banche e anti-politica e l’ex premier in persona cerca “volont@ri digitali” su Facebook. Il matrimonio tra populismo e web troverà la sua celebrazione anche da noi?

Articolo uscito il 22 febbraio 2012 su Europa

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