Perché i fanatici delle armi somigliano al Ku Klux Klan

Da Reset-Dialogues on Civilizations – Le recenti rivelazioni sull’incessante diffusione delle armi da fuoco negli ultimi due anni a Newtown, in Connecticut, hanno aperto una ferita da 357 magnum nella reputazione di comunità pacifica e unita che contraddistingueva questa cittadina.
La sconcertante “nuova ordinarietà” assunta dalle armi da tiro a Newtown ben prima che si verificasse la strage della scorsa settimana contribuisce solo a rafforzare il parallelo da me già tracciato nei giorni scorsi tra gli attuali fanatici delle armi e i segregazionisti razziali di una volta.

L’anno scorso le istituzioni di Newtown – tra cui un paio di cacciatori, alcuni agenti di polizia e, val la pena sottolinearlo, anche i repubblicani – hanno cercato di rafforzare le limitazioni relative all’utilizzo di armi da fuoco in virtù del fatto che, come riportava ieri il New York Times, negli ultimi tempi si è verificato un brusco aumento di “sparatorie ripetite e di grande entità, addirittura di esplosioni, in luoghi nuovi e insoliti. Nei pressi di un rimessaggio di camper. In occasione del varo di una nave. Nelle vicinanze di case di tutto rispetto. Alle 2.20 del pomeriggio, un mercoledì della scorsa primavera, sono stati riportati diversi spari… provenienti giusto dall’altro lato della strada rispetto a una scuola elementare”.

Salta quindi fuori che nell’area di Newtown ci sono “diversi poligoni di tiro senza licenza, e al rumore familiare dei fucili da caccia si è andato progressivamente ad aggiungere quello delle armi automatiche e di esplosioni che fanno tremare le abitazioni”. Scott Ostrosky, titolare di uno di questi poligoni, insiste sul fatto che “le esplosioni che i suoi vicini sentono corrispondono a obiettivi disponibili legalmente in qualsiasi punto di caccia”.
“Per dei bravi vecchi ragazzi come noi è eccitante”, commenta Ostrosky, aggiungendo – semmai non bastasse – che “le armi sono il motivo per il quale in questo Paese siamo liberi, e la gente lo perde di vista quando si verificano tragedie del genere. Non è stata una pistola a uccidere tutti quei bambini. È stato un uomo con problemi mentali”.
Ostrosky non vuole solo che capiamo che lui non è “disturbato” come Lanza; il suo dipingere se stesso e gli altri tiratori amatoriali come “bravi vecchi ragazzi” dimostra quanto egli si consideri normale e stimabile alla stessa stregua di come si ritenevano i bravi vecchi ragazzi del Sud negli anni Cinquanta.

Per capire a cosa ci troviamo di fronte, tenete conto che molti altri fanatici delle armi si considerano nello stesso modo e vedono quanti li criticano solo come moralisti fuorviati da sciocche illusioni riguardo alla natura umana. Solo loro tengono alto il baluardo del valore contro la depravazione: molti segregazionisti sudisti pensavano allo stesso modo che il loro stile di vita fosse necessario per canalizzare la violenza ai livelli più infimi della società verso un ordine più sicuro e stabile per tutti, affinato dai codici d’onore e da una gestione autoritaria dei negri che dovevano essere abbastanza saggi da accettare il proprio posto nel mondo.

Molti bianchi americani anche non originari del sud hanno accettato il predominio di questo assurdo modo di ragionare nel Congresso, dove senatori del sud in carica da diverso tempo presiedevano la maggior parte delle commissioni. Hanno liquidato come deplorevoli ma necessari, e forse un giorno superabili, gli eccessi delle frange estreme dei Consigli dei Cittadini Bianchi, dei poveri bianchi ribelli delle periferie cittadine o delle campagne circostanti, addirittura di rispettabili e in alcuni casi imbarazzanti personaggi che erano uomini del Ku Klux Klan di notte ed esponenti delle forze dell’ordine di giorno.
Gli apologeti del razzismo si consideravano innocenti per tutto quell’odio esattamente come oggi i fanatici delle armi si ritengono innocenti rispetto alla morsa di ferro della lobby delle armi sul Congresso, innocenti rispetto ai massacri e alla malattia mentale di Jared Loughner, George Zimmerman, Adam Lanza e degli altri, per non parlare delle milizie accampate sulle colline.

Lyndon Johnson lo sapeva bene. Da figlio del Sud sapeva che per sconfiggere il dichiarato innocentismo della segregazione rispetto alla violenza a volte brutale e a volte raffinata sarebbero stati necessari non solo leggi e marescialli federali, ma ci sarebbe voluta anche una lunga e straziante opera di riconfigurazione dei miti e degli istinti viscerali che milioni di americani custodivano gelosamente.

Alcuni di questi miti e di questi istinti sono rimasti incollati alle armi e ai mercanti di morte che stavano indirizzando il Paese verso un’insensata guerra in Vietnam a cui Johnson si sarebbe dimostrato tragicamente incapace di resistere. Ma quantomeno egli sapeva come contrastare alcuni dei mali interni, e avrebbe compreso alla perfezione il motivo per cui i tentativi posti in atto dalle istituzioni di Newtown per porre un freno alla sconcertante simil-guerriglia nella propria ridente comunità abbiano innescato una “accanita lotta civile”, per usare le parole del Times.

Tale lotta non ha contrapposto illusi moralisti pacifisti a guerrafondai pazzi, quanto piuttosto la “moderata tolleranza per il possesso di armi” dimostrata dalla maggior parte della cittadinanza e “il fermo punto di vista di un’associazione di categoria, la National Shooting Sports Foundation, che ha fatto di Newtown la propria casa”, insieme all’altrettanto saldo punto di vista di molti residenti patiti delle armi dei quali un esempio è l’Ostrosky proprietario del poligono.

E qui, però, emerge un parallelo foriero di speranza: quando negli anni Quaranta Johnson si rese conto che la segregazione razziale era una scelta sbagliata e insostenibile, insieme a lui se ne rese conto anche qualche altro bianco del Sud, qualcuno abbastanza coraggioso e dotato di saldi principi da trasformarsi in ciò che lo storico David Chappell ha definito agitatori interni al cuore di Dixie. Analogamente oggi, secondo il sindaco di New York Michael Bloomberg, molti proprietari di armi stanno realizzando che promuovere e celebrare il caos come via alla libertà sta trasformando la nostra cultura delle armi – e con essa la nostra cultura politica – in una cultura di morte.

I ragionamenti degli apologeti delle armi secondo cui il modo migliore per promuovere la libertà e porre un freno al panico sia procurarsi ancora più armi e resistere ai controlli e alle altre possibili limitazioni suona sempre più semplicistico e problematico agli stessi proprietari di armi, proprio come i ragionamenti dei segregazionisti apparivano a molti bianchi nel 1955. Bloomberg si appella ai possessori di armi responsabili perché diventino agitatori interni contro la presa che la lobby delle armi ha sul governo e contro la sua retorica della libertà dalla tirannia. Tutte queste argomentazioni hanno fatto della lobby delle armi lo specchio perfetto del vecchio establishment segregazionista, oltre che, di fatto, un punto di sbocco in cui è andato a confluire gran parte del suo razzismo.
La viscida logica da Secondo Emendamento della lobby è stata esposta in modo sintetico e drammaticamente efficace domenica scorsa da Nicholas Kristof. Ma il titolo del suo articolo – “Abbiamo il coraggio di fermarlo?” – ci ricorda che in ultima analisi questo non è un problema di logica. Si tratta di trovare il coraggio di affrontare la cultura della morte che sta incessantemente avanzando in questa società.

Quando i poveri neri del sud la domenica andavano a messa con il vestito migliore, avanzando disarmati e tremanti nelle silenziose piazze sudiste circondate da poliziotti armati, loro e gli “agitatori interni” bianchi potevano almeno trarre un po’ di conforto dalla prontezza dimostrata da Johnson nell’intimidire degli oppressori che conosceva meglio di quanto non si conoscessero loro stessi.
Dal momento che Barack Obama è stato tra i beneficiari del coraggio di Johnson e degli “agitatori interni” tra cui, di fatto, i suoi stessi nonni del Kansas e, dopo di loro, sua madre, il presidente capisce bene la gravità della sfida che dovrà adesso porre all’establishment delle armi. Purtroppo però Obama non ha con i proprietari di armi la stessa intimità e quindi credibilità che Johnson aveva con i sudisti bianchi.

Il 15 marzo 1965 Johnson affrontò gli altri sudisti dell’establishment segregazionista e i loro apologeti in una sessione congiunta al Congresso e trasmessa dalla televisione nazionale affermando che era “sbagliato – mortalmente sbagliato – negare a un qualsiasi altro americano il diritto di voto” e che era arrivato il momento di superare “una strisciante eredità di bigotteria e ingiustizia”.
Poi fece una pausa, alzò lo sguardo dal suo discorso e pronunciò per la prima volta, con decisione, nel suo accento del Texas occidentale, una frase che in quel momento solo lui avrebbe potuto pronunciare con una tale forza: “E la supereremo”.

È esattamente la stessa frase che molti autorevoli figli del Paese delle Armi – non solo Joe Scarborough della MSNBC o i senatori Joe Manchin del West Virginia e Mark Warner della Virginia, ma molti altri ancora – devono oggi trovare il coraggio di dire, insieme a Obama. Questa volta, la battaglia per riconfigurare molti dei miti e degli istinti viscerali che gli americani custodiscono gelosamente potrebbe rivelarsi ancora più straziante.

Mentre cerchiamo di liberare il Secondo Emendamento da interpretazioni e derive legali deleterie come le sentenze Dred Scott e Plessy v. Ferguson, dovremo anche liberare il Primo Emendamento dalla giurisprudenza che equipara la voce dei cittadini alla smania di entità aziendali incorporee guidate da algoritmi di marketing che incollano gli occhi dei nostri bambini e contorcono le loro budella inondandoli non di arte, appelli di attori politici o scoperte di veri reporter ma solo di infiniti e vacui titillamento e intimidazione a scopo di profitto.
Avremo il coraggio di fermare questo marketing della cultura della morte che non fa altro che dar risalto alle fatali attrattive dei propri strumenti? No, a meno che non abbiamo il coraggio non solo di limitare l’abuso di armi ma anche di porre un freno alla nostra gladiatoria sete di rovina.

(Traduzione di Chiara Rizzo)

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