Ecco le radici della
dura crisi spagnola

Profondi sommovimenti – sociali, economici e culturali – sono all’origine dei recenti risultati elettorali in Spagna. In sintesi:

Il paese, con la sua altissima disoccupazione (circa il 20%), specie giovanile, ha pagato, e continua a pagare duramente la risposta dei ceti dominanti (spagnoli ed europei) alla crisi finanziaria iniziata nel 2008 e tuttora ben lontana dall’essere risolta. Tale crisi, e tale risposta, hanno in particolare provocato un aumento senza precedenti delle disuguaglianze interne. Come dimostra lo stesso indice di Gini la Spagna è oggi tra i paesi più disuguali d’Europa.

Volendo approfondire le caratteristiche di tale disuguaglianza si avverte che non è cresciuta soltanto la distanza tra ricchi e poveri ma sono anche aumentate le differenze di reddito tra lavoratori stabilmente occupati (settore pubblico, grandi e medie imprese) e lavoratori precari e stagionali (turismo, commercio, agricoltura). Oggi circa 11 milioni di cittadini sotto i trent’anni che lavorano a tempo parziale guadagnano, quando hanno un lavoro, meno di 1000 euro al mese. Le loro prospettive sono a dir poco drammatiche: solo 1 su 20 nuovi contratti di lavoro sono fissi e a giornata completa. Ma anche tra i lavoratori stabili, circa 14 milioni, le disuguaglianze sono molto elevate. Il 30% guadagna circa 1200 euro lordi; il 40% tra i 1200 e i 2200, il 30% più di 2200 euro. Analoghi fenomeni si sono verificati all’interno della complessa stratificazione definita con il vecchio termine di ceti medi: ci sono, tra i professionisti e i tanti lavoratori delle partite IVA, coloro che guadagnano cifre molto alte ma anche quelli (la grande maggioranza) che a stento arrivano alla fine del mese. Non si tratta certo di fenomeni nuovi. Tuttavia oggi sono ben più estesi, il che ha provocato una diffusione senza precedenti del risentimento e dell’insicurezza. In Spagna l’ascensore sociale che aveva funzionato nei primi decenni dell’esperienza democratica si è fermato per milioni di cittadini. E ora sono pochi coloro che ancora credono in un ritorno ai bei tempi della crescita continua che aveva fatto parlare di “miracolo spagnolo”.

La Spagna che emerge dalla crisi è dunque profondamente disuguale e sofferente. L’indignazione è cresciuta in questi anni. Il fenomeno degli “indignados” e di Podemos è nato in questo scenario. Il Partito socialista non ha saputo (o voluto?) proporre alternative valide e convincenti a questa situazione. Il mondo del precariato e dell’incertezza
si è separato dal partito storico della classe operaia spagnola. I sindacati, UGT e Commissioni Operaie, si sono dimostrati estranei ai problemi e alle ansie di milioni di cittadini, in gran parte giovani. Non si sono preoccupati di costruire una saldatura tra occupati, disoccupati e precari. Un grande tema della sinistra, non solo spagnola, è restato estraneo alla sensibilità culturale ed etica dei socialisti. Come meravigliarsi dunque della nascita e rapida crescita di Podemos?

La sofferenza sociale è diventata protesta politica. Il bipartitismo “quasi perfetto” – che si era consolidato con la transizione democratica anche grazie a un sistema elettorale pensato per garantire la stabilità degli esecutivi favorendo i partiti più grandi (il sistema d’Hondt) e le zone rurali (dove sono da sempre più forti i conservatori) – viene oggi giudicato complice dell’establishment e aspramente criticato da milioni di spagnoli. L’instabilità che attraversa la società si è così estesa al quadro politico. Ecco così apparire due nuovi attori, Ciudadanos e Podemos, che contestano l’egemonia del Pp e del Psoe. La Spagna, ha detto Felipe Gonzalez, si è “italianizzata, ma gli spagnoli non sono gli italiani”. La rottura del vecchio quadro politico, tuttavia, ha colpito soprattutto la sinistra, ora divisa in due tronconi, uno di centro sinistra moderato (il Psoe) e uno di sinistra radicale (Podemos) che corrispondono quasi perfettamente ai due segmenti sociali di cui sopra. Lo scontro tra questi due partiti per l’egemonia si è rivelata fatale per la sinistra e salvifica per la destra e per il suo contestato leader, Mariano Rajoy.

Il quadro politico è reso ancor più complesso dalla rivoluzione digitale. Che mette in discussione le forme classiche dell’informazione e della comunicazione. La cultura politica classica dei partiti, centralisti e gerarchici, mal si concilia con l’attivismo trasversale garantito dalla rete. La richiesta di partecipazione è cresciuta in modo esponenziale amplificando le forme di protesta e le domande di maggiore democrazia. Nell’ambito della sinistra Podemos ha colto più rapidamente le potenzialità della democrazia.com. Gli apparati burocratici della sinistra sono apparsi più che mai chiusi di fronte alle istanze di rinnovamento e partecipazione. La denuncia dei tanti scandali si è fatta più efficace. La gente usa la rete per dire quello che pensa della classe politica. Manifestazione di un “pericoloso” populismo? Difficile in ogni caso spiegare la complessità del fenomeno con tale generica formula.

Il recente risultato elettorale (26 giugno) impone anche altre riflessioni. Quali le ragioni del deludente voto a Podemos, che era convinto di avere in tasca il “sorpasso” dei socialisti? Tra le tante spiegazioni due ci sembrano più convincenti.
La prima. La rottura a sinistra è stata vissuta da molti cittadini come una delle ragioni dell’instabilità politica. Il voto al Pp, che ha abilmente sfruttato il dato, si spiega anche così.
La seconda. Il matrimonio di interesse tra Podemos e Izquierda Unida ha deluso molti simpatizzanti di entrambi gli schieramenti. La riapparizione di un vecchio comunista come Anguita e le bandiere del Pce sono apparse come un ritorno indietro nella storia, una alleanza Ideologica non coerente con le nuove pulsioni democratiche, specie di molti giovani.

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