Inno e alzabandiera, come costruire un’identità democratica

Pubblichiamo un estratto di un articolo uscito sul numero 100 di Reset (marzo 2007)

Qualche anno fa, in Germania i cristiano-democratici hanno timidamente lanciato l’idea di una Leitkultur, nozione secondo cui la cittadinanza tedesca comporta determinati obblighi in termini di rispetto di standard di tolleranza e di uguaglianza. La parola Leitkultur – traducibile con «guida» o «cultura di riferimento» – fu coniata nel 1998 da Bassam Tibi, accademico tedesco di origini siriane, a significare appunto un concetto di cittadinanza universalistico e non etnico, che avrebbe aperto le porte dell’identità nazionale ai cittadini di etnia non tedesca. A dispetto di tali origini, l’idea venne subito denunciata dalla sinistra quale razzista e fautrice di un ritorno all’infelice passato della Germania.

Così, i cristiano-democratici ne presero ben presto le distanze. Da qualche anno a questa parte, però, anche la Germania ha visto un dibattito pubblico molto più vivace attorno all’identità nazionale e l’immigrazione di massa. Durante i fortunati mondiali di calcio del 2006, la diffusa manifestazione di un moderato sentimento nazionale è parsa assolutamente normale, ed è stata persino bene accolta dai paesi vicini della Germania.

Pur partendo da una posizione completamente differente, l’America potrebbe avere qualcosa da insegnare agli europei che, oggi, tentano di elaborare modelli postetnici di cittadinanza e appartenenza nazionali. La vita americana abbonda di cerimonie e rituali semi-religiosi volti a celebrare le istituzioni politiche democratiche del paese: le cerimonie di alzabandiera, il giuramento di naturalizzazione, il giorno del Ringraziamento e il 4 luglio. Gli europei, invece, hanno ampiamente deritualizzato la loro vita politica. Tendono a essere cinici o indifferenti dinanzi alle esibizioni del patriottismo Usa. Ma cerimonie di questo tipo sono importanti ai fini dell’assimilazione dei nuovi immigrati.

L’Europa conta diversi precedenti quanto alla c reazione di identità nazionali che non si fondano – o lo fanno in misura minore – su etnicità o religione. Il caso più celebre è quello del repubblicanesimo francese, il quale, nella versione classica, si rifiutava di riconoscere le varie identità comunitarie, avvalendosi del potere dello Stato per omogeneizzare la società francese. A seguito della proliferazione del terrorismo e dei disordini urbani, la Francia ha ospitato un intenso dibattito attorno al perché del fallimento di tale modello di integrazione. Parte della risposta potrebbe risiedere nel fatto che i francesi stessi hanno rinunciato al vecchio concetto di cittadinanza a favore di una particolare versione del multiculturalismo. Nel 2004, con la messa al bando del velo, si è voluto riasserire un vecchio ideale repubblicano.

La Gran Bretagna si è ispirata alle tradizioni americana e francese nel tentativo di accrescere la visibilità della cittadinanza nazionale. Il governo laburista ha introdotto cerimonie di conferimento della cittadinanza come pure test di lingua e cultura per gli aspiranti britannici. Oltre a veri e propri corsi di cittadinanza, destinati ai più piccoli, in tutte le scuole. La Gran Bretagna ha visto un notevole aumento dell’immigrazione negli ultimi anni, soprattutto in provenienza di nuovi Stati membri dell’Ue quali la Polonia e, a emulazione degli Usa, il governo considera il fenomeno come fattore chiave del suo relativo dinamismo economico.

Gli immigrati sono benvenuti fintantoché lavorano, invece di attingere alle risorse del welfare e, grazie a un mercato del lavoro flessibile stile Usa, chi cerca un lavoretto non ha che l’imbarazzo della scelta. Nella gran parte degli altri paesi europei, però, il connubio di codici di lavoro inflessibili e sussidi generosi fa sì che gli immigrati arrivino in cerca non di un lavoro ma del welfare. Molti europei sostengono che il welfare Usa, proprio perché meno generoso, toglie ai poveri anche la dignità. È vero il contrario: la dignità viene garantita proprio dal lavoro e dal contributo che il singolo off re, con il proprio sacrificio, alla società intera. In diverse comunità musulmane europee, circa la metà della popolazione sussiste grazie al welfare, contribuendo direttamente a un senso di alienazione e disperazione.

L’esperienza europea, quindi, non è uniforme. In quasi tutti i paesi, però, si sta aprendo un dibattito attorno all’identità e all’emigrazione, sebbene sia dovuto – almeno in parte – agli attacchi terroristici e all’ascesa della destra populista.

Il dilemma dell’immigrazione e dell’identità converge, in ultima analisi, con la più ampia questione della mancanza di valori nell’era postmoderna. L’ascesa del relativismo ha reso più ardua l’affermazione, da parte dei cittadini della società postmoderna, di valori positivi e, quindi, del tipo di credenze condivise richieste agli emigranti quale condizione per ottenere la cittadinanza. Le élite postmoderne, soprattutto quelle europee, sentono di essersi evolute al di là delle forme di identità definite da religione e nazione, e di essere pervenute a uno stadio superiore. Ma nonostante le celebrazioni di sconfinata diversità e tolleranza, la società postmoderna trova difficoltà a convenire sull’essenza della felice convivenza cui aspira.

L’immigrazione ci impone in modo particolarmente stringente una discussione attorno al «Chi siamo?» di Samuel Huntington. Se le società postmoderne intendono approdare a un più serio dibattito sull’identità, dovranno svelare le virtù positive che definiscono l’appartenenza a una società allargata. Altrimenti, rischiano di essere sopraffatte di chi è più sicuro della propria identità.

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