In attesa di una primavera delle idee

Le controversie si susseguono e sembrano assomigliarsi. Dopo le caricature danesi, il film olandese «Fitna» e tante altre tensioni, ecco che i risentimenti vengono rinfocolati da un piccolo film, di pessima fattura e ostentatamente insultante. In un primo momento alcune centinaia di manifestanti si sono riuniti davanti all’ambasciata americana di Egitto e al consolato di Bengasi in Libia, dando libero sfogo alla loro collera. Nella confusione e nella violenza sono morti un ambasciatore e alcuni diplomatici, alcune ambasciate sono state attaccate, con feriti e danni materiali. All’inizio sono stati i salafiti fondamentalistia galvanizzare alcune centinaia di manifestanti: l’emozione ha poi contagiato giovani e cittadini comuni che, oltre a manifestare la necessità che fosse rispettato il Profeta, hanno anche espresso il rifiuto verso il governo americano e la sua politica. A queste manifestazioni ha partecipato una piccolissima minoranza, ma la copertura mediatica e l’espandersi del movimento di protesta ha destabilizzato la regione e potrebbe avere importanti conseguenze per il futuro del Medio Oriente e per i processi di democratizzazione e di normalizzazione.

La condanna di queste violenze deve essere chiara e senza condizioni. Prendersela con degli innocenti, membri del corpo diplomatico, e spargere morte è in sé anti-islamico e questa non può essere la risposta dei musulmani di fronte all’ingiuria esibita contro la loro religione. Questo elemento non può essere oggetto di alcun compromesso.

È tuttavia utile cercare di sapere chi si nasconde dietro queste grossolane provocazioni (il cui obiettivo è, con tutta evidenza, di provocare la reazione delle folle, sbeffeggiando il rispetto popolare nei confronti del Profeta dell’Islam). Individui, o gruppi di interesse (e non si tratta del governo americano) utilizzano i valori più nobili (come la libertà di espressione) per raggiungere gli obiettivi più deleteri, quali fomentare l’odio, il razzismo e il disprezzo. Ben sistemati e protetti nelle loro società ricche e confortevoli, costoro pretendono di esercitare l’intelligenza critica e l’umorismo ai danni della religione di popolazioni economicamente ben più povere, che subiscono quotidiane frustrazioni dal punto di vista umano e sociale, per non parlare dei rischi relativi alla loro sopravvivenza. Dietro la celebrazione della libertà di espressione si nasconde l’arroganza di ideologi e razzisti ben pasciuti che giocano con l’umiliazione multiforme dei popoli musulmani – e disprezzano le loro «folli» reazioni «arretrate» – allo scopo di celebrare l’«evidente superiorità» della loro civiltà o difendere la fondatezza della loro resistenza al «cancro» che sarebbe rappresentato dall’islam retrogrado. Anche la critica di questa posizione ideologica deve essere totale e senza compromessi.

Dal punto di vista della coscienza musulmana contemporanea, le reazioni emotive delle popolazioni a maggioranza musulmana del Sud debbono essere deplorate e condannate, ma è anche necessario tenere in debita considerazione la situazione storica e sociale di quei popoli. Già maltrattati economicamente e culturalmente, la loro sensibilità a fior di pelle esplode quando viene anche insultata la sacralità che riempie di senso la loro perseveranza e la loro vita (e quando, in aggiunta, i loro sentimenti vengono alimentati da leader o da correnti islamiche che li incitano a esprimere la loro collera). Questa realtà non giustifica in alcun modo la violenza, ma consente di capirne meglio la radice e di riflettere sulle possibili soluzioni. Compete alle élite, ai leader, agli studiosi musulmani e agli intellettuali svolgere un ruolo di primo piano, alfine di prevenire le tracimazioni emotive popolari e la violenza. La loro responsabilità è coinvolta su tre piani.

  1. Si tratta di impegnarsi nell’istruzione e di attivarsi verso una conoscenza e una comprensione più profonde dell’Islam, focalizzate sul significato e sulle finalità e non solo sulla ritualità e sui divieti. Il lavoro è immenso e richiede la partecipazione di tutte le correnti di pensiero.
  2. In secondo luogo, si tratta di fare propria e celebrare la diversità all’interno dell’islam L’islam è uno, ma le interpretazioni sono molteplici. La presenza di correnti fondamentaliste, tradizionaliste, riformiste, mistiche, razionaliste, ecc. è un dato di fatto che va gestito positivamente e qualitativamente, in quanto ognuna di queste correnti ha una sua legittimità e può (deve) contribuire al dialogo intra-musulmano. Purtroppo, oggi vediamo degli studiosi musulmani e dei leader di correnti di pensiero impegnati in lotte ideologiche (a volte con contrapposizioni personalistiche) che alimentano la divisione, e li trasformano in pericolosi populisti, che si fregiano con arroganza del titolo di autentici e unici rappresentanti dell’islam. Al cuore del sunnismo e dello sciismo, tra i sunniti e gli sciiti, studiosi e correnti si lacerano, dimenticando l’insegnamento fondamentale e i principi che li uniscono, per dividersi su interpretazioni e scelte politiche che rimangono, in ogni caso, secondarie. Le conseguenze di queste divisioni sono gravi: al di là del populismo (che invita i popoli a esprimere ciecamente le proprie emozioni) l’atteggiamento (o l’assenza di atteggiamento) degli studiosi contribuisce a radicare tra i musulmani posizioni nazionaliste, settarie, a volte razziste, fondate sulla loro corrente di pensiero, la loro appartenenza nazionale o la loro cultura. Anziché invitare gli egoismi a controllarsi e le intelligenze a capirsi e celebrare la diversità, leader e studiosi, con i loro discorsi e/o il loro silenzio, giocano a contrapporre le diverse emozioni e appartenenze, con conseguenze catastrofiche. Le grandi potenze, dell’Ovest e dell’Est, oltre che Israele, hanno quindi buon gioco nello sfruttare queste divisioni, questi conflitti interni, sulla falsariga della pericolosa frattura tra sunniti e sciiti (è assolutamente necessario che si alzino delle voci delle due tradizioni per una collaborazione sui temi fondamentali che uniscono i musulmani sunniti e sciiti). Quando i principi si perdono a beneficio delle appartenenze, è compito degli studiosi, degli intellettuali, dei leader riprendere i principi comuni, per una doverosa riconciliazione delle appartenenze, nel rispetto della legittima diversità.
  3. I responsabili sono molti. È d’obbligo, in terzo luogo, che gli studiosi e gli intellettuali abbiano il coraggio di esporsi di più. Anziché incoraggiare l’emotività popolare e/o strumentalizzarla a favore del’appartenenza religiosa (sunnita, sciita, salafita, riformista, sufi, ecc.) o dell’ideologia politica, è necessario fronteggiarla, osare l’autocritica, avviare il dialogo e a volte far sentire ai musulmani delle verità che non sempre fanno loro piacere sulle loro carenze, sulla loro assenza di coerenza, il loro atteggiamento vittimistico e la loro mancanza di comprensione e di responsabilizzazione. Anziché rincarare la dose di populismo, essi debbono avere il coraggio di mettere a rischio la loro credibilità per risvegliare le coscienze e controllare le tracimazioni e gli accecamenti populistici. Anche le élite istruite (studenti, intellettuali, professionisti, ecc.) hanno una grande responsabilità. Il modo in cui danno credito ai loro leader, e il loro status di intermediari tra questi ultimi e le popolazioni richiedono una presenza critica e attiva: è assolutamente urgente incominciare a interrogare gli studiosi e i leader, fare opera di divulgazione e partecipare alle dinamiche di base. La passività delle élite istruite che guardano dall’alto le popolazioni infiammate e incontrollabili è un errore.

Finiamo sempre per avere i leader e i popoli che meritiamo. Senza studiosi, intellettuali e imprenditori impegnati, determinati e consapevoli delle poste in gioco non vi è dubbio che ci avviamo verso la crescita del populismo religioso dei leader e verso la cecità emotiva delle masse. Le parole e l’impegno debbono essere esigenti: hanno inizio con la conoscenza, la comprensione, la coerenza e l’autocritica. Uscire dal vittimismo con un appello alla responsabilità e liberarsi dall’idea che la contrapposizione all’«altro» sia fondante della riconciliazione con se stessi. Non dobbiamo incorrere in errore: le reazioni violente all’ingiuria al Profeta hanno portato alcuni musulmani a sviluppare un comportamento che si distanzia molto dai principi dell’islam. Per essere noi stessi non è necessario contrapporci all’altro, dobbiamo invece essere in accordo e in pace con la nostra coscienza, i nostri principi e le nostre speranze. Nella serena padronanza di sé, non nell’aggressività e nel rifiuto dell’altro: le popolazioni musulmane hanno bisogno di sentirselo dire, e soprattutto di viverlo.

(Traduzione di Silvana Mazzoni)

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