Alti e bassi dei giornali: per un po’ bocconiani, poi di nuovo al Bagaglino

È bastato poco, anzi pochissimo. Un battito d’ali. È stato sufficiente che Silvio Berlusconi ritornasse ad occupare la scena mediatica, ricandidandosi alle elezioni e confrontandosi in diretta tv con Michele Santoro nel corso di Servizio Pubblico, su La7 – dopo un lungo periodo di apnea e toni spenti, messaggi appannati ancorché contraddittori – che i mass media hanno subito ritrovato i (forse mai) dismessi vizi&tic. Tornando a scatenarsi e mettere in mostra i peggiori istinti, nei talk show come sui giornali.

Eppure per un anno, quest’ultimi in particolare (ma pure i talk show, toni sommessi e scontri ridotti al minimo), si sono comportati quasi bene. Assumendo anch’essi l’”aplomb tecnico” del governo e del suo premier. L’ha notato anche il presidente dell’Istat Enrico Giovannini, che proprio in un’intervista a la Repubblica del 12 luglio 2012 s’è così espresso: «Siamo passati dal retroscena alla scena, a un’informazione più accurata, di livello europeo». Vero o solo verosimile?

In un certo senso si può dire che, con la crisi e la caduta del governo di centrodestra verso la fine dell’estate del 2011, i giornali hanno dato corso a una nuova stagione: quella dei numeri messi ben in evidenza, dell’infografica curata, delle spiegazioni e di dettagliati box, anch’essi “tecnici”, a corredo di articoli informati e di analisi particolareggiate, rigorose nel loro aspetto pratico. Ad uso del “consumatore”, il lettore. Aria nuova e meno fritta del solito.

L’ha rilevato anche Dario Di Vico, già vicedirettore del Corriere della Sera per un quinquennio, sotto le direzioni Folli e Mieli (2004-2009), giornalista economico e inviato di punta del quotidiano milanese per i temi di economia, politica e società, con annessi e connessi, in particolare per quel che riguarda l’imprenditoria dell’area del Nordest, che in un’intervista con Giovanni Cocconi sull’ultimo numero della rivista Problemi dell’informazione (2/2012, Il Mulino) fondata nel 1976 dallo storico del giornalismo Paolo Murialdi e diretta a partire dal 1999 da professor Angelo Agostini, ha dichiarato: «Non so se sia nata una vera nuova formula di fare i giornali» ma «con l’arrivo di Monti è cambiato tutto». Nel senso che la società italiana è stata chiamata «ad adattarsi a un vestito nuovo» con tutto quel che ne consegue. Dice ancora Di Vico: «Non è vero che il lettore comune voglia sapere solo delle aliquote Imu o come investire i suoi risparmi, chiede anche il racconto di come sta cambiando la politica italiana, se siamo entrati in una Repubblica presidenziale di fatto, eccetera. Non si può pensare di offrire i retroscena alle élite e le tabelle al lettore comune: le due cose viaggiano insieme: un buon retroscena ha un valore aggiunto importante, anche se negli ultimi anni ci sono stati degli eccessi. Dobbiamo evitare il cattivo retroscena e la cattiva tabella». Punto.

Ve la ricordate l’estate del 2011? Il “giallo” della lettera della Bce inviata al governo Berlusconi il 5 di agosto e poi pubblicata dal Corriere della Sera il 29 settembre? La crisi economica e l’elevato rischio default anche per l’Italia? L’inadeguatezza del governo di centrodestra e del Super-ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ad affrontare la crisi che stava investendo l’Europa con la forza di un uragano? Bene, è da lì che i media cominciano ad aggiustare il tiro, a occuparsi di contenuti. Inizia la stagione “dei numeri” e il miglior interprete è proprio il quotidiano di via Solferino 28, diretto da Ferruccio De Bortoli. Le pagine si affollano di dati e cifre dalle proporzioni variabili, grandi, piccoli, medie, colorati. Esplode l’uso dell’info-grafica con assi cartesiani esemplificativi, torte, spicchi, curve, vengono evidenziate la parole-chiave dell’economia e della crisi, vocaboli e terminologie di derivazione anglosassone, e spiegate in appositi glossari di poche righe. Come dice il presidente Giovannini, la stampa si fa europea. Fanno un passo indietro il gossip, i retroscena “di colore” per lasciare la strada a ricostruzioni più “tecniche”, che diventano propriamente tali con l’entrata in carica del governo guidato da Mario Monti, i cui modi algidi freddano quella propensione al “divertissement”, all’alto mischiato con il basso, al pensoso con il frivolo della stampa nostrana, la cui invenzione risale ormai a poco più di due decenni or sono.

«I giornali non la fanno la realtà, semmai la rappresentano» prova ad analizzare Marco Panara, giornalista economico e finanziario di lungo corso de la Repubblica, già corrispondente da Tokyo per diversi anni e a cui da lungo tempo è affidata la cura di Affari&Finanza, il supplemento del lunedì del quotidiano diretto da Ezio Mauro. «Direi Berlusconi è stato in grado sempre di imporre l’agenda e anche i toni. È come se tu giochi a tennis con uno che fa il ‘pallettaro’, fai il pallettaro anche tu… I giornali si sono adeguati». Cos’è cambiato con l’arrivo di Monti? «Si sono subito accorti del cambio di un modello narrativo e si sono messi sulla stessa lunghezza d’onda». I giornali s’adeguano e basta? «No, non è così. Quando è avvenuto il cambio di passo è stato come una liberazione, un sollievo. “Finalmente!” si disse. In fondo non se ne poteva più. C’era un profondo senso di noia nei giornali e molta stanchezza anche nel lettore. E così i quotidiani non han fatto altro che cogliere la palla al balzo».

Come dire? C’era voglia di serietà e il fatto che abbiano preso Monti e la sua politica sul serio è stato anche un pretesto per potersi ricalibrare o riscattare. E dire: la stoffa non ci manca, ora ve lo facciamo vedere di cosa siamo capaci.

«È sicuramente vero che Monti ha avuto un merito: ci ha obbligato tutti, giornalisti inclusi, a studiare di più» afferma Marco Cianca, capo dell’ufficio romano di corrispondenza del Corriere della Sera, che incontriamo al secondo piano dello storico Palazzo Bonaparte, residenza della madre di Napoleone, Letizia, costruito nel 1660 al civico 5 di piazza Venezia in faccia all’altare della Patria. Del resto, aggiunge, «resto convinto che il giornalismo è l’arte del sentito dire, dell’orecchiare, una superficialità che è anche in parte obbligata dai tempi di produzione. Tuttavia riportare le barzellette di Berlusconi è decisamente più facile che doversi confrontare con i numeri, le percentuali, i grafici e lo stato complessivo dell’economia. L’arrivo di Monti al governo ci ha perciò costretti a diventare un po’ tutti giornalisti economici e ha contribuito ad interrompere quella vecchia e consolidata contiguità tra giornalista e politico. E così un po’ alla volta i rumori del Transatlantico, il corridoio “dei passi perduti”, sono diventati un po’ di più rumori di sottofondo… e abbiamo dovuto invece occuparci dello spread. Anche noi giornalisti abbiamo dovuto indossare il loden. Così sembriamo tutti più seri, compreso il Paese».

Di fatto, non è un caso che la prima prova del cambio di passo del governo la si sia avuta con la manovra sulle pensioni. E in quell’occasione i giornali hanno dovuto spiegare ai propri lettori cosa cambiava, lettori che sono al tempo stesso elettori e individui toccati nel vivo dai cambiamenti introdotti. «Quando si sceglie di eliminare le pensioni di anzianità – analizza ancora Panara – si opta per una scelta o soluzione forte, un cambiamento non solo di linguaggio ma anche di contenuti nell’azione di governo. In fondo, prima le manovre di Tremonti erano meno chiare, meno lineari e, soprattutto, erano azioni e fatti a futura memoria… nel senso che non entravano subito in vigore. Come l’Imu, per esempio, varata allora viene applicata solo adesso. Con Monti accade un’altra cosa: i provvedimenti entrano in vigore subito. L’azione è tangibile, concreta, l’impatto immediato. È per questo che l’aspetto tecnico dell’informazione assume e dispiega tutto il suo valore: le scelte politiche hanno una loro maggioranza obbligata». Quanto al genere del “retroscena”, nasce dal fatto che in genere nella politica c’è sempre un sacco di materiale off stage che con Monti sembra venir meno. Almeno inizialmente e per un po’. Sembra finire la “politica politicante”, quella fatta di parole, di tante chiacchiere… E non è un caso, infatti, che proprio sulla riforma elettorale il “retroscenismo” rimanga, perché quello è stato il luogo e l’ambito degli annunci, delle parole, del dire una cosa e poi farne esattamente un’altra… Berlusconi docet.

Cianca concorda con l’affermazione di Panara secondo la quale «i giornali sono lo specchio del Paese». Ma precisa: «Anzi, sono dentro, né sotto né sopra il Paese. Specie il Corriere, giornale-istituzione per eccellenza ma secondo me anche il più libero, in cui capire e interpretare i fatti, le situazioni, la complessità diventa una vera e propria necessità. Tanto che adesso, paradossalmente, proprio il Corriere si trova più avanti ma è continuamente messo alla prova di una realtà che è decisamente più vecchia…». Cosa intendi dire? «Voglio dire che intanto dentro la televisione c’è ancora gente che urla, sbraita, litiga, e il rischio di (ri)entrare nel cortocircuito giornali-tv-giornali è sempre alto e forte. Ovvero, nella contrapposizione Monti contro Berlusconi, Berlusconi contro Bersani, Bersani versus Monti, Monti in contrapposizione a Vendola, Vendola… e via di questo passo… È il politico e la politica che si morde la coda… In tutto ciò, sicuramente la “serata Santoro” con Berlusconi è emblematica e anche portatrice di tutte queste contraddizioni».

Quel che emerso in questo ultimo anno o poco più, secondo Panara, «è il gap tra questo mondo e quell’altro, che ci sembrava esserci lasciati definitivamente allespalle, scrollato di dosso». Cioè tra il mondo dell’economia con la sua concretezza e tangibilità e quello volatile della politica e delle sue parole-chiave, tutto promesse e annunci mai verificati nel loro impatto concreto, mai contabilizzati.

Ancora una volta non è un caso che in questo frangente e, soprattutto, in economia, nei provvedimenti economici o in quelli normativi attuati dal governo i giornali abbiano applicato la cosiddetta informazione fact chacking, quella del “controllo dei fatti“ per conto del lettore. In particolare sulle leggi e i provvedimenti legislativi, «ma anche abbiano fatto pressione perché le leggi diventassero leggi» annota Panara. Come dire? Fine della politica degli “annunci berlusconiani”, fatta di leggi varate ma che da sole non bastano, perché poi ci vogliono i provvedimenti attuativi che le rendano operative. «A mia memoria è la prima volta che è accaduto» dice il responsabile di Affari&Finanza. «Ciò che ha finito anche con il mettere in evidenza i meccanismi che hanno accompagnato per tempo la politica della farsa».

Sulla questione fact checking non è invece d’accordo Luca Sofri, direttore de Il Post.it che sul suo blog “Wittgenstein” lo scorso 16 gennaio ha scritto così: «Nelle ultime settimane l’informazione italiana sembra aver scoperto il fact checking, con quella solita approssimazione modaiola che da noi si sostituisce all’innovazione o al miglioramento strutturale di cose che non funzionano. Quindi il fact checking è diventato qui un aspetto marginale e demagogico di quello che è in origine per il giornalismo: un modo di fare le pulci a quello che dicono i politici e controllare se è vero. Che è una buona cosa, soprattutto in un contesto di informazione politica che non lo ha mai fatto (e continuerà a non farlo nel 90% dei casi)».

Secondo Sofri, infatti, c’è in primo luogo un problema di «credibilità». Il fact checking, scrive, è soprattutto «una pratica del giornalismo di verifica su se stesso: l’attività di controllo e revisione degli elementi fattuali degli articoli e di ciò che i giornali pubblicano e i media raccontano. È sui giornali stessi, non sui politici, che sarebbe benvenuta un’operazione di maggiore prudenza, verifica e controllo della verità di ciò che si dice. Operazione che qui non si vede proprio, abituati come siamo a neanche correggere il giorno dopo le notizie che si sono rivelate false, figuriamoci a controllarle il giorno prima…». Il riferimento specifico è alla notizia data da tutti i giornali, secondo la quale il capogruppo del Ppe avrebbe sconfessato Berlusconi appoggiando la candidatura di Mario Monti. Salvo poi smentire le cose che i media italiani gli avevano attribuito. «Ce n’era abbastanza, insomma, non solo per rinunciare a fare dei titoli su una presunta posizione “del Ppe” ma forse persino per fare dei titoli su una cauta posizione del signor Daul (le cui opinioni su Berlusconi non sono nuove, e quindi nessuno “scarica” Berlusconi). Ai fatti (fact-checking) è falso che il Ppe sia “con Monti” o che lo abbia sancito» ha concluso Sofri.

Tuttavia, se è soprattutto con La Stampa di Mario Calabresi che la ricetta fact-checking la si applica con una certa assiduità, dallo scorso venerdì 18 gennaio il Corsera ha dato vita ad una iniziativa che va sotto il titolo Alla prova dei Fatti, «mai realizzata finora nel nostro Paese» giurano a via Solferino. Di che si tratta? «L’obbietivo – in partnership con Oxford Economics, scrive Danilo Taino – è calcolare, in modo che i cittadini ne siano informati, gli effetti economici che avranno nel corso della prossima legislatura le diverse piattaforme programmatiche delle coalizioni che si presenteranno alle prossime elezioni del 24 e 25 febbraio». Insomma, capire come evolveranno nei prossimi cinque anni questioni spinose come il Pil, la disoccupazione, l’inflazione, il reddito delle famiglie, il deficit e il debito pubblico «per ciascuna delle piattaforme elettorali che si contendono il voto degli italiani». «Non, cioè, un semplice fact-checking nel quale si verifica il naso di Pinocchio di ciascun partito (anche quello, certo)» chiosa il quotidiano. Staremo a vedere.

Comunque sia, una cosa è certa: il gioco del “buon gusto” è durato quel che è durato e ora sembra bell’e finito. Siamo tornati a prima della caduta di Berlusconi. Al “teatrino”, alla farsa, e da quest’ultima al dramma. Tutto come prima? Anche Monti è cambiato. Forse perché siamo entrati in periodo elettorale, che è fatto soprattutto di parole&promesse? Dove le une e le altre, messe insieme, sono in grado anche di smentire la politica dei fatti? E delle azioni? Dei «non si può», facendo ritornare chi l’ha pronunciato persino sui propri passi? A proposito dell’Imu. O delle tasse che non si possono tagliare ma che ora si possono ridurre, correggere, alleggerire. Ma anche del «io non entrerò mai in politica». Anche Monti, alla fine, s’è fatto condizionare. Siamo tutti uomini di mondo, nessuno escluso?

Vedremo perciò se ritorneremo dalle parole ai fatti. Molto dipende anche dal risultato elettorale «e da quale sarà lo stile pubblico che emergerà». E se è vero che i media la realtà non la produco ma semmai la rappresentano più o meno con intelligenza, e contribuiscono ad interpretarla, è altrettanto vero, però, che gli stessi contribuiscono ad esaltarla… Nel bene come nel male.

Intanto i partiti si scontrano, i leader litigano, scoppiano le risse tra candidati, ci si divide sulle “liste pulite” e i giornali annotano, registrano, riportano narrando i fatti passo per passo dando vita a un racconto dentro al quale si accapigliano uomini, personalità, gruppi, interessi diversi. Fino alle minacce e alla minaccia di ritorsioni (Cosentino). Ciò che contribuisce ad amplificare oltre misura il degrado della vita politica nazionale.

Chiosa a questo proposito Marco Cianca: «Del resto è dai tempi di Mani Pulite che ogni volta che c’è un colpevole, c’è un eccesso di partecipazione, azione e anche ansia. Ma è decisamente più facile fare questo tipo di informazione anziché interpretare i “Bollettini della Bce” o parlare della Riforma Fornero dando conto dei pro e dei contro nel dettaglio: perché e più difficile verificare, molto più laborioso». Così ci si ferma alla superficie. Si rappresenta il cicaleccio. Si dà conto delle dichiarazione degli uni contro gli altri armati. E ci sono testate che rappresentano o partecipano di più al conflitto, altre di meno.

«Quel che sta accadendo – sottolinea ancora il capo dell’ufficio romano del Corriere – è parallelo e speculare alla crisi del Paese e alla crisi del settore dell’editoria. Cambia il linguaggio e al tempo stesso cambia anche la scena, ma pure i giornali son parte della scena. Ma nel mentre mutano il proprio linguaggio la scena non è più la stessa. È un continuo mutamento, non c’è più un punto fermo».

Dove ci porterà il “frullatore”? «Non lo sappiamo con certezza – conclude Cianca – ci può portare dritti dritti nel baratro, così come può essere per i giornali e per noi giornalisti anche una grande occasione di riscatto. Potremo avere, proprio in forza del fact-checking, giornali che partecipano alla svolta civile, la inducono, la sollecitano, la accompagnano, svolta economica, sociale, politica. Hegel diceva che il giornale “è la preghiera (laica) del mattino dell’uomo moderno”, ma oggi non lo direbbe più nessuno, perché non si comprano più i giornali. Nella visione del filosofo di Stoccarda il giornale era una necessità, oggi non lo è più. La crisi in cui versa la carta stampata è proprio legata a questo fattore: non è più uno strumento necessario. La sfida è proprio qui, farlo tornare ad essere. In che forma e in che modo bisogna trovarlo. Ma la strada è già tracciata, è quella della serietà, dell’affidabilità, della credibilità, dell’autorevolezza, dell’indipendenza di giudizio. E anche se sbagliato, tuttavia si tratta pur sempre di un “giudizio indipendente”. E queste caratteristiche debbono essere percepite dal pubblico degli acquirenti, è l’unica garanzia di sopravvivenza di questo mezzo. I giornali hanno un potere subliminale – conclude Cianca -, basta scorrerli per vedere se sono liberi o sono invece eterodiretti. Se i giornali non torneranno ad essere necessari, io credo che “il cappio” è pronto pure per noi giornalisti. Perché siamo identificati, in quanto speculari, alla politica e al suo mondo. I giornali vengono identificati con Cosentino, ormai. Ma è anche vero che possono essere solo quelli del “caso Cosentino”».

Per uscirne, visto i tempi di crisi, cupi e bui, non resta che appellarci ancora una volta ai buoni principi gramsciani: pessimismo della Ragione, ottimismo della Volontà. Tanta, tanta, buona volontà. Anche se un interrogativo resta inevaso: se la realtà è questa, lo è per la forza di Berlusconi o per la debolezza dei giornali e delle loro proprietà? Ma questo è un altro capitolo e puntata.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *